Effetto COVID: la pandemia arresta l'economia della Cina
Asia & Pacific

Effetto COVID: la pandemia arresta l'economia della Cina

By Gianmarco Scortecci
04.21.2020

Lo scorso venerdì 17 aprile, l’Istituto Nazionale di Statistica (INS) della Cina ha pubblicato i dati ufficiali sull’andamento economico del Paese per il primo trimestre del 2020. I punti più salienti riguardano il crollo del Prodotto Interno Lordo (PIL), il quale ha registrato un -6,8% su base annua e un -9,8% rispetto al trimestre precedente. Queste cifre erano in parte attese, come conseguenza della prolungata crisi sanitaria dovuta al nuovo Coronavirus (Covid-19), che aveva costretto il governo a chiudere alcune aree ad alta concentrazione di attività produttiva e, in generale, scatenato uno spillover notevole in termini di danni al tessuto economico cinese. Tuttavia, il crollo conferma un peggioramento delle stime medie preliminari, che si erano fermate ad un 6% circa, e rappresenta la peggiore battuta di arresto della crescita economica del gigante asiatico dal 1992, anno in cui l’INS cinese ha cominciato a pubblicare statistiche trimestrali di questo tipo.

Il dato sul PIL è la cartina di tornasole della generale congiuntura cinese, che ha inevitabilmente risentito dello scoppio della pandemia, e degli effetti generati dalle misure di contenimento sull’economia del Paese, che ancora fatica a beneficiare della riapertura. Ad esempio, le vendite al dettaglio hanno registrato un importante calo del 15,8%, sintomo del fatto che la ripartenza dei consumi, al di là dei beni di necessità, è ancora estremamente limitata. Parimenti, gli investimenti hanno riportato un -16,1% rispetto a un anno prima, segnando un altro campanello d’allarme per le prospettive di ripresa, mentre più ottimistico è il segnale giunto dai dati sulla produzione industriale (-1,1%), già significativamente risollevata rispetto ai mesi precedenti, ma non del tutto ristabilita. Più in generale, infatti, l’economia cinese sembra ancora lontana dalla completa riattivazione: secondo il Trivium National Business Activity Index (che mette in relazione l’utilizzo attuale da parte della Cina della propria capacità economica rispetto ai livelli usuali pre-COVID), soltanto l’82,8% della normale capacità produttiva sarebbe attualmente utilizzato.

Il Paese asiatico si trova, dunque, in un momento di transizione molto delicato, che non dipende esclusivamente dall’evoluzione delle condizioni interne, ma è inevitabilmente legato anche alle incognite sulle condizioni dell’economia internazionale. Sebbene in Cina la fase più critica sia stata superata dal punto di vista sanitario e buona parte dell’economia sia tornata in moto, bisogna tener conto che, nel frattempo, la pandemia ha raggiunto un’espansione globale e che questo avrà ulteriori ricadute in termini di commercio internazionale. Il dato ufficiale rilasciato dall’INS segna già un -13,3% sull’export del primo trimestre 2020, ma si deve tener presente che il corso della crisi all’estero è “in ritardo” rispetto a quanto già affrontato da Pechino e che, dunque, la domanda dall’esterno di prodotti cinesi seguiterà ad essere sensibilmente ridotta rispetto all’anno precedente. Poiché i prodotti Made in China hanno come mercati principali Europa e Ameria del Nord, e in entrambi questi scenari le misure di lockdown ancora in vigore non permettono uno sblocco delle economie, l’export potrebbe diventare un tallone d’Achille per la stessa ripresa di Pechino.

Una variabile chiave per cercare di sbloccare il processo di rilancio dell’economia è rappresentata dalle scelte che il governo andrà fare nelle prossime settimane dare supportare il piano d’aiuti finora attivato dalle autorità, che varrebbe circa l’1,7% del Pil. Un primo passo in questa direzione, è stato segnato dall’approvazione da parte di Pechino di una nuova serie di misure fiscali, quali emissione di bond infrastrutturali, prestiti agevolati per le imprese più in difficoltà, intensificazione del supporto agli enti del settore bancario. Si è trattato di provvedimenti espansivi, alcuni convenzionalmente utilizzati dal governo, altri di natura più eccezionale. Fra le misure straordinarie, spicca la decisione di ricorrere a bond speciali del governo centrale. La Cina fa ricorso a questo strumento soltanto in isolati casi di cruciale rilevanza (solo due, di fatto, i precedenti in questo senso: la crisi finanziaria asiatica degli anni ’90 e la creazione del fondo sovrano China Investment Corporation nel 2007). Nonostante l’arrivo di queste particolari obbligazioni, che non rientrano nell’ortodossia della politica economica di Pechino, il governo cinese sembrerebbe non propendere per il “bail out”,  ossia un salvataggio basato su massicce dosi di liquidità a tasso d’interesse molto contenuto, come chiave di salvezza dell’economia nazionale.

Infatti, le autorità sono restie a intraprendere poderose iniezioni di denaro, per il fatto che sia il debito pubblico che quello privato sono ormai di entità molto rilevante. Le emissioni dei governi locali sono state molto intense nel corso degli anni e il rapporto al PIL sembrerebbe ormai attestarsi intorno al  40%. Inoltre, in un momento molti degli asset detenuti da banche e privati sono resi poco performanti a causa degli shock scatenati dalla pandemia, aggiungere altro debito sulle spalle del settore bancario e dei privati potrebbe aggravarne ulteriormente la performance finanziaria, con un pericoloso effetto a cascata sulla normalizzazione delle condizioni economiche interne.

Date le performance dell’economia, i vertici del Partito Comunista Cinese (PCC) si trovano ora costretti a ristudiare gli obiettivi di crescita ufficiali. La strategia di lungo corso del PCC prevedeva il simbolico obiettivo del raddoppio del Prodotto Interno Lordo nel corso di un decennio, da concludersi entro fine 2020, ovvero in concomitanza con il centenario del Partito. Quest’anno sarebbe bastato un +5,6% per raggiungere, con relativa agilità, il target di lungo periodo. Il “cigno nero” della contrazione discussa, tuttavia, renderà pressoché irrealizzabile questo piano. Infatti, secondo le stime del Fondo Monetario Internazionale, l’anno in corso registrerà, al più, una crescita dell’1,2%.

Il problema si estende ben oltre la semplice distinzione nominale, in quanto anche il Presidente Xi Jinping aveva intenzione di perseguire il citato traguardo decennale, dopo aver fregiato la propria leadership del costante raggiungimento degli obiettivi economici ufficialmente fissati. Inoltre, la ripida discesa del tasso di crescita verso cui si avvia la prestazione economica di quest’anno segue le più dolci, ma già cronicizzate, diminuzioni della performance espansiva negli scorsi anni. Dati alla mano, la crescita era stata del 6,1% sul Pil nel 2019, in chiaro calo dopo il 6,7% dell’anno precedente, e comunque lontana dai valori in doppia cifra cui il Paese si era abituato nel quinquennio 2003-2007. Per quanto il significato del PIL possa essere spesso effimero, in qualità di benchmark eccessivamente semplificativo, in questo caso ci sarebbe in ballo la realizzazione di un piano di lungo corso, su cui il Partito aveva investito risorse ingenti e riposto non poche speranze anche in termini di soft power.

Al mancato raggiungimento degli obiettivi di crescita, tra l’altro, potrebbe sommarsi il rischio di fallire anche il progetto di “poverty eradication”: altro caposaldo dell’agenda dello Stato e, analogamente al piano di crescita, altro disegno la cui realizzabilità era del tutto in linea con i trend dell’economia cinese pre-Coronavirus. Si pensi che, sempre secondo l’Istituto Nazionale di Statistica della Cina, i cittadini al di sotto della soglia di povertà erano scesi a poco più di 5 milioni nel 2019 (rispetto ai circa 100 milioni registrati appena 7 anni prima). Il superamento della povertà è forse ancor più preminente fra le priorità di Xi, il quale lo scorso marzo aveva ribadito la “promessa solenne” fatta dal Comitato Centrale del PCC nei confronti degli indigenti.

Difficile capire come (e se) il PCC abbia intenzione di riassegnare le proprie priorità. L’occasione per disegnare un nuovo piano economico, dal punto di vista politico, non mancherà in quanto la plenaria annuale è stata posticipata (di solito si tiene nella prima parte di marzo)  dovrebbe ora svolgersi tra la fine di aprile e le prime settimane di maggio. In chiave operativa, il governo potrebbe utilizzare quel momento per mettere ordine in alcuni capitoli di spesa inefficienti, messi a bilancio dalle amministrazioni di livello provinciale. Il problema permane, però, dal punto di vista strettamente finanziario, in quanto il margine di manovra è senz’altro limitato e, quando si tratta di rivedere al ribasso gli obiettivi economici, il governo va di fatto a ridimensionare le prestazioni di cui era ormai divenuto un affidabile e stimato garante.

Ciò potrebbe causare, come ulteriore conseguenza, dei problemi sulla stabilità del Paese. Il peggioramento delle condizioni economiche e un eventuale aumento della disoccupazione potrebbero fomentare malcontento da parte di una popolazione che, per certi versi, aveva cominciato a dare per scontata la maturazione costante di dividendi economici da incamerare. Una battuta d’arresto della crescita, che intaccasse alle fondamenta gli interessi di quella nuova classe media che ha dettato la trasformazione interna al sistema cinese dell’ultimo decennio, potrebbe far venir meno la fiducia di alcune fasce della popolazione rispetto al governo e alla capacità delle autorità di tutelare gli interessi della popolazione. Come già emerso durante i primi mesi di diffusione del contagio, la gestione dell’emergenza sanitaria ha fatto sorgere focolai di protesta in diverse zone del Paese, in primis nell’epicentro di Whuan (provincia di Hubei). La scelta stessa del Presidente Xi di affidare a uomini di sua fiducia incarichi chiave, come la gestione della dirigenza del Partito della provincia di Hubei (affidata a febbraio a Ying Yong), sembra rispondere alla volontà di mettere in sicurezza la gestione della fase più critica, per evitare ogni possibile contraccolpo in attesa della ripresa.

A questo proposito, le misure intraprese sono da leggersi anche nell’ottica di un traghettamento verso la fase di “rimbalzo”. Gli stessi outlook presentati dall’FMI infondono ottimismo alla Cina. Pare, infatti, che già dal 2021 il Paese potrebbe avviarsi ad un recupero, con proiezioni per la crescita oltre il 9%. Pertanto, le manovre di aiuto avviate dalle autorità in questo momento critico si propongono di trasformare tali stime in una sorta di profezia che si auto-avvera, ovvero di costruire il trampolino di lancio che riporti gradualmente il Paese verso una normalità, che garantisca non solo prosperità economica, ma soprattutto stabilità interna.

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