Dalla sovversione al soft power: le strategie di Mosca nei Balcani occidentali
I Balcani occidentali rappresentano da sempre uno degli scenari politici internazionali di maggiore interesse, caratterizzato da un’eterogeneità di players ivi operanti. Lo scacchiere balcanico si contraddistingue, infatti, per una pluralità di attori, occidentali e non, i quali perseguono nella regione interessi diversi. Se sul finire del secolo scorso, una forte presenza era stata esercitata dall’UE e dalla NATO, specialmente nel contesto delle guerre connesse alla dissoluzione della Jugoslavia, negli anni a seguire, complice anche lo stallo dei negoziati per l’adesione alla UE, i cosiddetti Western Balkan Six, ovvero Albania, Bosnia Erzegovina, Macedonia del Nord, Montenegro, Kosovo e Serbia, hanno assistito all’affermarsi dell’attività di attori extra-europei, principalmente per motivazioni di natura politico-economica. Per quanto la caduta del regime sovietico e la fine della Jugoslavia possano far pensare ad un assorbimento nell’orbita occidentale dei WB6, è pur vero che Stati quali la Russia continuano ad esercitare la propria influenza nella penisola, agevolati, in primo luogo, dalla prossimità geografica.
La politica estera russa attribuisce ai Western Balkans un’importanza strategica per il consolidamento della propria ingerenza soprattutto in chiave antioccidentale. Difatti, la penisola balcanica costituisce per Mosca la via prediletta per un accesso diretto al “Vecchio Continente” e che le permette di contrastare la presenza europea nell’area, di alimentare lo scetticismo nei confronti di Bruxelles e di proporsi quale alternativa all’Occidente. Al fine di perseguire i propri obiettivi, il Cremlino si serve di un ampio range di strumenti che variano dalla coercizione, alla sovversione e alla cooptazione. Pur consapevole della necessità di mezzi tipici anche del soft power per un esercizio di influenza regionale a 360° – che vede una concreta applicazione nell’apertura di centri culturali come la Russkiy Mir Foundation, volta alla creazione di un’identità “pan-slava” e di una civiltà russo-ortodossa, fondate in primo luogo sulla condivisione della fede religiosa e sull’idea di offrire un’alternativa alla cultura occidentale – è tuttavia nel ricorso ai poteri forti che la politica estera russa sembra trovare fondamento.
In primis, la penetrazione russa dei mercati energetici europeo ed asiatico costituisce uno degli obiettivi principali del governo moscovita, come testimonia anche il completamento del gasdotto Nord Stream 2, a riprova del fatto che, per quanto l’Europa cerchi di diversificare le proprie fonti di approvvigionamento, il crescente fabbisogno energetico interno spinge a ricorrere al “vicino russo”. La multinazionale russa Gazprom Neft continua infatti ad essere il principale fornitore della regione balcanica, sebbene la cooperazione in materia di risorse non rinnovabili si differenzi da Paese a Paese, con la Serbia che rappresenta il principale partner energetico della Russia. Nello specifico, l’influenza del governo di Mosca si riflette in investimenti nel settore degli idrocarburi, con Gazprom quale primo azionista della società serba Naftna Industrija Srbije con uno share del 56.15%, nonché nell’apertura del gasdotto BalkanStream, parte del ben più ampio progetto TurkStream. La stessa Macedonia del Nord dipende ampiamente dalle importazioni di gas russo e difatti, con l’inaugurazione del gasdotto nel 2020, il Paese ha assistito ad un incremento delle importazioni ben oltre superiore ai 0,3 miliardi di metri cubi acquistati nel 2019.
Fino al 2019 l’annosa querelle con la Grecia circa il nome del Paese aveva consentito al Cremlino di rafforzare le proprie posizioni, data l’impossibilità del Governo di Skopje di unirsi alla UE e alla NATO e, di conseguenza, di completare il processo di integrazione con l’Occidente. Con l’obiettivo di fomentare la discordia tra le popolazioni locali, Mosca ha avviato campagne di disinformazione volte ad ostacolarne l’ingresso in Europa, mediante l’impiego della “parallel diplomacy” e dei businessmen vicini al Cremlino, adoperandosi per impedire la ratifica dell’Accordo di Prespa tra le contro-parti greca e macedone. Nell’intento di bloccare i negoziati tra i due Stati, il governo russo si è servito di un ex-parlamentare della Duma, Ivan Savvidis, da anni residente in Grecia, che avrebbe pagato la somma di 300 mila euro ai nazionalisti macedoni di estrema destra, al clero greco e alcuni funzionari del Governo di Atene per alimentare l’opposizione circa i negoziati relativi alla disputa per il nome del Paese. Tuttavia, la risoluzione di quest’ultima ed il conseguente ingresso del Paese nel Patto Atlantico hanno contribuito a raffreddare le relazioni tra i due Stati, con la Macedonia che continua a gravitare sempre più verso occidente.
Dunque, la strategia della sovversione, attuata mediante campagne di disinformazione tese ad indirizzare l’opinione pubblica sulle linee di pensiero del governo russo, sembra essere uno degli strumenti prediletti dal Cremlino per l’esercizio d’influenza. In altri casi, tuttavia, la sovversione assume manifestazioni più dirette e violente. Esemplificativo nel senso, è il caso del Montenegro, il cui tentato golpe del 2016 è da ricondursi al gioco russo nel Paese, al fine di ostacolarne l’ingresso nell’Alleanza Atlantica. In occasione delle parlamentari nell’ottobre 2016, alcuni esponenti nazionalisti, pilotati dall’intelligence militare russa, hanno tentato di rovesciare il governo in carica e di uccidere il Primo Ministro pro-tempore, Milo Đukanović, con lo scopo di instaurare un esecutivo asservito agli interessi russi nel Paese. Difatti, il piano di rovesciare il Partito Democratico dei Socialisti, al potere dal 2006, che più ha spinto per l’ingresso del Montenegro nella NATO, sarebbe stato ordito da un’entourage serba – “I Lupi” – guidata dall’ex capo della Gendarmeria del Ministero degli Affari Interni della Serbia, Bratislav Dikic, nell’intento di sostituire il governo pro-occidentale con uno filo-russo. Nondimeno, la mancata riuscita del golpe ha contribuito a ledere la posizione di Mosca nella penisola, se si considera la successiva estensione della membership trans-atlantica al Montenegro nel giugno 2017.
A latere dell’ingerenza politica, la Federazione Russa continua ad esercitare pressione favorendo attività illegali nella penisola e, in particolar modo, in Montenegro, in virtù della posizione strategica lungo la rotta balcanica e della marcata debolezza delle istituzioni locali. Difatti, il riciclaggio di denaro costituisce un’ulteriore arma alla mercé russa per esercitare pressione nonché uno dei principali introiti per lo Stato balcanico, il cui fragile e corrotto sistema politico consente ai magnati russi di introdurre nel Paese ingenti flussi di denaro derivanti da proventi illeciti. Emblematico è il caso dell’Asti Services Ltd, azienda registrata nel Belize, destinataria di notevoli somme di denaro da alcune società delle Isole Vergini Britanniche e che avrebbe acquisito un edificio sulla costa montenegrina con i proventi illeciti connessi ad una frode smascherata dal consulente fiscale russo Magnitsky agli inizi del decennio scorso. L’Asti Services Ltd è stata, infatti, creata dalla banca d’investimento russa Troika Dialog, che ha gestito la Troika Laundromat, rete offshore finalizzata all’evasione fiscale e al riciclaggio di denaro sporco che avrebbe movimentato 7,9 miliardi di euro attraverso più di 70 aziende di comodo offshore.
Sebbene pressioni di natura economica siano un importante leverage per mezzo del quale il Cremlino riesce ad imporsi nella regione, tuttavia la crescente presenza di attori extra-europei come Cina, Turchia e Paesi del Golfo, sembrerebbe compromettere la posizione che la Russia ha gradualmente costruito nel corso degli anni all’interno dell’area. Lo stesso partenariato con la Serbia, che da sempre costituisce il principale alleato del Cremlino nella regione, data la condivisa identità storico-culturale, sembra attraversare una fase di raffreddamento, che ha raggiunto l’apice con la decisione del governo serbo di non prendere parte alle esercitazioni militari della “Slavic Brotherhood 2020”. Belgrado avrebbe appoggiato la UE nella disputa con la Russia in merito alla questione delle proteste in Bielorussia ed avrebbe inoltre rafforzato la cooperazione militare con la Cina, come testimoniato dall’acquisto del sistema missilistico antiaereo cinese FK-3 in sostituzione di quello russo S-300 nell’agosto 2020.
Nondimeno, se da un lato le relazioni lungo l’asse Mosca-Belgrado sembrano attraversare una fase di gelo, dall’altro la Federazione Russa è in grado di esercitare pressione in maniera diretta sul governo serbo mediante l’irrisolta questione del Kosovo. Difatti, il ruolo di Membro permanete del Consiglio di Sicurezza Onu offre alla Russia una serie di strumenti diplomatici per supportare la Serbia sulla questione kosovara, usando la leva politica internazionale come strumento di ricatto.
Dunque, il modus operandi del Cremlino, che oscilla tra posizioni forti e un potere di tipo maggiormente coercitivo, offre spunti per una riflessione sul futuro della regione. È evidente come la Penisola Balcanica rimanga tuttora teatro di confronto tra attori occidentali da un lato, in primis l’UE e la NATO, e attori orientali dall’altro. Un’ulteriore estensione della membership di suddette, correlata alla crescente espansione di players esterni, costituirebbe un fattore determinante per la contrazione dell’ingerenza russa nei WB6. Discorso a parte merita, invece, la crescente presenza della Cina nei Balcani, che apre nuovi fronti di preoccupazione per i partners europei che non vedono di buon occhio il progetto Belt & Road Initiative, poiché fa della penisola un importante nodo commerciale tramite il quale accedere ai mercati dell’area del Mediterraneo.