L’incerta transizione politica dell’Algeria
Medio Oriente e Nord Africa

L’incerta transizione politica dell’Algeria

Di Roberto Saverio Caponera
25.03.2019

Per circa vent’anni, la Repubblica Democratica e Popolare d’Algeria è stata governata da Abdelaziz Bouteflika, uomo carismatico che riuscì a mettere un termine al “decennio nero”, una sanguinosa guerra civile costata, secondo le stime più caute, più di 100.000 morti.

Il 10 febbraio 2019, con una lettera indirizzata alla nazione, l’ottantaduenne Presidente ha annunciato nero su bianco la sua candidatura per le elezioni del 18 aprile, nonostante il suo fragilissimo stato di salute dovuto a un ictus sofferto nel 2013. Di fronte alla prospettiva di un quinto mandato consecutivo di Bouteflika, centinaia di migliaia di algerini si sono quindi riversati nelle strade delle principali città, protestando per il “mandato di troppo” e dando vita alle più imponenti manifestazioni di piazza degli ultimi trent’anni.

Nonostante la portata storica dei raduni del 22 febbraio e del 1° marzo, il 3 marzo Abdelghani Zaalane, direttore della campagna elettorale di Bouteflika, nonché genero del potente Capo di Stato Maggiore Ahmed Gaid Salah, ha depositato presso il Consiglio Costituzionale la candidatura del Presidente della Repubblica, aggirando il principio che obbliga i candidati presidenziali a depositare di persona la propria candidatura. Il giorno stesso Zaalane è apparso alla televisione per leggere un messaggio del Presidente, in Svizzera dal 24 febbraio per controlli medici. Nel messaggio, Bouteflika ha sostenuto di aver compreso le ragioni dei manifestanti e ha affermato che, in caso di rielezione, dopo un anno di governo avrebbe rimesso il mandato presidenziale per indire elezioni anticipate. Tuttavia, la flebile apertura al dialogo non è stata ritenuta sufficientemente ampia, e l’8 marzo la popolazione algerina ha invaso in massa e pacificamente le strade di molte città principali. La mobilitazione è proseguita anche dopo il ritorno di Bouteflika in Algeria, arrivato nella notte tra il 10 e l’11 marzo. Alle ore 18.17 dell’11 marzo, un comunicato dell’Algerie Press Service, agenzia di stampa nazionale, ha trasmesso una lettera di Bouteflika nel quale si annunciano il ritiro della candidatura e l’annullamento delle elezioni di aprile, rimandate a data da definirsi.

L’avvio di una pacifica transizione politica, cominciata con la sostituzione del Primo Ministro Ahmed Ouyahia con il Ministro dell’Interno Noureddine Bedoui, sembra aprire nuovi, inediti scenari per il futuro del Paese. Tuttavia, all’ombra di questi storici eventi, si scorge una sfida per la successione alla Presidenza, cominciata già all’alba del quarto mandato di Bouteflika, nella quale si affronteranno le varie componenti del potere algerino. Difficile, infatti, non tener conto di un complesso e ancorato sistema di potere, nato dalle speranze della guerra d’indipendenza e dalle rovine della guerra civile.

Una teoria dell’equilibrio politico in Algeria

Houari Boumediène, secondo Presidente della Repubblica ed eroe della guerra d’indipendenza, definì l’Algeria “il Paese da un milione di martiri”, per rimarcare il ruolo che la guerra contro la Francia (e dunque l’esercito rivoluzionario) ebbe nel plasmare la nascente identità nazionale algerina. Boumediène, colonnello dell’Armata di Liberazione Nazionale (ALN), il braccio militare del Fronte di Liberazione di Nazionale (FLN), comandava la componente bellica della rivoluzione, che prese il sopravvento sulla parte politico-intellettuale rappresentata da Ahmed Ben Bella. Fu proprio Boumediène, una volta deposto Ben Bella con un colpo di mano non violento, a sostenere che l’esercito era la “colonna vertebrale” dell’Algeria mentre la Sicurezza Militare (SM) il suo “midollo spinale”. È racchiusa in quest’affermazione l’essenza del modello di governo costruito da Boumédiène: una continua dialettica, sovente spietata, tra l’anima politica di stampo socialista del FLN e la sovrastruttura militare dell’Armée Nationale Populaire (ANP), nucleo originario del potere spesso formata nelle accademie militari di Mosca e San Pietroburgo. Ma la dialettica rimaneva esclusivamente interna alle istituzioni: mentre l’Algeria di Boumediène riconosceva il FLN quale unico partito di governo, questo delegava opacamente all’Esercito le decisioni fondamentali. Era dunque un potere bicefalo ma asimmetrico, poggiato su un’economia di stampo socialista irrorata da ingenti introiti da idrocarburi.

La componente economica assicurava alla popolazione un discreto grado di benessere, grazie alle politiche di redistribuzione della manna petrolifera. Come lo descrisse bene l’antropologo algerino Abderrahmane Moussaoui, la generosa politica di welfare statale suggellava un tacito accordo tra governanti e governati, un contratto sociale sui generis. In cambio della totale delega del potere decisionale, la popolazione esigeva una “generosità necessaria” da parte dello Stato, fatta di sussidi, aiuti e prebende.

La prima rottura degli equilibri

Tale equilibrio cominciò a vacillare nella seconda metà degli anni ottanta. Era l’epoca di Chadli Benjedid, successore di Boumédiène, che fu obbligato a rivedere drasticamente il welfare statale dopo il crollo dei prezzi del petrolio del 1985.

Nelle pieghe della crisi, tra degrado economico e crescente frustrazione, nacque un terreno propizio all’impianto di cellule islamiste, in particolar modo salafite. Questi nuclei, radunati attorno ad a_wqaf_ (plurale di waqf, fondazione caritatevole islamica) e operanti fuori dal controllo del Supremo Consiglio Islamico d’Algeria, agirono come welfare sostitutivo a quello statale, divenendo un effettivo mezzo di attenuazione della povertà. Il “partito della moschea”, come lo chiamava Benjedid, cominciò a canalizzare lo scontento in azione politica. Stava venendo meno la “generosità necessaria” dello Stato e nell’ottobre 1988, le numerose correnti dell’islamismo politico organizzarono imponenti manifestazioni in tutte le grandi città del Paese, culminate in violente repressioni e l’uccisione di 500 manifestanti ad Algeri. A seguito di questi eventi, Benjedid annunciò l’avvio di un processo elettorale, mettendo fine al governo del partito unico.

Vinte le elezioni municipali del 1990, il Fronte Islamico della Salvezza (FIS), che radunava al suo interno le molteplici anime dell’islamismo politico, vinse anche il primo turno delle elezioni legislative nel dicembre 1991. Commentando la rovinosa sconfitta durante una riunione del FLN, Benjedid domandò come poter vincere contro un partito che, a suo dire, poteva contare cinque appuntamenti al giorno e un congresso alla settimana. Coscienti di una probabile vittoria del FIS alla seconda tornata elettorale, l’11 gennaio 1992, due giorni prima del ritorno alle urne, un gruppo di ufficiali dell’esercito decise di mettere fine all’esperimento democratico, esautorando Benjedid dalle funzioni presidenziali. I generali “janvieristi” (da janvier, gennaio) s’impadronirono del potere e crearono l’Haut Comité d’Etat (HCE), organo politico sotto stretto controllo militare, utile a conferire una parvenza di legittimità ai decisori politici. In un’intervista rilasciata nel 2002 al giornale El Watan, Benjedid affermò che non era riuscito a convincere i militari a procedere con il processo elettorale; questi ultimi temevano la penetrazione degli islamisti nelle istituzioni fondamentali dello Stato. Tra gli ufficiali janvieristi figurava anche il generale Mohamed Médiène detto “Toufik”, l’uomo che aveva riformato la Sicurezza Militare creando il potentissimo Département du Renseignement et de la Sécurité (DRS), da lui stesso comandato fino al 2015. Médiène, soprannominato da amici e nemici “Rab Djazair”, il “Signore dell’Algeria” creò una temibile macchina di sorveglianza, che secondo alcuni storici arrivò a contare più di 100.000 informatori disseminati nel Paese.

L’equilibrio politico algerino fu stravolto dalla presa di potere dei militari a discapito della Presidenza, ritenuta incapace di arginare l’islamismo politico. Questi eventi convinsero alcuni oppositori del FIS a prendere le armi, precipitando il Paese nel decennio nero. Inoltre, la dialettica politica si spostò interamente all’interno delle sfere militari: discordie di governo e rivalità personali riguardavano solo una stretta cerchia di Generali spesso in competizione tra loro.

L’ascesa di “Boutef”

L’avvento alla Presidenza nel 1999 di “Boutef”, nomignolo oggi divenuto popolare con l’inesorabile passare degli anni, s’iscrisse nel solco abituale della gestione del potere in Algeria, un sistema a partito unico basato sulla cooptazione di un candidato presidenziale da parte dell’autorità militare.

La progressiva riduzione delle violenze aveva spinto il generale Larbi Belkheir a richiamare Abdelaziz Bouteflika, ex Ministro degli Esteri dell’era Boumediène, esiliatosi in Svizzera per sfuggire alle politiche di “deboumedienizzazione” avviate da Benjedid. Una volta eletto, il generale Belkheir – janvierista della prima ora – divenne capo di gabinetto di Bouteflika. Uomo di politica e diplomazia dalle estese relazioni internazionali, il neo-presidente aveva il compito di portare la pace nel Paese, con l’esplicito imprimatur dell’apparato militare. Tuttavia, per smarcarsi da una presunta subalternità al potere militare, nel suo discorso d’insediamento affermò di non volere essere soltanto un “trois-quarts de Président”, un Presidente a metà, ma di voler imprimere una svolta decisiva al Paese.

Infatti, tra i primi provvedimenti, significativa è la legge sulla “Concordia Civile”, un’iniziale amnistia per i combattenti del Fronte Islamico della Salvezza, che diede inizio al lungo processo di pace, culminato nel 2005 con l’adozione della “Charte pour la paix et la réconciliation nationale**”**. Con la pace tornarono gli affari. Sono gli anni del famoso “commando del Sofitel”, un plotone commerciale di 120 imprenditori francesi sbarcato ad Algeri per procacciare affari e contratti, pernottando al Sofitel, da poco riaperto. Sono anche gli anni in cui prende forma una ricca classe imprenditoriale e industriale che si doterà, nell’ottobre del 2000, di un organo di rappresentanza denominato “Forum des Chefs d’Entreprise (FCE), oggi presieduto dall’imprenditore siderurgico – vicinissimo alla cerchia presidenziale – Ali Haddad.

Bouteflika riuscì davvero a pacificare il Paese, creando un crescente consenso attorno alla Presidenza della Repubblica. Durante il secondo mandato, forte dei successi ottenuti, Bouteflika decise di allontanare la vecchia dirigenza politico-militare del “decennio nero”, portando a termine la promessa del 1999. Ci riuscì nel 2004, nominando un suo fedelissimo, Ahmed Gaid Salah, a capo dello Stato Maggiore. Si pensi che, solo un anno prima, il janvierista Mohamed Lamari, all’epoca Capo di Stato Maggiore, aveva consegnato al Presidente una lista di ufficiali da congedare, tra cui figurava proprio Gaid Salah. Si racconta che Bouteflika chiamò personalmente l’interessato, chiedendogli scherzosamente se voleva davvero abbandonare il suo Presidente. La nomina di Gaid Salah, tutt’oggi in carica, dava il via a un lungo processo di cambio ai vertici delle sfere militari, come la conveniente promozione del generale Belkheir ad Ambasciatore d’Algeria a Rabat in modo da allontanarlo dai giochi politici interni.

Modificata la Costituzione nel 2006 e decaduto il limite dei due mandati presidenziali, Bouteflika rinforzò considerevolmente il ruolo della Presidenza della Repubblica. La forte crescita dei prezzi del petrolio, che raggiunsero picchi mai visti nel 2008 e nel 2012, sigillò ulteriormente l’equilibrio politico intorno a Bouteflika, ormai al suo terzo mandato.

Il quarto mandato e la frammentazione del potere

Dopo l’ictus del 2013, il potere, concentrato nelle mani del Presidente, è scivolato lentamente a quelle dei suoi consiglieri. Questi sono i fratelli di Bouteflika, Said, Nacer e Abdelghani, che sostituiscono Abdelaziz, ormai anziano, stanco e gravemente malato, nella gestione dell’esecutivo. Anche simbolicamente, il Presidente si è spostato dal Palazzo di El Mouradia, sede storica della Presidenza della Repubblica, alla residenza privata di Zeralda, dotata di tutte le apparecchiature mediche necessarie, dove vive con il resto della famiglia. Si è così rafforzato nell’immaginario comune l’esistenza del “Clan di Nedroma”, soprannome dispregiativo che ricorda il villaggio di provenienza dei Bouteflika. In compenso, i gravi problemi di salute del Presidente non hanno impedito alla cerchia presidenziale di mantenere un saldo accentramento del potere, allontanando le figure rivali troppo ingombranti. Piuttosto, l’indebolimento fisico del Presidente spingerà la cerchia presidenziale ad aumentare la pressione sulle varie componenti del potere, per assicurare la rielezione del fratello.

Nel febbraio 2014, il Segretario del FLN Amar Saadani ha lanciato dal sito TSA una critica al generale Toufik, considerato “l’ultimo dei janvieristi” ancora in circolazione. È la prima volta che un politico del FLN critica pubblicamente il temuto capo del DRS, in carica ormai da un quarto di secolo. Questo attacco anticipava una storica riforma degli apparati di sicurezza. Con la nomina di Gaid Salah a Vice Ministro della Difesa, decine di generali e alti ufficiali sono stati congedati nel 2015. Il DRS invece è passato dal controllo del Ministero della Difesa a quello della Presidenza della Repubblica. Il congedo del generale Toufik, rimpiazzato dal generale Athmane Tartag detto Bachir, ha dominato le prime pagine di tutti i quotidiani nazionali.

Le azioni della cerchia presidenziale, soprattutto dopo la quarta elezione di Bouteflika, creeranno profonde fratture all’interno delle istituzioni. Non è un caso che per le elezioni del 2019, l’unico candidato credibile sarebbe stato Ali Ghédiri, Generale in pensione, ex direttore del personale al Ministero della Difesa. Secondo il ben informato sito francese Mondafrique, Ali Ghédiri farebbe parte dei generali congedati durante l’epurazione del 2015. Il 28 gennaio 2019, un altro sito francese, Maghreb Intelligence, ha pubblicato una nota sui potenti appoggi del generale, tra cui quello di Issad Rebrab, patron del gruppo Cevital, uomo più ricco d’Algeria e una delle più importanti fortune d’Africa. Rebrab, da anni in rotta con la cerchia presidenziale, avrebbe addirittura offerto al candidato presidenziale una villa nel prestigioso quartiere di Hydra, zona diplomatica e affaristica di Algeri, da utilizzare come quartier generale per la campagna elettorale. Rebrab fu d’altronde uno di quei capitani d’industria ad abbandonare il FCE, all’indomani della quarta elezione di Bouteflika, dopo che l’organizzazione padronale sostenne con convinzione il quarto mandato del Presidente uscente. Non a caso Ghédiri, in un’intervista rilasciata ad Agenzia Nova l’8 febbraio scorso, ha annunciato di voler superare la cosiddetta legge 49/51 che vieta gli investitori stranieri di possedere più del 49%, obbligandoli a joint ventures con operatori algerini, spesso legati ai potentati locali.

Scenari futuri

L’irrealistica candidatura elettorale di Bouteflika ha quindi messo in moto un processo di ridiscussione dell’intero sistema politico ed economico, cristallizzato sin dalla guerra di liberazione contro la Francia. L’attuale potere politico, incapace di offrire un’alternativa accettabile per la successione alla Presidenza, ha optato temporaneamente per una soluzione tampone, cercando di riguadagnare spazi di manovra più ampi possibile. Sicuramente, il periodo di concertazione avviato con il rinvio delle elezioni offrirà tempo prezioso per costruire un processo di transizione credibile. Le prossime elezioni si terranno dopo una conferenza nazionale, che dovrà elaborare il testo di una nuova costituzione da sottoporre a referendum. Nel frattempo verrà istituito un organo elettorale libero e indipendente che garantirà la regolarità delle elezioni. A dirigere la conferenza nazionale è Lakhdar Brahimi, diplomatico di lungo corso nelle Nazioni Unite, figura di prestigio considerata estranea alla politica interna e con importanti relazioni internazionali. Tuttavia, l’ottantacinquenne Brahimi, ex Ministro degli Esteri fino al 1993 che partecipò suo malgrado al rovesciamento di Benjedid, avrà difficoltà nei mesi a venire a convincere la piazza sull’importanza del dialogo.

Per il Paese si prospetta un periodo di travaglio politico. I centri di potere reale, individuati nella Presidenza, nell’apparato militare e nei servizi di sicurezza, sono divisi o danneggiati.

Il quarto mandato di Bouteflika ha indebolito gravemente l’immagine della Presidenza, retta ormai dai fratelli Bouteflika e dai loro fedelissimi. Agli occhi di una parte della popolazione, il cosiddetto “Clan di Nedroma” appare sempre più illegittimato a governare. Sarà però la cerchia presidenziale a dirigere, almeno inizialmente, la fase di transizione. Eppure, la promessa di una reale transizione democratica ha suscitato grandi speranze nella popolazione. Se disattese, i manifestanti di ieri potrebbero domani reclamare con più veemenza dei cambiamenti del sistema. Se dalla transizione venisse fuori un illusorio maquillage dell’odierno sistema di potere, nuove proteste scuoterebbero il Paese. Il tutto su uno sfondo di crisi economica, legata al calo dei prezzi degli idrocarburi, principale fonte di reddito del Paese.

D’altra parte, riforme e congedi del 2015 hanno diviso l’apparato militare, formalmente controllato da Ahmed Gaid Salah, ma al cui interno coesistono diverse visioni del Paese. La discesa in campo di Ghédiri, ex generale vittima dei congedi del 2015, sarebbe una prova che le resistenze alla cerchia presidenziale si stanno coagulando. Lo stesso generale Ahmed Gaid Salah, fedelissimo di Bouteflika, potrebbe voler giocare un ruolo di primo piano nel futuro del Paese, una volta terminato l’attuale mandato. Tale eventualità rischia anch’essa di riaccendere, con più violenza, le proteste.

In cauda venenum, è necessario tener presente che negli anni Novanta, la creazione delle prime cellule terroristiche fu possibile grazie al ritorno dei numerosi “afghani-algerini”, ossia i mujahidin partiti per combattere l’invasione sovietica e ritornati dieci anni dopo, negli anni novanta, dopo il ritiro dei russi. Furono questi “veterani” a fondare le prime cellule terroristiche del Groupe Islamique Armé (GIA), divenuto in seguito il Groupe Salafiste de Prédication et de Combat (GSPC), costituite con lo scopo di rovesciare il regime socialista e laico del FLN. Oggi, per quanto non si abbiano cifre precise sui foreign fighters algerini presenti nel Siraq, il ritorno dei veterani algerini, come anche di tunisini e marocchini, potrebbe pregiudicare ulteriormente il quadro politico del Paese, quanto mai instabile e delicato.

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