Quattro anni di Act East Policy per l’India di Narendra Modi
Asia e Pacifico

Quattro anni di Act East Policy per l’India di Narendra Modi

Di Tiziano Marino
05.06.2018

Sono trascorsi quattro anni dall’avvio della Act East Policy (AEP), la nuova strategia regionale voluta dal Primo Ministro Narendra Modi allo scopo di migliorare la connettività e la comunicazione dell’India con l’Est e il Sudest asiatico. Sviluppatasi in un contesto caratterizzato dalla crescente influenza cinese, la AEP rappresenta un tentativo di ampliare l’approccio essenzialmente economico della trentennale Look East Policy, puntando allo sviluppo della cooperazione strategica e di sicurezza con l’immediato vicinato. Antiterrorismo, sicurezza energetica e marittima, aiuti umanitari e investimenti strategici sono i temi sui quali Delhi ha basato la sua azione negli ultimi anni, ottenendo risultati alterni.

Una prima conseguenza prodotta dal mutamento in corso nella politica estera indiana è rappresentata dalla crescente attenzione per gli affari marittimi. Al fine di incidere nelle dinamiche in corso nel Golfo del Bengala e più ampiamente nell’Oceano Indiano, Delhi, infatti, ha diversificato la sua spesa nel settore Difesa. L’obiettivo, in prospettiva, è quello di disporre di una Blue Water Navy, in grado di agire attivamente e in profondità. Ciò rappresenta una svolta per un Paese da sempre concentrato sulla sua dimensione continentale, da cui storicamente derivano le principali minacce alla sicurezza nazionale.

La AEP di Modi ha inciso nei rapporti bilaterali e, con alterne fortune, ha cercato di ampliare l’influenza di Delhi nella regione. Esempio positivo è rappresentato dallo sviluppo delle relazioni con il Bangladesh. Per volere dello stesso Modi il primo passo della nuova strategia è stato compiuto, nel 2015, con la ratifica dell’accordo sui territori di confine che ha posto fine alle reciproche rivendicazioni in corso dagli anni '70. Successivamente sono migliorati i rapporti commerciali ed è stata ampliata la linea di credito accordata alla Repubblica Popolare, la più ampia concessa dall’India a uno Stato estero. La rilevanza strategica del Bangladesh, centrale nei progetti infrastrutturali che coinvolgono India, Bhutan e Nepal (BBIN) e parte integrante dell’Organizzazione di cooperazione economica della Baia del Bengala (BIMSTEC), è complessivamente cresciuta. Proprio per questo Delhi sta cercando di fare leva sul buon rapporto con il governo di Sheikh Hasina per sviluppare tutti i progetti multilaterali che stentano a decollare. La stessa dimensione domestica della AEP, riguardante lo sviluppo della arretrata regione Nord-Orientale dell’India, passa per il Bangladesh. Da parte sua Dacca, ritenendo fondamentale la cooperazione regionale centrata su Delhi per mantenere le attuali performance di crescita economica, sostiene le ambizioni indiane. Tuttavia le preoccupazioni non mancano: dall’operato della polizia di confine indiana, alla crescita del flusso di esportazioni militari cinesi verso il Bangladesh, secondo solo al Pakistan per portata, sono molti i fattori che possono creare instabilità.

Maggiori criticità, tali da pregiudicare le ambizioni della AEP di Modi, derivano dal recente raffreddamento dei rapporti bilaterali con Nepal, Myanmar e Maldive. In particolare, il progressivo logoramento del legame con Kathmandu ha evidenziato la capacità di Pechino di sfruttare al meglio gli spazi concessi dagli errori indiani. La crisi scoppiata nel 2015 e il successivo blocco della frontiera tra i due Stati, ha messo a dura prova la relazione privilegiata tra Nepal e India, scatenando la reazione dell’opinione pubblica nepalese. Tali circostanze hanno spinto il Paese himalayano nelle braccia della Cina e, in breve tempo, i due Stati hanno apposto la firma su importanti accordi commerciali e di transito, procedendo alla prima storica esercitazione congiunta tra le rispettive Forze Armate. Oggi la sfida per la diplomazia indiana è quella di riconquistare il
terreno perduto tanto in Nepal, quanto in Myanmar. Quest’ultimo, attore strategico per posizione e risorse, rappresenta la porta di accesso dell’India al Sud-Est Asiatico. Non a caso proprio il Myanmar fu scelto da Modi per ufficializzare la AEP nel corso del dodicesimo India-ASEAN summit del 2014. Le opportunità, ma anche le principali insidie di questo rapporto, passano per i 1.600 km di confine tra i due Stati. L’ambizione di migliorare la connettività regionale deve fare i conti qui, con la necessità di costruire una barriera di confine per contenere la criminalità transfrontaliera e le spinte autonomiste. L’India, in questi anni, non è riuscita a trasformare i legami culturali e religiosi, in influenza effettiva nel Paese e non rientra nell’elenco delle prime cinque nazioni per investimenti esteri in Myanmar. I principali progetti infrastrutturali, tra cui spiccano la Trilateral Highway, utile a collegare India e Thailandia via Myanmar, e l’ambizioso progetto Kaladan Multi-Modal Transit Transport, sono in forte ritardo rispetto alle previsioni iniziali. Gli investimenti indiani nel settore energetico si sono scontrati con l’assegnazione a Pechino dei maggiori contratti per l’estrazione di gas naturale nello stato di Rakhine. Delhi ha così scelto di puntare sul rilancio dell’export militare al fine di creare una maggiore connessione con Naypyidaw. Nel 2017 sono stati siglati accordi per la vendita di siluri leggeri e l’aggiornamento dei carri armati T-72 in dotazione alle Tatmadaw, le Forze Armate birmane. Tuttavia, la Cina rimane il principale punto di riferimento per il Paese del presidente Win Myint in tutti i principali settori. In questo scenario l’India ha gradualmente modificato il suo approccio rinunciando a fare pressioni sul processo di democratizzazione in corso e avversando le sanzioni volute dagli occidentali per la crisi dei Rohingya. Il rischio è che questo tentativo di inseguire la Cina sul tema della non interferenza risulti poco credibile, oltreché tardivo, e non sortisca gli effetti sperati.

Simili difficoltà e ripensamenti strategici sono in corso anche nel rapporto con le Maldive. La crisi scoppiata nei primi mesi del 2018, ha scatenato un ampio dibattito in seno alla comunità di sicurezza indiana. Come riuscire a mantenere influenza e credibilità nello Stato insulare davanti all’avanzata della Cina, molto vicina al presidente Abdulla Yameen, è il tema che preoccupa Delhi. Restia a replicare l’intervento armato del 1988, l’India sta prendendo tempo consapevole che ogni errore di valutazione non rimarrebbe impunito. Le Maldive, collocate su una fondamentale linea di comunicazione marittima, sono da sempre considerate come il giardino di casa di Delhi e la crescente presenza economica cinese preoccupa da tempo il governo indiano. Nonostante possa apparire secondaria, la partita delle Maldive ha portata enorme. Delhi sa che un atteggiamento troppo permissivo rischia di trasmettere un messaggio di progressivo disimpegno e inaffidabilità a tutti gli alleati regionali, mentre un intervento troppo deciso potrebbe rendere il così detto Beijing consensus, ossia il modello di intervento economico proposto dalla Cina, sempre più allettante.

In questo quadro di crescente complessità, l’India ha partecipato alla ripresa dei Quadrilateral Security Dialogue. A oltre dieci anni dalla prima riunione, la necessità di contenere strategicamente la Cina ha avvicinato nuovamente l’India a Giappone, Australia e Stati Uniti. Parallelamente ai dialoghi sono riprese anche le esercitazioni militari congiunte utili a sviluppare l’interoperabilità, tema cruciale per l’India tradizionalmente contraria a rigide alleanze militari. La partecipazione indiana, incentivata dai crescenti timori per la sicurezza regionale, è stata facilitata anche dal recente allineamento della propria strategia regionale con quella giapponese. Legati dal timore per le iniziative commerciali ed economiche di Pechino i due Paesi, storicamente distanti, hanno accelerato la cooperazione su questioni di sicurezza marittima, stipulando accordi per la condivisione di informazioni militari e lo scambio di tecnologie per la Difesa. Il Golfo del Bengala rappresenta il terreno comune d’interesse condiviso dalla AEP di Delhi e la Free and Open Indo-Pacific Strategy di Tokyo. A tal proposito l’iniziativa Bay of Bengal Industrial Growth Belt (BIG-B), voluta da Shinzo Abe e che prevede l’impiego di ingenti capitali giapponesi in Bangladesh, offre all’India la possibilità di puntare su un alleato di peso nella regione per realizzare i propri obiettivi.

A oggi la AEP non ha prodotto i risultati sperati. Insidiata dalla presenza cinese e gelosa della propria autonomia strategica, l’India non è riuscita a dare seguito alle sue ambizioni anche a causa dei propri limiti strutturali. Il conservatorismo della burocrazia statale, le difficoltà economiche e l’assenza di coordinamento tra i singoli Stati della federazione, hanno inciso sulla AEP di Modi, minandone la proattività. Senza un deciso cambio di passo la politica estera rischia così di passare, da cavallo di battaglia, a tema utile al National Congress, il principale partito di opposizione dell’ esecutivo a guida Modi, per attaccare il governo nella campagna per le elezioni politiche del 2019.

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