Significato e Implicazioni dell’elezione di Corbyn al vertice del Labour Party
Europa

Significato e Implicazioni dell’elezione di Corbyn al vertice del Labour Party

Di Francesco Lembo
20.09.2015

Il 12 settembre scorso, con quasi il 60% delle preferenze al primo turno, Jeremy Corbyn è stato eletto nuovo leader del partito laburista britannico. L’esito delle primarie è stato del tutto sorprendente, non solo perché ha consegnato la guida del partito al candidato meno favorito dai pronostici, ma anche perché il consenso raccolto ha superato persino quello che Tony Blair riuscì ad ottenere ventuno anni prima, quando diede inizio alla stagione del New Labour che dalla metà degli anni ’90 per più di un decennio ha governato il Regno Unito fino all’ascesa del conservatore Cameron nel 2010. Sembra proprio che l’antitesi al “blairismo” sia stata la chiave del successo di Corbyn, membro di minoranza del gruppo laburista alla Camera dei Comuni per circa trent’anni, ma sostanzialmente sconosciuto al grande pubblico sino a qualche mese fa. Egli subentra in carica al dimissionario Ed Miliband, responsabile della pesante sconfitta elettorale subita dal Labour alle ultime elezioni generali del maggio 2015, dovuta in gran parte all’incapacità di conquistare quegli elettori tanto delusi dall’immagine ormai in declino del New Labour quanto colpiti dalle politiche di austerità del governo Cameron.

Grazie proprio al sostegno di migliaia di simpatizzanti che per la prima volta hanno potuto esprimere direttamente la propria preferenza per i candidati leader, offrendo un contributo di tre sterline in cambio del proprio diritto di voto, Corbyn ha vinto nettamente su tutti i suoi rivali e, subito dopo l’annuncio della sua elezione, il partito ha registrato circa quindicimila nuovi iscritti. A quest’ampio consenso nell’elettorato di base del Labour, si è aggiunto poi il supporto di alcune importanti sigle sindacali, sempre fondamentale nella complessa procedura di voto che regola l’elezione del leader del partito. L’esito finale è comunque giunto davvero inaspettato, se si pensa che la candidatura di Corbyn sia maturata piuttosto casualmente in seno allo stesso Socialist Campaign Group, minoranza del Labour che a fatica ha trovato i numeri per consentire a un proprio membro di poter partecipare alla competizione per la leadership.

La sorpresa con cui l’elezione di Corbyn è stata accolta si è registrata nelle parole dei suoi detrattori, siano essi avversari politici o membri del suo stesso partito. Fra i primi si conta lo stesso Cameron che si è immediatamente affrettato a dire come essa rappresenti addirittura una minaccia all’economia e alla sicurezza nazionale. Il programma di Corbyn, infatti, prevede il ritorno alla nazionalizzazione di alcuni settori strategici, come, per esempio, il trasporto ferroviario, a suo giudizio simbolo di come le privatizzazioni che il Regno Unito ha sperimentato a partire dagli anni ’80 abbiano avuto un’evoluzione fortemente deleteria per i diritti dei consumatori, costretti oggi ad affrontare costi esorbitanti per un servizio il più delle volte carente. Inoltre, Corbyn ha lanciato un duro attacco nei confronti della spending review in corso, sottolineando la necessità di mantenere intatti o di ripristinare determinati sussidi economici in ambiti come la sanità, l’istruzione o le politiche abitative. Strenuo pacifista, Corbyn ha sempre professato la sua opposizione alla guerra in Iraq che ha aperto una ferita profonda in una larga parte dell’elettorato laburista a causa delle motivazioni, poi rivelatesi infondate, addotte dall’allora governo di Tony Blair. In tema di difesa, Corbyn ha poi espresso il suo desiderio di abbandonare i piani volti ad ampliare la dotazione nucleare oggi a disposizione del Regno Unito, ponendo degli interrogativi sui futuri sviluppi del programma missilistico Trident.
Ma è soprattutto in seno al suo stesso partito che sono piovute critiche circa la collocazione che il Labour di Corbyn troverà nell’arco politico britannico. Per molti, il rischio è quello di assumere una posizione marginale di estrema sinistra, conducendo una battaglia che richiama i toni, se non le azioni, del Labour Anni ’80, perdente da un punto di vista sia politico che ideologico nei confronti dell’individualismo conservatore di Margaret Thatcher. In sostanza, un “partito fuori dal tempo” in netto contrasto con l’eredità positiva del New Labour, capace, invece, di intercettare i consensi di diversi settori sociali in nome del progresso economico e dell’innovazione tecnologica.

Tutto ciò preannuncia una serie di difficoltà. Pur avendo ricevuto un ampio mandato popolare, Corbyn ha contro circa il 90% dei parlamentari laburisti che hanno sostenuto altri candidati alla guida del partito. Per evitare un rischio scissione, il governo ombra appena formatosi ha comunque incluso elementi di orientamento più moderato e con una passata esperienza ai vertici direttivi del Labour. Questo inevitabilmente inciderà sull’autorità che Corbyn sarà in grado di esercitare in seno al partito e in molti già scommettono su un suo rapido declino. Ad aggravare la situazione vi è il rapporto piuttosto conflittuale che Corbyn intrattiene con i media, altro aspetto che marca la sua differenza dal New Labour il cui modus operandi era fondato su un’attenta e metodica gestione dell’informazione politica.

In un contesto più ampio di quello strettamente domestico, uno dei temi più interessanti da osservare nel futuro sarà il ruolo che il Labour di Corbyn assumerà nell’annosa partita del referendum sull’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea che il governo Cameron ha promesso di tenere nel 2017, una volta conclusi i negoziati volti a ridefinire la futura membership del Paese nell’UE. In una serie d’interviste, Corbyn ha lasciato intravedere la possibilità che il suo partito sostenga l’ipotesi di un’uscita qualora Cameron intendesse barattare la permanenza del Regno Unito nell’UE con una maggiore autonomia legislativa del Paese in materia sindacale e ambientale. Il rischio, secondo Corbyn, è che le istituzioni europee siano tentate dal concedere al governo britannico delle deroghe alla protezione sindacale e alla tutela ambientale oggi vigenti in Europa. Quest’approccio, però, si scontra con quella parte maggioritaria del Labour che sino ad oggi, nonostante le difficoltà segnate dalla profonda crisi economica, ha sempre mostrato una fiducia incondizionata nell’appartenenza all’Unione Europea.

D’altra canto, Corbyn appartiene ad un filone del socialismo britannico secondo il quale l’Europa di Maastricht sarebbe nata attorno ad un nucleo d’idee sostanzialmente liberiste da cui occorreva tenersi in guardia per impedire che i diritti della classe lavoratrice britannica fossero compromessi. Dimostrazione di ciò sarebbero i negoziati in corso per la conclusione della Transatlantic Trade and Investment Partnership (TTIP) dagli esiti potenzialmente lesivi per lo stato sociale e la tutela ambientale dei Paesi europei, tanto più che essi vengono condotti all’oscuro di un’opinione pubblica in gran parte ignara delle conseguenze.

Nelle intenzioni di Corbyn, il referendum si configura così come l’occasione per esprimere il disagio nei confronti di un modello sociale liberista ritenuto predominante; si può sostenere che alla sua radice vi sia la stessa domanda di cambiamento che ha in larga parte ispirato un altro referendum, quello per l’indipendenza scozzese del settembre 2014, in cui non pochi elettori di sinistra, non necessariamente identificati con lo Scottish National Party, si espressero a favore della secessione, nonostante le indicazioni contrarie provenienti dagli organi centrali del Labour. L’arma del referendum popolare diviene così uno strumento per auspicare una frattura da cui è possibile immaginare un percorso diverso da quello segnato dagli attuali assetti politico-economici. L’ultimo esperimento tentato in Grecia da Tsipras lo scorso luglio ne richiama il forte potere evocativo, nonché la delusione a cui molto spesso va incontro.

Il Labour di Corbyn è, in ultima analisi, espressione della stessa contestazione che Syriza in Grecia e Podemos in Spagna hanno mosso nei confronti dell’establishment nazionale e internazionale. Non è un caso, che queste forze politiche hanno prontamente espresso il loro sostegno al nuovo leader del partito laburista britannico, augurandosi una collaborazione futura per mutare lo scenario politico europeo. Al di là delle intenzioni, pochi in effetti sono stati i segnali di un effettivo coordinamento fra queste realtà politiche e solo gli sviluppi successivi potranno suggerire in cosa queste vaghe dichiarazioni d’intesa potranno tradursi.

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