Droni: Le nuove frontiere dell'aviazione
Difesa e Sicurezza

Droni: Le nuove frontiere dell'aviazione

Di Marco De Montis
03.02.2013

9 Giugno 1982, deserto del Negev (Israele): la Heyl Ha‘Avir (HHA – la forza aerea israeliana) sferra un micidiale attacco a sorpresa contro le batterie missilistiche contraeree siriane, distruggendone 17 su 19. E’ il primo atto della battaglia aerea della Bekaa, di fatto il primo conflitto asimmetrico nell’accezione moderna del termine, non tanto per le forze in campo, quanto per il divario tecnologico e soprattutto per le tattiche innovative adottate da Israele.

Un ruolo chiave per l’exploit israeliano lo esercitarono i droni (allora denominati RPV – Remotely Piloted Vehicles – veicoli pilotati a distanza) Mastiff e Scout, utilizzati nel doppio ruolo di esca per i radar e di ricognitori/ripetitori di dati per la rete C3I di Tel Aviv. Da quel momento, questi strani “robot del cielo” sono entrati in gioco in tutti i conflitti principali dell’Occidente, da Desert Storm (1991) ad Iraqi Freedom (2003), fino alla lunghissima campagna afgana tuttora in atto da oltre 10 anni ed all’appena conclusa offensiva libica.

I media hanno messo in evidenza le notevoli potenzialità di questi aeromobili senza pilota (anche se in molti casi il pilota c’è eccome, ma è a 12.000 km di distanza comodamente seduto in una stanza con aria condizionata, sorseggiando un drink), preconizzando un futuro in cui gli aeroplani pilotati saranno un ricordo del passato e le battaglie aeree prossime venture assumeranno i contorni di uno scenario fantascientifico di droni sempre più grandi e sofisticati in lotta fra loro, senza alcuna interferenza umana.

Come sempre, la realtà è ben diversa ed anche se è indubbio che i vari Predator, Global Hawk ed i futuri X-47, Solar Eagle, ecc. presentino caratteristiche davvero incredibili, non pare immediata la resa degli aeroplani da combattimento nei confronti dei robot aerei. La recente campagna libica ha proprio dimostrato quanto sia fondamentale disporre di bombardieri supersonici da strike in grado di sferrare un attacco preciso e fulmineo contro difese aeree come quelle dell’ex Jamahiriya. Piuttosto, nell’attuale contesto net-centrico, sembra essere sempre più indispensabile un’integrazione profonda e capillare fra i vari droni (da quelli simili ad aeromodelli fino al già citato Solar Eagle con un’apertura alare superiore ai 120 metri) e tutte le piattaforme aeree e non, al fine di delineare lo scenario puntuale e preciso in cui dovranno operare le unità di combattimento dotate delle armi più efficaci e decisive, quali i missili cruise SCALP o Storm Shadow (del peso superiore ai 1.200 kg) o le bombe “bunker buster” lanciate dagli F-15E e dai B-2 (ben oltre i 2.200 kg).

L’attuale popolarità dei vari UAV (Unmanned Aerial Vehicles – aeromobili senza equipaggio) ed UCAV (Unmanned Combat Aerial Vehicles, i droni da combattimento, quali il Reaper o Predator B per la nostra Aeronautica) è dovuta soprattutto al proliferare dei conflitti asimmetrici quali quello afgano, in cui le minacce antiaeree sono del tutto assenti o ridotte a pochi missili a breve raggio MANPADS o agli onnipresenti e sempre insidiosi RPG, comunque in grado, con le opportune modifiche, di impensierire parecchi elicotteri.

In questo scenario, disporre di droni di ultima generazione, dotati di sensori IR e sistemi di puntamento laser, consente di espletare con successo numerose missioni rischiose ed insidiose, spesso anche di lunga durata, in cui la notevole autonomia di un Predator fa la differenza e l’enorme vantaggio di pilotarlo a distanza consente di spingersi sempre un po’ oltre il rischio consentito ad una missione con un aeroplano tradizionale. Da non trascurare è poi la riduzione dei costi rappresentata dall’utilizzo di un aeromobile strutturalmente molto semplice (l’MQ-1 Predator ha ingombri, masse ed un propulsore da 115 HP confrontabili con quelle di un Piper PA-28 da aeroclub) e che richiede una manutenzione ridotta e poco specializzata, per non parlare del risparmio sui costi connessi all’addestramento di un pilota “combat ready”.

Ben altra cosa è analizzare il Northrop Grumman RQ-4 Global Hawk, il vero e proprio sostituto del mitico ricognitore strategico U-2. Nel variegato e composito mondo degli UAV ed in attesa del futuribile Solar Eagle, l’imponente UAV a reazione statunitense rappresenta il re dei droni, con un’apertura alare di circa 40 metri (versione RQ-4B), una massa superiore alle 14 tonnellate ed una quota di tangenza pratica pari a 20.000 metri. Dotato di sensori dell’ultima generazione e di un sistema di trattamento e trasmissione dati tra i più avanzati del mondo, l’RQ-4 è in grado di percorrere rotte lunghe 20.000 km o permanere nella zona d’operazioni per 42 ore, esplorando un’area di circa 280.000 km2, corrispondente all’intera Italia. Tutto ciò si riverbera sui costi (da 60 a 80 milioni di dollari ad esemplare per l’RQ-4B), tanto che negli anni futuri il programma di acquisizione del gioiello Northrop Grumman potrebbe essere ridimensionato.

Per concludere, complice il recente clamore suscitato dall’“abbattimento in jamming” del sofisticato RQ-170 Sentinel da parte dell’Iran, è d’obbligo sottolineare un aspetto fondamentale per i droni, ma su cui spesso si glissa: il problema del data-link, cioè il collegamento fra la stazione di terra e l’aeromobile. Per quanto criptate e continuamente modificate tramite algoritmi sempre più sofisticati, per gli UAV e gli UCAV, le comunicazioni terra-bordo-terra sono la maggior criticità in assoluto, più ancora di un’eventuale reazione a fuoco nemica. Ovviamente l’argomento è ben custodito all’interno dei vari laboratori dei ministeri della Difesa in tutto il mondo, ma nessuno può escludere che tali link possano essere disturbati come già accaduto recentemente: in tal caso si assisterebbe ad una riedizione in chiave aerea della campagna antisom attuata dagli Alleati nell’Atlantico durante la seconda guerra mondiale, a danno dei micidiali U-Boote tedeschi. Grazie alla decrittazione del codice Enigma, i nazisti persero la guerra contro i convogli poiché le forze alleate potevano prevedere ogni loro mossa: probabilmente al Pentagono molti studiosi stanno cercando di scongiurare questo incubo.

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