Dalla Crimea alla Libia, passando per la Siria, la Russia si espande nel Mediterraneo
Secondo la celebre teoria del ‘Sea Power’ sviluppata dall’Ammiraglio Alfred Thayer Mahan nel 1890, il potere di una nazione è strettamente legato al dominio dei mari che la circondano, ottenuto attraverso il controllo dei principali stretti, la costruzione di basi navali e la capillare presenza della propria Marina. Tale paradigma risulta ancora oggi particolarmente utile per leggere la politica russa nel Mar Mediterraneo, alla luce dei recenti sviluppi. La Russia, potenza primariamente continentale, dagli albori dell’Impero ad oggi, passando per l’epoca sovietica, ha sempre cercato di garantirsi un accesso diretto al Mare Nostrum. Tale obiettivo è rimasto una costante nella politica estera del Paese, nonostante i numerosi rivolgimenti politici e l’evolversi delle motivazioni a sostegno di questa aspirazione.
A livello geografico, la Russia non gode di sbocchi diretti sul Mar Mediterraneo, da sempre attraversato da importanti tensioni geopolitiche, che si riverberano tanto in Europa, quanto in Medio Oriente. Stabilire una presenza nel Mare Nostrum consentirebbe a Mosca di inserisi all’interno delle dinamiche europee e mediorientali e di giocare un ruolo di primo piano nella loro definizione. Per Mosca, inoltre, il Mediterraneo rappresenta un confine naturale della NATO: navigare liberamente nelle sue acque significa ampliare le opportunità di deterrenza nei confronti degli Stati Uniti e dei loro alleati, vantaggio particolarmente importante nel periodo della Guerra Fredda, che tuttavia gode di assoluto rilievo anche oggi. Negli ultimi anni la Russia ha perseguito una politica volta ad allargare la propria cintura di sicurezza, ponendola sempre più lontano dai propri confini territoriali, per scopi difensivi e preventivi. In tale ottica, Mosca considera il Mediterraneo Orientale come un’estensione del proprio confine meridionale sul Mar Nero. Ciò va interpretato soprattutto in relazione alla NATO, ma anche ai fattori di instabilità presenti all’interno del bacino del Mediterraneo, tra cui le diverse minacce statuali e non-statuali, nonché l’espansionismo dei nuovi player geopolitici che vi si affacciano. Infine, l’accesso al Mediterraneo attraverso il mar Nero è, per Mosca, condizione necessaria al transito del canale di Suez e, di conseguenza, all’Oceano Indiano, crocevia di importantissimi traffici commerciali.
La perdurante instabilità del Mediterraneo e i principali mutamenti geopolitici che si sono verificati nell’ultimo decennio, se da un lato hanno rappresentato un’importante sfida securitaria per tutti i Paesi dell’area, dall’altra sono stati sfruttati a proprio vantaggio da Mosca, che ha colto tale opportunità per muoversi più velocemente verso il conseguimento dei propri obiettivi strategici. In particolare, il ridimensionamento della presenza statunitense nel contesto mediterraneo ha lasciato un vuoto di potere che ad oggi non è ancora stato riempito, dando vita ad una complessa contesa, che vede parimenti coinvolti attori regionali, potenze emergenti e potenze globali. Correlatamente, in Russia il progressivo disimpegno statunitense ha innescato un netto cambio di postura nella politica estera, convenzionalmente inaugurato nel 2008 dalla guerra in Ossezia del Sud, caratterizzato da un maggior avventurismo e da un sostanziale ritorno alla politica di forza.
Questo, in relazione al bacino mediterraneo, si è reso osservabile già a partire dal 2014, con l’istituzione delle basi navali di Novorossiysk e Sevastopol in Crimea, sul Mar Nero. In assenza di basi stabili nel Mediterraneo, infatti, la Russia ha cercato di consolidare in primis la propria presenza nel Mar Nero, per proiettare tangenzialmente il proprio potere marittimo anche nel Mediterraneo. Le basi russe sul Mar Nero sono state dedicate al supporto logistico e al comando e controllo della Formazione Operativa Permanente della Marina Russa nel Mediterraneo, sin dalla sua creazione nel 2013, sotto il comando operativo della Flotta del Mar Nero. Peraltro, i mezzi di quest’ultima, pur essendo basati nel mar Nero, grazie al lungo raggio degli armamenti di cui sono dotati, godono di una sostanziale capacità di proiezione nel Mar Mediterraneo. Esempio primario è quello delle corvette di classe Buyan, dotate di sistemi di lancio verticale 3S-14 per i missili da crociera antinave Kalibr e Oniks, con raggio massimo di 1500 km che consente colpire con precisione obiettivi nel Mediterraneo. Già durante l’intervento in Siria, Mosca ha usato le corvette Buyan armate di missili Kalibr stanziate nel mar Caspio per colpire obiettivi sensibili a Raqqa ed Aleppo. Risulta dunque evidente il diretto collegamento tra Mediterraneo e Mar Nero nelle policies di sicurezza russe, peraltro reso esplicito anche nella dottrina navale russa del 2015, la quale evidenzia il legame tra i due bacini e la proiezione di influenza sulle regioni del Medio Oriente e del Nord Africa.
Proprio il Medio Oriente, e in modo particolare la Siria, ha offerto alla Russia l’occasione di allungare la propria mano fino a lambire le coste mediterranee, segnalando l’inizio di una stagione di rinnovato impegno nell’area. Infatti, in cambio dell’intervento nel conflitto siriano a supporto del Presidente Bashar al-Assad, avvenuto nel 2015, Vladimir Putin ha ottenuto la trasformazione della base navale di Tartus da scalo commerciale e hub logistico a vero e proprio porto militare russo sul Mediterraneo. Tra il 2017 e il 2019 Putin e Assad hanno finalizzato un accordo per la concessione della base navale, a cui si è aggiunta la base aerea di Khmeimim, nelle vicinanze di Latakia, sempre sulla costa mediterranea, per un periodo di 49 anni, rinnovabili alla scadenza per successivi periodi di 25 anni, senza corrispondere alcun pagamento. Attualmente nella base di Khmeimim viene rischierata una media di venti velivoli, ma la capacità massima è ben maggiore, come osservato nel periodo di massima intensità dei combattimenti in Siria, nel 2016, quando Khmeimim ospitava circa quaranta mezzi. Per quanto riguarda Tartus, a partire dalla firma del patto, Mosca ha investito oltre 500 milioni di dollari per ampliare la base, ad oggi l’unica fuori dal territorio nazionale russo. Il porto di Tartus oggi può ospitare fino ad un massimo di undici navi militari di piccola-media taglia, principalmente corvette, pattugliatori e navi ausiliarie. Non è adatta, invece, ad ospitare le principali navi della Marina Russa, di lunghezza superiore ai 100 metri. Inoltre, la base di Tartus ospita una forza stabile di sottomarini, in numero variabile tra le due e le quattro unità. Si tratta principalmente di sottomarini classe Kilo, in grado anch’essi di lanciare missili classe Kalibr. A livello strategico, la presenza di una base russa con sottomarini d’attacco direttamente nel bacino mediterraneo permette a Mosca di mantenere una notevole power projection, nonché capacità di deterrenza, garantita dal firepower dei suoi sommergibili lanciamissili e delle sue corvette. Tale capacità, inoltre, può essere esercitata senza il necessario passaggio per gli stretti del Bosforo e dei Dardanelli, che in precedenza obbligava la Russia a contravvenire alla Convenzione di Montreux, secondo la quale, sebbene il controllo degli stretti sia appannaggio della Turchia, in tempo di pace i Paesi stranieri possono far transitare le proprie navi commerciali e militari dal mar Nero al Mediterraneo. La convenzione, tuttavia, prevede che i sottomarini possano transitare solo per effettuare la manutenzione tecnica, pretesto usato dalla Russia prima della conversione di Tartus a base militare per il passaggio dei propri sottomarini.
Oltre ai mezzi dispiegati nelle basi siriane, la Russia ha installato radar di scoperta a lungo raggio e sistemi di difesa antiaerea sia a Tartus che a Khmeimim, per una difesa multilivello, strutturata su tre strati: il livello più esterno è costituito dal sistema S-400 Triumf e dall’S-300V4. Nello strato più esterno sono inoltre integrati alcuni sistemi S-200VE in forze all’esercito siriano. Il livello intermedio, invece, si basa sui sistemi installati a bordo degli incrociatori classe Slava, principalmente S-300FM e Buk-M2E, entrambi a medio raggio. Infine, il livello più interno è costituito dai classici sistemi missilistici terra-aria a corto raggio Osa-AKM, S-125 Pechora e Pantsir-S2. Tale complessa architettura di difesa aerea costruita in Siria dalla Russia risulta un vero e proprio game changer per gli equilibri geostrategici della regione: in precedenza, Mosca poteva contare solo sui sistemi installati a bordo delle sue unità navali dispiegate nelle vicinanze, mentre ora gode di un ombrello difensivo sofisticato e completo. Questo, non solo permette la difesa dei contingenti militari russi dispiegati nella regione, i quali possono operare in sicurezza in un ambiente poco permissivo e molto conteso, ma soprattutto impediscono e regolano l’accesso allo spazio aereo circostante, neutralizzando la minaccia balistica degli avversari e aumentando conseguentemente il peso militare russo nelle dinamiche regionali. La base di Tartus fornisce dunque un’ampio spettro di vantaggi strategici a Mosca, tra cui figurano una più ampia proiezione di forza in tutto il bacino del Mediterraneo, in Europa e nel Medio Oriente, nonché la possibilità di fornire supporto logistico alla Marina russa, senza più dover transitare attraverso il Bosforo. Tale nuovo posizionammento è stato salutato, tra il novembre 2016 e il gennaio 2017, dalla campagna navale del del gruppo Admiral Kuznetsov nel Mediterraneo, formato dall’omonima portaerei, dall’incrociatore lanciamissili Pietro Il Grande, da due fregate di classe Udaloy con missili guidati e alcune unità ausiliarie, che ha segnato l’inizio di una fase ascendente per la presenza russa nel Mare Nostrum.
Sfruttando le possibilità offerte dalla sua presenza in Siria, Mosca ha in seguito cercato di ritagliarsi una sempre maggiore libertà di movimento all’interno del Mediterraneo, intervenendo in vari scenari di instabilità con l’obiettivo di allargare la propria area di intervento e di influenza. Primo tra questi è stata la guerra civile in Libia. Già nel 2008 Putin aveva discusso con Gheddafi della costruzione di una base militare russa a Benghazi, finalizzata a controbilanciare l’influenza statunitense in Africa. Lo scoppio della guerra civile e il ritiro degli Stati Uniti dalla regione sono stati sfruttati abilmente da Mosca la quale, sostenendo le forze del Generale Khalifa Haftar attraverso il gruppo paramilitare privato Wagner Group, si è configurata come un interlocutore fondamentale per la determinazione del futuro del Paese. In questo modo, la Russia ha ampliato il proprio raggio d’azione, allargando la propria strategia mediterranea oltre la Siria e fino alle coste del Nord Africa. Oltre a Benghazi, diverse fonti indicano Tobruk, nella parte orientale della Libia, controllata dalle forze di Haftar, come punto ideale per l’eventuale costruzione di una base navale russa. Questo consentirebbe al Cremlino da un lato di avvicinarsi militarmente ancor di più ai territori dell’Alleanza Atlantica, mentre dall’altro di supportare il processo di espansione della propria presenza, peraltro già strutturata, nel continente africano.
Il ruolo della Russia in Libia ha permesso a Mosca di rafforzare anche le relazioni con gli altri attori allineati con Haftar: innanzitutto l’Egitto, ormai importante variabile della strategia regionale russa. Negli ultimi cinque anni, infatti, Mosca e il Cairo hanno intensificato considerevolmente le proprie relazioni, specialmente dal punto di vista militare. Nel 2016 Russia ed Egitto hanno svolto una grande esercitazione congiunta nel deserto di Alam Al-Khadem, e nell’ottobre 2019 si è svolta la più grande esercitazione aerea tra i due Paesi, chiamata Arrows of Friendship seguita, nel dicembre 2019, dall’esercitazione navale Friends Bridge 2019 e dall’edizione 2020, che si svolgerà nel mar Nero. Apice delle buone relazioni è stato l’accordo, firmato nel 2017, che permette alla Russia di accedere alle basi di Alessandria e Mersa Matruh, entrambe situate sulla costa mediterranea, utili sia allo sforzo bellico in Libia, sia ad un’ulteriore proiezione di forza nell’area. Inoltre, dal 2013, in coincidenza con la riduzione delle vendite da parte statunitense, Mosca è uno dei maggiori fornitori di armi all’Egitto: recentemente, ad esempio, è stato annunciato che a partire dal 2020 è iniziata la consegna dei 24 Sukhoi Su-35 venduti dalla Russia all’Egitto, per un totale di 2 miliardi di dollari.
Peraltro, la proliferazione di tecnologie militari russe negli ultimi anni si è resa osservabile in tutto il perimetro mediterraneo, a sottolineare un trend legato non solo ai ritorni economici, ma anche all’avanzamento degli obiettivi di sicurezza nazionale e difesa del Paese, secondo i principi della weapon diplomacy: innanzitutto, va segnalata la vendita degli S-400 alla Turchia, fortemente condannata dagli Stati Uniti e dalla NATO. Altro Paese che gode di forti relazioni con Mosca nel campo del commercio di equipaggiamenti e mezzi militari è l’Algeria, specialmente dopo che nel 2006 la Russia ha cancellato il debito dovutole del Paese. Negli ultimi anni la vendita di armi russe all’Algeria ha subito un aumento del 129% rispetto alla decade successiva, per un totale di 26 miliardi di dollari: tra le ultime consegne, si registrano 14 Sukhoi S-30, 2 corvette Tirg armate con missili da crociera e due sottomarini di tipo Black Hole. Il trend ascendente sottolinea la consolidazione dei rapporti russo-algerini nel dominio della difesa, che potrebbe fornire il presupposto per una maggiore cooperazione nell’ambito. Infatti, la vendita di armi, per la Russia, è uno strumento per creare consenso e legami duraturi di co-dipendenza, specialmente in materia di sicurezza. Questo soprattutto dove gli Stati Uniti, per ragioni differenti, non godono di un ruolo importante nel settore della vendita di equipaggiamenti militari, lasciando un vuoto che Mosca può sfruttare per espandere la propria influenza.
La postura adottata dalla Russia nel Mediterraneo trova le sue radici nella visione che Mosca ha del contesto internazionale: negli ultimi anni il Cremlino ha sperimentato un crescente accerchiamento da parte occidentale, testimoniato tra le altre cose dal dispiegamento dei sistemi di difesa missilistica NATO THAAD in Polonia, l’imposizione di sanzioni alla Russia in relazione alla crisi in Ucraina nel 2014, e dall’Esercitazione statunitense Europe Defender 2020. In questo contesto, la postura di Mosca nel Mediterraneo dimostra la volontà primaria di reagire al percepito accerchiamento, rispondendo in modo provocatorio per bilanciare il potere euro-atlantico nella regione. Mosca mira inoltre ad indebolire la posizione di Stati Uniti, UE e NATO, ma anche della Turchia, nel cosiddetto near abroad, dove persegue da sempre l’aspirazione di porsi come ago della bilancia all’interno degli equilibri politici e militari e di pilotare le diffuse instabilità a suo favore.
Ad oggi Mosca sembra essere riuscita a presentare un fait accompli, imponendo la propria presenza nel nuovo status quo mediterraneo e nelle sue dinamiche. Con tutta probabilità, nel breve e medio termine il ruolo della Marina russa nel Mediterraneo rimarrà duplice: quello della difesa avanzata contro le minacce dirette verso il territorio russo attraverso il mar Nero e quello della deterrenza, finalizzato a limitare le operazioni degli Stati Uniti e della NATO, specialmente nell’area del Mediterraneo Orientale. A questi si aggiunge poi la proiezione di forza, specialmente garantita dalla flotta corvette e di sottomarini lanciamissili basati a Tartus, i quali probabilmente diverranno mezzi privilegiati per dispiegamenti anche più lontani dalle coste siriane. La rinnovata presenza russa, infine, contribuisce tanto direttamente quanto indirettamente alla crescente militarizzazione dello spazio mediterraneo, con il rischio concreto di esacerbare le tensioni già presenti in quest’ultimo, soprattutto in un periodo caratterizzato da forti conflittualità che vedono coinvolti tanto attori regionali quanto medie potenze in ascesa.