Un Airbus dei mari per fronteggiare l'Asia

Un Airbus dei mari per fronteggiare l'Asia

27.09.2016

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a cura di Paolo Bosso

In un contesto economico mondiale caratterizzato dal race to the bottom, dalla corsa alla deregolamentazione economica per rincorrere i bassi costi di produzione asiatica, ai cantieri europei forse non c’è altra strada che quella del consorzio di stati per la costruzione navale, così da mantenere un livello di produttività decente, magari non in linea con i concorrenti sudcoreani, cinesi o vietnamiti, ma per lo meno accettabile. È questa l’ipotesi emersa in una ricerca del Centro studi internazionali (Cesi) presentata nei giorni scorsi a Roma. Firmata da Francesco Tosato e Michele Taufer, lo studio si sofferma sulla necessità di un «consolidamento della cantieristica militare europea che sia in grado di sfruttare maggiormente le possibili sinergie progettuali e costruttive». Ma l’ambito di applicazione si può estendere al di là della commessa militare, per spaziare in tutti gli altri ambiti di costruzione navale. «Dobbiamo fare un Airbus dei mari. Se non parliamo di questo l’Europa sparisce e sparisce anche ogni possibilità di crescita. Un’iniziativa del genere da sola basta, però aiuterà moltissimo a fare consolidamenti in altri settori», ha commentato a margine del convegno l’amministratore delegato di Fincantieri Giuseppe Bono.


L’evoluzione della cantieristica navale militare europea, di Francesco Tosato e Michele Taufer

Airbus è un costruttore europeo di aeromobili. Nasce nel 1970 come consorzio di imprese francesi e tedesche, a cui poi si aggiungeranno imprese spagnole e britanniche. È nato con lo scopo di fronteggiare i giganti dell’aeronautica statunitense (Boeing, Lockheed Aircraft) tramite grossi vantaggi fiscali e incentivi concessi dall’Unione europea. Analogalmente, un “Airbus dei mari” non è altro che un gruppo navalmeccanico di imprese “gestito” dall’Unione europea che, tramite sgravi e incentivi, attiri più commesse nel Vecchio continente fronteggiando con maggiore efficacia i centri asiatici, meno costosi.

Basti considerare che la Cina nei prossimi decenni investirà circa 1,800 miliardi, come fa notare lo studio del Cesi. Una cifra che né Fincantieri né STX potrebbero mai spendere in un secolo, insieme. Per questo un consorzio di imprese europeo potrebbe rappresentare un tentativo per ottenere lo stesso dinamismo dei concorrenti d’Oriente. Fincantieri potrebbe collaborare con la francese Direction des Constructions Navales Services (Dcns), leader nei sistemi di difesa navali, come suggerisce lo studio di Tosato e Taufer, così come hanno fatto inizialmente Francia e Germania per creare Airbus. «Ma non ragioniamo esclusivamente con loro, siamo aperti a tutti», commenta Bono.

«La Russia ha incrementato la presenza nel Mediterraneo, la Cina potenzia sempre di più il settore marittimo. E noi?», si domanda il presidente della Commissione Difesa del Senato Nicola Latorre. In Europa l’industria navalmeccanica vale 72 miliardi di dollari e occupa mezzo milione di persone, «non è un caso – continua Bono – che il governo australiano abbia selezionato Italia, Gran Bretagna e Spagna per una commessa da 25 miliardi di dollari». Il know-how c’è, e non è, come ci tengono a sottolineare gli interessati, inferiore a nessuno nel mondo. E per rimanere tali e non assistere a un lento declino, c’è bisogno ora più che mai di un classico sistema statale di aiuti, all’europea però.