La svolta di Hamas
Si prospetta un nuovo capitolo nei rapporti fra Israele e Hamas. Ma è davvero così?
Le cose stanno davvero cambiando fra Hamas e Israele? Difficile dirlo. Ma nell’intervista rilasciata da Yahya Sinwar, leader di Hamas, al quotidiano israeliano ‘Yedioth Ahronoth’ e a ‘La Repubblica’ si prospetta un’interessante cambio di passo. Nonostante le tensioni sempre presenti fra l’organizzazione palestinese e lo Stato israeliano, infatti, Sinwar ha annunciato la volontà di voler mettere da parte ogni possibilità di combattere una guerra con Israele. Le tensioni sono evidenti, aggiunge, e di questo passo un’esplosione è inevitabile. Tuttavia, conclude che una guerra non porterebbe a niente e Hamas non avrebbe intenzione di scontrarsi contro una potenza nucleare. La volontà di Hamas è quella di porre fine all’assedio di Gaza e di raggiungere un accordo con Israele che tuteli gli interessi dei palestinesi. La volontà sarebbe infine condivisa da quasi tutte le organizzazioni palestinesi – lasciando intendere il fatto che, all’interno della leadership palestinese, la frattura è ancora insanabile.
È senza dubbio un’apertura interessante, una mossa per certi versi inaspettata, ma fa parte di un più ampio e complesso piano strategico? E ora che la palla passa al Governo israeliano, quali saranno le sue mosse? Abbiamo posto queste e altre domande a Eric Salerno, ex corrispondente per ‘il Messaggero’ da Tel Aviv e ottimo conoscitore di Israele, e Lorenzo Marinone, analista per il Medio Oriente e Nord Africa del Centro Studi Internazionali (CeSI).
“Non credo che Hamas sia cambiato rispetto al suo progetto” esordisce Salerno. “Possiamo parlare di nuove strategie o tattiche. Hamas è in difficoltà in un mondo mediorientale in rapida e confusa evoluzione. Vive, oggi, politicamente grazie allo scontro con la leadership dell’Autorità nazionale palestinese e ai giochi del governo israeliano che, da sempre, mette il movimento integralista contro Fatah e vice-versa. Hamas è oggi in difficoltà anche per la crisi economica-sociale a Gaza e la sua leadership offre ciò che definisce tregua per consolidarsi, migliorare le condizioni di vita della popolazione di Gaza e, come in passato, dimostrare al mondo palestinese di essere più dinamico rispetto alla vecchia guardia stanca e immobile guidata dall’attuale presidente Mahmoud Abbas”. I cattivi rapporti con Fatah sono una delle ragioni che hanno spinto Sinwar a fare questa apertura a Israele, come conferma Marinone: “Si è arrivati al punto che Fatah e Abbas hanno smesso di pagare le bollette di energia elettrica a Israele, che aveva interrotto l’erogazione dell’elettricità verso Gaza. Si vanno a colpire i beni e i servizi essenziali per aumentare la pressione su Gaza, si utilizzano strumenti di coercizione. Questo era accaduto nel corso di trattative per riunificare la leadership palestinese”.
Il cambio di strategia è netto ed è in continuità con quello che sembra essere, da qualche tempo, il nuovo corso della politica di Hamas. Come spiega Marinone, infatti: “Nel maggio del 2017, Hamas ha modificato la sua Carta Costitutiva, di fatto riconoscendo lo Stato d’Israele, benché in maniera implicita: si accetta la costituzione di uno stato palestinese, rispettando i confini precedenti alla Guerra dei sei giorni del 1967. Questa è stato per Hamas una decisione epocale: mai nella storia del movimento palestinese era stato fatto questo passo. C’è una tendenza a evitare lo scontro con Israele, a qualsiasi costo”. E aggiunge: “Nel suo isolamento, Hamas tenta di rafforzare la sua posizione e, per farlo, deve fare delle concessioni, per intavolare un discorso e evitare di subire assedi. Cambiata di segno, è la stessa cosa che succede con ‘la marcia per il ritorno’, manifestazioni di protesta contro Israele, molto partecipate e promosse anche da Hamas. Non sono fatti contraddittori, ma sono mosse per mettersi in contrapposizione con Fatah, piuttosto che un tentativo per mettere pressioni su Israele”.
Così come la guerra, per fare la pace bisogna essere almeno in due. Se Hamas, che comunque non rappresenta il mondo palestinese nella sua interezza, fa un’apertura per una pace, dall’altra parte deve esserci qualcuno pronto a sedersi al tavolo delle trattative e negoziare un accordo duraturo: nella caso in questione, il Governo israeliano. Come viene visto questo cambio di passo da Netanyahu? Eric Salerno spiega che: “Hamas, per bocca del suo leader, sembra riconoscere che la lotta armata non possa servire contro una potenza nucleare come Israele. È ciò che Abbas diceva ancora prima di prendere il posto di Arafat. Netanyahu sta già negoziando indirettamente con Hamas. Non tanto perché convinto che Hamas a differenza di Fatah e l’Anp potrebbero essere un partner per la pace quanto perché, al momento, interessa a Israele mantenere la conflittualità politica e la rivalità tra il governo di Gaza e quello dei territori occupati. Quante volte abbiamo sentito il premier israeliano dire che un accordo di pace è impossibile se le due anime del mondo palestinese sono divise tra loro? Dall’altra parte sono convinto che Netanyahu vuole evitare una nuova guerra con i palestinesi di Gaza. Piccole intese, anche programmi di investimento, per migliorare le condizioni di vita degli abitanti di Gaza potrebbero calmare le acque. Ma questo non significa la fine del conflitto e la pace”.
Il Medio Oriente non riguarda mai solo gli Stati e le Nazioni che risiedono in quell’area, ma anche i loro alleati. E quando si parla di Israele, ci si riferisce al loro alleato numero uno, gli Stati Uniti. Marinone spiega che: “Da diversi mesi si inseguono rumors sull’annunciato piano di pace del Medio Oriente, che verrà presentato da Trump, non si sa quando. Per quel che si può vedere finora (ad esempio, il cambio della sede dell’ambasciata americana a Gerusalemme_), Trump ha imposto ingenti sacrifici simbolici ai palestinesi._ Israele mantiene però una posizione defilata, perché non ha la necessità di intavolare seriamente dei negoziati di pace, a differenza del passato, quando la pressione internazionale e il pericolo rappresentato dai palestinesi erano maggiori”.
Ma, a conti fatti, la pace interessa davvero a tutti o a qualcuno fa comodo mantenere una situazione di conflitto? Salerno è sicuro: “Tutti vogliono la pace. Netanyahu è stato costretto da un’uscita un po’ confusa, come al solito, del suo amico americano Trump a ribadire di essere disponibile alla soluzione dei due stati per due popoli. Ha fatto fatica a pronunciare la frase. E ha subito spiegato che ognuno definisce stato in modo diverso. Ciò che Netanyahu vede è un’entità di auto-governo palestinese sotto controllo militare israeliano accanto alla stato d’Israele. Le frontiere saranno controllate da Israele, lo “stato” non avrà esercito – ma su questo Abbas è d’accordo e lo era anche Arafat – e la capitale potrebbe essere al massimo insediato in un lembo periferico di Gerusalemme Est. Non è la pace che Hamas vuole o può accettare”. E inoltre, conclude Marinone: “La vera priorità per la pace regionale non è più la Cisgiordania e la Striscia di Gaza, quanto il Libano. Non più Hamas ma Hezbollah, il coinvolgimento dell’Iran e delle milizie da esso appoggiate – che tuttora combattono in Siria, anche nelle zone a ridosso delle alture del Golan e dei territori controllati da Israele”.
Fonte: L’Indro