Eni, Sonatrach e non solo, ecco come si muove l’esercito in Algeria per il dopo Bouteflika
Negli ultimi tre mesi in Algeria le forze armate stanno manovrando la transizione post Bouteflika con l’obiettivo di mantenere le leve del comando. Il peso del capo di stato maggiore dell’esercito, Ahmed Gaid Salah, il ruolo del colosso energetico Sonatrach e le attese dell’Eni. Conversazione di Start Magazine con Lorenzo Marinone, responsabile del Desk Medio Oriente e Nord Africa del Centro Studi Internazionali presieduto da Andrea Margelletti
Spirano, di nuovo, venti di primavera nel mondo arabo? È la domanda che sta tenendo banco nel mondo degli esperti e delle analisti da quando, nel giro di poche settimane, due Paesi arabi hanno visto le piazze mobilitarsi con la richiesta perentoria di un cambiamento politico. Richiesta che, tanto in Algeria quanto in Sudan, ha condotto alla deposizione dei capi di regimi considerati inossidabili.
A rotolare, in rapida successione, sono state le teste di Abdelaziz Bouteflika, il cui tentativo di ricandidarsi per la quinta volta dopo vent’anni di potere assoluto, e di perpetuare un sistema universalmente noto come “le pouvoir”, è naufragato davanti alle proteste di centinaia di migliaia di algerini. E quella di Omar al-Bashir, da trent’anni alla guida del Sudan dove si è distinto, tra le altre cose, per una sincera amicizia con Osama bin Laden e per i crimini contro l’umanità che gli sono costati un mai applicato mandato di arresto da parte del Tribunale Penale Internazionale.
Start Magazine, che questi sviluppi li ha seguiti sin dal primo momento, ha deciso di realizzare degli approfondimenti per capire se ciò che sta succedendo in Algeria e Sudan contenga i semi di una primavera araba 2.0. E, soprattutto, per raccontare ai lettori come procedano le transizioni e come, in particolare, le forze armate dei due Paesi cercheranno di superare indenni il cambio della guardia, preservando il loro potere.
Cominceremo con i fatti di Algeria, che ci siamo fatti riepilogare da Lorenzo Marinone, responsabile del Desk Medio Oriente e Nord Africa del Centro Studi Internazionali. A lui il compito di illustrare cosa sia successo negli ultimi tre mesi ad Algeri e dintorni e come, in particolare, le forze armate stiano manovrando la transizione con l’obiettivo di mantenere le leve del comando.
Marinone, partiamo dal momento in cui viene reso noto che Bouteflika si sarebbe ricandidato per la quinta volta. Cos’è successo dopo?
È successo qualcosa che sembrava difficilmente prevedibile. Quando si guarda all’Algeria si tende di norma a soffermare l’attenzione sul pouvoir e sulle sue dinamiche interne: i centri di potere, le forze armate, i servizi segreti, il Fronte di Liberazione Nazionale e gli altri partiti di maggioranza, il mondo degli affari. Quello che è successo invece è che è entrato in campo un altro fattore: la popolazione algerina. La quale non aveva mai davvero smesso di protestare dal 2011 ad oggi, ma rispetto ad altri Paesi del mondo arabo era riuscita ad articolare meno le proprie richieste, che non erano andate oltre rivendicazioni di carattere economico e sociale, senza che venisse chiesto un cambiamento di natura politica. Questa volta invece è successo proprio questo. Il motivo per cui centinaia di migliaia di persone sono scese in piazza ad Algeri e in molte altre città del Paese, sia della costa che dell’interno, è stato la protesta contro l’immobilismo del pouvoir. Non semplicemente una protesta contro Bouteflika dunque, ma contro il sistema. Ed è stata una delle proteste più organiche fra quelle che abbiamo visto andare in scena negli ultimi anni nel mondo arabo.
Quali le differenze tra le primavere arabe del 2011 e le manifestazioni di oggi?
La principale differenza è che tutti gli attori hanno imparato, nel bene e nel male, la lezione del 2011. Benché il movimento in Algeria abbia molte anime al suo interno, le proteste non sono mai state violente. Questa è la principale lezione appresa: è la lezione della Siria del 2011 e dell’Egitto del 2013. Tutti hanno capito che manifestazioni così imponenti, nel momento stesso in cui si rendono anche solo vagamente violente, possono dare il destro alle autorità per una repressione che vanificherebbe tutti gli sforzi. La stessa lezione è stata appresa anche dalle autorità. Dal punto di vista della polizia e delle forze armate, un’eventuale repressione rischia di ottenere due effetti controproducenti. Il primo è il rischio di far crescere le frange estremiste e di favorire l’infiltrazione di attori non pacifici che possano approfittare del clima di tensione. Il secondo aspetto è che una repressione, soprattutto se su larga scala e protratta nel tempo, potrebbe provocare una condanna a livello internazionale, e quindi portare a un isolamento del paese e a difficoltà politiche non indifferenti.
Sta di fatto che, sull’onda delle proteste popolari, il tentativo del pouvoir di riproporre Bouteflika è fallito.
La quinta ricandidatura di Bouteflika ha una genesi precisa che deve essere analizzata per comprendere tutto quello che è successo dopo. Perché è stato riproposto Bouteflika? Perché è una chiave di volta e, allo stesso tempo, una pietra d’inciampo negli equilibri fra le diverse anime del pouvoir. Il 2018, l’anno in cui il pouvoir si preparava ad andare alle elezioni, è stato un anno molto turbolento. C’è stato un conflitto sotterraneo per la successione a Bouteflika tra i diversi gangli del pouvoir. I vari gruppi di potere hanno cercato di imporsi sugli altri per poter esprimere poi un candidato più vicino ai propri interessi. Questo scontro è finito in un sostanziale pareggio: nessun gruppo si è dimostrato sufficientemente forte da riuscire a imporre la propria volontà. Pertanto, pur se l’opzione di ricandidare per la quinta volta Bouteflika apriva a degli scenari molto rischiosi e pieni di incognite, anche per il suo stato di salute, non si è riusciti a trovare nessun’altra soluzione. Bouteflika era sì una persona malata, ma rappresentava quel punto di incontro necessario per evitare uno scontro diretto tra i diversi gruppi di potere. Tutto questo complesso intreccio di equilibri instabili è venuto meno a causa della forza propulsiva delle proteste popolari. Le manifestazioni hanno imposto al pouvoir di cambiare rotta. La candidatura di Bouteflika si è quindi rivelata un boomerang, che non solo serviva più allo scopo ma rischiava di far crollare l’intero sistema di potere.
Come si è snodata la transizione?
Ci sono state due fasi. Nella prima c’è stato il tentativo del clan Bouteflika di preservare il proprio ruolo egemone all’interno del sistema di potere algerino. Sono stati fatti diversi tentativi di delineare una road map credibile per la transizione, anche prevedendo una revisione della carta costituzionale. Si è cercato insomma di prendere tempo, ma con l’idea che il processo sarebbe stato guidato dal clan Bouteflika. In questa fase ci sono stati due fenomeni da tenere presenti.
Quali?
Il primo è stato la recrudescenza delle manifestazioni. La piazza non si è accontentata delle soluzioni di ripiego proposte dal potere, e ha preteso le dimissioni di Bouteflika. Lo ha fatto peraltro rimanendo nell’alveo costituzionale: è stata chiesta infatti l’applicazione dell’articolo 102 della costituzione algerina che dice che, in caso di impossibilità per un qualsiasi motivo del presidente di esercitare le proprie funzioni, deve essere sostituito. La piazza su questo ha tenuto il punto, con vere e proprie manifestazioni oceaniche. Il secondo fenomeno da tenere a mente riguarda il ruolo avuto dalle forze armate; le quali, ricordiamolo, sin dai tempi dell’indipendenza dalla Francia svolgono un ruolo di guida e tutela della politica algerina. Per volontà del capo di stato maggiore dell’esercito, Ahmed Gaid Salah, hanno fatto sentire la propria voce puntellando di fatto le richieste della piazza. Gaid Salah, quindi, ha imposto a Bouteflika di farsi da parte.
Con quali obiettivi?
L’ obiettivo principale delle forze armate era ed è rimanere la spina dorsale del Paese. Schierarsi con la piazza è servito loro a rinverdire la retorica che sottolinea l’unione di popolo ed esercito. Si è aperta così la seconda fase cui accennavo, nella quale le forze armate hanno occupato il centro della scena. E la prima cosa che hanno fatto è lanciare un segnale chiaro al clan Bouteflika arrestando, tra gli altri, il fratello del presidente, Said, che per anni è stata la vera eminenza grigia del Paese, e poi il capo dei servizi e il suo predecessore, dunque i vertici istituzionali che compongono la triarchia del pouvoir.
La deposizione di Bouteflika, pare di capire, ha rispettato però il dettato della legge.
Sì, ci si è attenuti alle disposizioni contenute nella costituzione, e il potere è passato formalmente nelle mani del presidente dell’Assemblea. Non c’è stato alcun vuoto di potere né alcuna forzatura del dettato costituzionale. Sono state quindi indette nuove elezioni presidenziali per il prossimo luglio, nei tempi stabiliti dalla Costituzione.
Sotto il profilo della forma è tutto regolare. La sostanza?
La forma è quella della Costituzione. Ma dietro la Costituzione ci sono le forze armate e la persona di Gaid Salah. Che sta indirizzando da solo il percorso di transizione. Lo sta facendo comunque, ripetiamolo, rispettando la Costituzione. Questo per un motivo molto semplice: sarebbe molto complesso riuscire a mantenere l’immagine dell’esercito come difensore degli algerini se esso tradisse o forzasse la Costituzione. Se lo facesse, si scatenerebbero delle proteste ancora più massicce di quelle che si sono viste sinora. E questa è una cosa che Gaid Salah vuole assolutamente evitare. Qui però troviamo il grande problema di Salah: far accettare alla piazza questa transizione pilotata, nonostante le richieste popolari siano altre. La piazza infatti sta chiedendo non solo un ricambio complessivo del pouvoir, ma vorrebbe anche che le forze armate svolgessero un ruolo più limitato di prima. Il popolo chiede, in altre parole, una fine per lo meno parziale della tutela militare della politica algerina. Una cosa che, per ovvie ragioni, le forze armate non possono accettare. Il dilemma che si trovano di fronte Gaid Salah e le forze armate è dunque quello di riuscire a riportare la situazione nell’alveo della normalità preservando però il proprio ruolo egemone, tutto questo senza ricorrere a strumenti repressivi che potrebbero innescare escalation anche molto gravi.
Quali saranno le prossime mosse del pouvoir? Come cercherà di preservarsi?
È difficile che si arrivi ad una situazione come quella dell’Egitto in cui al Sisi ha svestito la divisa da militare, si è messo la giacca e la cravatta e si è presentato alle elezioni. Candidare una persona con un background militare, che dia le dimissioni adesso, è un’opzione che non sarebbe tollerata dalla popolazione. È più facile che le forze armate individuino una personalità politica di chiara fiducia che possa poi essere manovrata. Si tenga conto che non appena Bouteflika è stato costretto alle dimissioni, nel Fronte di Liberazione Nazionale – che è il principale partito al potere – ci sono state importantissime defezioni da parte di personalità che hanno sconfessato pubblicamente Bouteflika e si sono schierate dalla parte della piazza, sostenendo anche loro che l’era Bouteflika dovesse finire. Queste persone hanno cercato di rifarsi una verginità politica, e potrebbero essere quelle al cui interno le forze armate pescheranno il loro candidato. Potrebbero, in teoria, anche puntare su qualcuno completamente sconosciuto, ma ciò avrebbe lo svantaggio di rendere palese che sono le forze armate a dirigere il Paese. È necessario, insomma, mostrare al Paese che esiste una pur minima forma di pluralismo politico.
E le forze di ispirazione islamista? Che ruolo hanno avuto nelle proteste? E quale si ritaglieranno nel prossimo futuro?
Gli eredi del Fronte Islamico di Salvezza hanno iniziato a partecipare alle proteste di piazza solo dalla seconda settimana. La reazione della piazza è stata di accettarli, ma tenendo attentamente monitorata la situazione. Tutti infatti si ricordano cosa è successo negli anni ’90 e, soprattutto, cosa è successo nel 2011 in altri Paesi arabi, dove la presenza di un certo orientamento politico nelle proteste ha non solo dato modo allo Stato di reprimere le proteste, ma ha anche destato allarme in altri Paesi dell’area. Questo è qualcosa che tutti gli algerini, compattamente, vogliono evitare. Siamo comunque in un contesto molto diverso da quello degli anni ’90 e del 2011. Si registra in particolare una propensione molto più spiccata da parte di alcuni attori regionali come Qatar e Turchia da un lato, e Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti dall’altro, di cercare di imporre una certa visione delle cose arabe, con lo scopo non solo di favorire alcune parte politiche ma anche di determinare gli orientamenti di un Paese nel suo complesso. In questo contesto, una compagine islamista che voglia farsi promotore in Algeria di istanze di cambiamento radicale, attirerebbe senz’altro le attenzioni da parte di Riad o Abu Dhabi creando così una situazione di tensione se non di scontro. E questo è proprio ciò che gli algerini vogliono evitare.
Il destino di Bouteflika è stato condiviso anche da Abdelmoumene Ould Kaddour, numero uno dell’azienda energetica di Stato Sonatrach, cacciato dai militari e sostituito da Rachid Hachichi, capo del settore esplorazione e produzione. Una notizia che ha fatto fibrillare Eni, almeno fino a quando, pochi giorni più tardi, Sonatrach ha rinnovato le concessioni del Cane a sei zampe. Emergenza rientrata, o Eni deve stare sul chi va la?
Il fatto di rinnovare delle concessioni rappresenta un messaggio politico molto chiaro. Si sta comunicando all’esterno del Paese che la situazione non solo è sotto controllo, ma che per quanti cambiamenti possano avvenire all’interno, gli interessi degli attori esterni verranno tutelati. La transizione algerina vuole presentarsi non solo come pacifica, ma anche stabile. Il messaggio che vuole far passare Gaid Salah è che cambierà tutto ma non cambierà niente. Si vuole far capire al mondo non solo che non c’è motivo di preoccupazione, ma soprattutto che non c’è motivo di puntare il dito su certe forzature o interventi non proprio ortodossi che potranno esserci nel futuro.
Descalzi insomma secondo lei può stare tranquillo?
Nessuno in Algeria può stare tranquillo sino in fondo. Questo è però ciò che le persone al potere in Algeria vogliono comunicare: che le forze armate esercitano tuttora un controllo capillare e assoluto.