Ecco come i Servizi segreti italiani fanno la guerra a Isis

Ecco come i Servizi segreti italiani fanno la guerra a Isis

29.11.2016

Chi c’era e cosa si è detto al convegno su “Il terrorismo di matrice confessionale: caratteristiche della minaccia e strumenti per la prevenzione e il contrasto in ambito internazionale” organizzato dall’Arma dei Carabinieri

Lo hanno detto tutti e chiaramente: il rischio di nuovi attentati terroristici, in Italia e in Europa, è molto alto. Foreign fighters che tornano dai teatri di guerra, l’Isis che perde terreno e che potrebbe rifarsi mettendo all’opera le cellule all’estero, l’ipotesi di un attacco multiplo, i soliti lupi solitari: l’allarme viene dalle intelligence italiana e francese ed è il principale elemento emerso dal convegno su “Il terrorismo di matrice confessionale: caratteristiche della minaccia e strumenti per la prevenzione e il contrasto in ambito internazionale” organizzato dall’Arma dei Carabinieri.

La prevenzione resta l’arma fondamentale, a cominciare dalle carceri. Il sottosegretario alla Giustizia Cosimo Ferri ha fornito dati interessanti: sono 371 i detenuti islamici sotto controllo perché a rischio radicalizzazione, divisi in tre categorie di allarme crescente: “I monitorati sono 167 – ha detto Ferri – , gli attenzionati sono 67 e i segnalati 137. Sono 34 le persone espulse a fine pena”. E a questo proposito, nelle stesse ore del convegno il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, annunciava altre due espulsioni: sono 127 da gennaio 2015, di cui 61 quest’anno. Operazioni fondamentali, ma che non bastano. “Lo scenario globale cambia in continuazione – ha detto il generale Tullio Del Sette, comandante dell’Arma, inaugurando il convegno – e abbiamo creato delle unità speciali” riferendosi alle Uopi della Polizia, alle Api e Sos dei Carabinieri, una via di mezzo tra le forze speciali e le normali pattuglie per un intervento immediato in caso di attentato.

Il prefetto Alessandro Pansa, direttore del Dis, non ha nascosto il “rischio incombente che si può concretizzare in ogni momento” derivante dal ritorno dei foreign fighters, rischio che aumenta con il perdere terreno da parte dell’Isis sui teatri di guerra, “anche se in Italia non abbiamo grandi presenze di questo ritorno”. Sappiamo che i terroristi puntano ai cosiddetti “soft target” piuttosto che agli obiettivi strategici, più protetti, perché colpire un soggetto indifeso ha un effetto “più terrificante”. Ma Pansa è stato molto diretto nell’escludere la possibilità di un’“intelligence europea”: “Il nostro lavoro è la sicurezza nazionale. E’ evidente che la minaccia jihadista non si può combattere ognuno per sé, quindi occorre allearsi, ma su uno specifico dossier. Se cambiamo dossier, quel Paese potrebbe non essere amico, ma nemico: è difficile immaginare un’attività congiunta globale”.

Ancora più preoccupante il quadro fatto dal prefetto e generale dei Carabinieri Mario Parente, direttore dell’Aisi. Il rientro dei foreign fighters in Europa si aggiunge al problema dei “lupi solitari”: “L’Italia può essere teatro di pianificazioni terroristiche complesse, com’è avvenuto in Francia e in Belgio con ‘operativi’ addestrati sul luogo o con foreign fighters di ritorno. Dall’Italia ne sono partiti 112. L’altra possibilità – ha continuato Parente – è al Qaeda che, parallelamente al calo dell’Isis, potrebbe riaffermare il proprio ruolo con attentati eclatanti”. Infine, l’eterno problema dei lupi solitari, “piccole cellule che potrebbero fondersi con chi torna e usare tecniche apprese in guerra”. Come reagisce il sistema di sicurezza italiano, che pure sta funzionando? “Monitorando il web, dove gli ‘islamonauti’ radicali alimentano il dibattito jihadista, e i luoghi di aggregazione che non sono più quelli di una volta”. Sempre meno le moschee, ha sottolineato il direttore del servizio segreto interno, e più internet point, negozi kebab, macellerie islamiche, carceri, strutture di accoglienza per immigrati. Un lavoro molto complesso anche perché, contrariamente a quanto si possa pensare, non basta concentrare l’attenzione sulle periferie: un’analisi dell’Aisi su queste aree, infatti, ha fatto scoprire che vi viveva solo il 21,6 per cento su 200 soggetti legati al terrorismo, tra arrestati ed espulsi.

Per la prima volta hanno parlato in pubblico tutti i vertici dell’intelligence italiana, circostanza sottolineata con un filo di imbarazzo dal generale Alberto Manenti, direttore dell’Aise. Nello scambio tra Servizi occorre “definire la minaccia e il modo di attaccarla”, anche perché l’Isis opera “sia in modo simmetrico che asimmetrico”, cioè con guerre tradizionali e con attentati. “La radicalizzazione – ha aggiunto Manenti – non avviene per motivi economici”, dunque l’Aise deve avere “la capacità di un’analisi psicologica che spieghi le ragioni della radicalizzazione”. Interessante il quadro sulla situazione libica: “Il 95 per cento degli affiliati all’Isis a Sirte è composto da stranieri, la gioventù libica non presenta problemi di radicalizzazione. In quell’area, dunque, più che un problema di terrorismo c’è quello di evitare la guerra civile. La vera minaccia ci sarà se non troveranno un equilibrio interno”. Andrea Margelletti, presidente del Centro studi internazionali e moderatore del dibattito, ha chiesto a Manenti come cambiano i “criteri di caccia”: “Il lavoro delle spie non è cambiato – ha risposto Manenti – il modo di fare e la cultura italiani avvantaggiano e si cerca di reclutare quante più persone possibile vicino alla ‘centrale’ del terrore”. Poi, certo, c’è il ruolo di “force protection” rispetto alle forze impegnate in vari teatri esteri di concerto con il Ris, reparto informazioni e sicurezza dello Stato maggiore della Difesa, come ha spiegato il capo, ammiraglio Fabrizio Simoncini.

“Siamo in una fase di passaggio delicata e cruciale, possono cadere Mosul e Raqqa senza dimenticare che si sono ridotti del 50 per cento i finanziamenti all’Isis: se non riescono a combattere, possono fare attentati nel mondo”. Anche Marco Minniti, sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega all’intelligence, non ha usato giri di parole e ha indicato diverse strade. Innanzitutto la necessità di controllare le frontiere di Schengen, “bisogna correre rapidamente su questo, altrimenti ci sarà qualcuno che chiederà di sospendere Schengen e la libera circolazione”. Un altro punto cruciale è il Casa, il Comitato di analisi strategica antiterrorismo, struttura fondamentale per lo scambio di informazioni che nessun’altra nazione ha, che “va implementato con la procura nazionale antiterrorismo, creando uffici di collegamento”. Nonostante “risorse sofisticate”, resta sempre valido l’insegnamento degli indiani nel Far West e il loro “orecchio sul terreno”: “L’intelligence umana, la humint, non è sostituibile” ha detto Minniti aggiungendo due concetti centrali: “Servono un’alleanza tra Stati e i grandi provider del web e una grande alleanza con il mondo arabo”. Una battaglia anche culturale, dunque, perché l’obiettivo dei terroristi “è il controllo del potere sul territorio demolendo gli Stati nazionali” ha spiegato Maurizio Molinari, direttore de La Stampa. “L’Isis ha successo perché non c’è più un leader sunnita dopo Saddam Hussein, a questo si aggiunge la passione assoluta per la violenza perché strumento di deterrenza – ha aggiunto Molinari – e infine il fondamentale uso del web”.

“Il prossimo attentato potrebbe essere multiplo, la minaccia è reale e molto grave”. A mettere altro pepe nella discussione è stato Jean Pascal Mariani, del coordinamento antiterrorismo della polizia francese, che ha ricordato gli attentati programmati tra Marsiglia e Strasburgo e sventati una decina di giorni fa. “Anche al Qaeda sta cercando di tornare sulla scena e attendiamo un suo attentato, magari non in Francia” ha detto Mariani. I foreign fighters francesi sono 691 di cui 300 donne, 222 sono morti e c’è un serbatoio di un migliaio di persone tentato di andare a combattere. Dopo gli attentati del novembre scorso a Parigi, ha spiegato Mariani, è cambiata l’organizzazione del primo intervento con regole d’ingaggio diverse. Pattuglie di forze speciali, inoltre, girano 24 ore al giorno a bordo di moto. A commento dell’intervento di Mariani, Margelletti ha sottolineato una possibile criticità in Italia: la necessità di un sistema integrato che preveda non solo forze speciali e in genere le forze dell’ordine, ma anche un’adeguata reazione dei volontari delle ambulanze, degli ospedali o degli stessi vigili del fuoco di fronte a una vera emergenza.

Sul fronte giudiziario, il procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo, Franco Roberti, ha spiegato l’importanza del database della Dna: “Le segnalazioni che arrivano dalla Banca d’Italia sui flussi finanziari sospetti vengono trasmesse in tempo reale al nostro sistema di banca dati, che le incrocia con le informazioni in arrivo dalle procure. Possiamo così arricchire la conoscenza su determinati soggetti, il che ci permette di rilanciare alle procure un impulso investigativo”. A livello europeo, Filippo Spiezia, rappresentante per l’Italia di Eurojust, ha aggiunto che lo “scambio di informazioni dev’essere tempestivo” perché altrimenti si rischia un altro 11 settembre: “La Cia, l’Fbi o la Difesa avevano delle informazioni che però nessuno incrociava” ha ricordato Matthew Blue, vicecapo dell’antiterrorismo del dipartimento della Giustizia americano. Tanti progressi, ma possiamo migliorare: il colonnello Manuel Navarrete Paniagua, direttore del centro antiterrorismo dell’Europol, ha spiegato visivamente che oggi la cooperazione antiterrorismo equivale a un foglio A4 rispetto al gigantesco arazzo appeso alle sue spalle nella sala del comando unità mobili e specializzate “Palidoro”.

La chiusura dei lavori, tanto sintetica quanto efficace, è toccata al generale Vincenzo Coppola, comandante della “Palidoro”. Coppola ha ammesso che sono emersi “problemi per la gestione del dopo” quando sono state fatte esercitazioni antiterrorismo e dunque “la prevenzione è fondamentale”. Ma, ricordando il concetto di “sicurezza avanzata” illustrato nel 2003 da Javier Solana, all’epoca Alto rappresentante europeo per la politica estera e la sicurezza comune, il generale ha detto che applicare questo concetto significa che “dobbiamo andare lontano a difendere gli interessi nazionali ed europei” perché se il nemico arrivasse sui nostri confini “sarebbe tardi”. Solo che a questo punto un generale deve fermarsi e attendere le decisioni della politica.

Fonte: Formiche.net