Che fine faranno i 400 militari italiani che sono a Misurata, in Libia?
Huffington Post

Che fine faranno i 400 militari italiani che sono a Misurata, in Libia?

05.09.2018

L’Italia è presente ufficialmente in Libia con la missione Miasit di assistenza e supporto al Governo di accordo nazionale di Fayez al-Sarraj

E ora cosa accadrà ai 400 di Misurata? Ora che i Misuratini hanno cambiato casacca e deciso di aprire al nemico di ieri e possibile alleato dell’oggi: il generale Khalifa Haftar. Invece di vaneggiare su una improbabile, e più volte smentita, task force italiana nel far west libico, sarebbe il caso di porsi un problema serio, concreto e del presente: quello, per l’appunto, dei 400 militari italiani che in Libia ci stanno davvero, e da tempo, e che oggi rischiano di trovarsi in una situazione molto complicata. L’Italia, è bene ricordarlo, è presente ufficialmente in Libia con la missione Miasit di assistenza e supporto al Governo di accordo nazionale di Fayez al-Sarraj. Prevede, dal primo gennaio al 30 settembre 2018, un impiego massimo di 400 militari, 130 mezzi terrestri e mezzi navali e aerei (questi ultimi nell’ambito delle unità del dispositivo aeronavale nazionale Mare Sicuro). Miasit sostituisce e rafforza la vecchia missione Ippocrate (300 uomini e 103 mezzi) che ha permesso la realizzazione di un ospedale militare da campo a Misurata che offre 30 posti letto. I militari italiani sono impegnati anche nell’addestramento delle forze locali. Quell’ospedale da campo è il nostro fiore all’occhiello. E i soldati che lo presidiano, i preziosi custodi. Nessun problema fino ad oggi, perché la potente milizia di Misurata era parte attiva e cruciale del variegato arcipelago di milizie e tribù della Tripolitania che sostenevano al-Serraj. Ora, però, il quadro è mutato. E quelli di Misurata, come raccontato sul campo dall’inviato del Corriere della Sera, e profondo conoscitore della realtà libica, Lorenzo Cremonesi, hanno operato un passaggio strategico, da Sarraj ad Haftar. "Nessuno è più disposto a morire per Sarraj, tutto è cambiato, apriamo ad Haftar. Il messaggio è chiaro. E tra i destinatari c’è anche il Governo italiano. Tutto andrà ridiscusso, vecchi accordi presi col governo a guida Serraj rischia di diventare, nel nuovo scenario, carta straccia. E in questo contesto, si pone il tema dei “400”. La loro presenza, confidano ad _HuffPos_t fonti locali libiche, è stata apprezzata dalla popolazione locale e l’ospedale militare è servito per curare feriti e salvare vite umane, ma tutto questo nell’ambito di un accordo con un governo, quello di Sarraj, nel quale i Misuratini non sembrano riconoscersi più. E tutto questo mentre la fragile tregua rischia di finire pochi giorni dopo la sua definizione.

Una violazione del cessate il fuoco in corso a Tripoli dall’altro ieri è stato denunciato dalla milizia ribelle “Settima Brigata” secondo quanto riporta il sito di un’emittente libica, Libya 24. La formazione ha sostenuto di essere stata attaccata da una milizia, “al-Daman”, e di aver subito di il ferimento di due suoi uomini. La Settima di fanteria ha annunciato “che è stata vittima dell’inganno di milizie che hanno approfittato dello svolgimento della seduta del Consiglio di sicurezza (delle Nazioni Unite di ieri sera) per violare l’accordo la tregua”, scrive il sito. La formazione, protagonista dei nove giorni di scontri avvenuti nella capitale libica, ha aggiunto che “le milizie al-Daman hanno violato il cessate il fuoco facendo due feriti” fra i loro elementi. Nel contempo, Il governo di Accordo nazionale ha annunciato un’imminente ripresa i voli dall’aeroporto Mitiga, lo scalo di Tripoli chiuso dal 31 agosto a causa degli scontri fra milizie. Lo segnala la pagina Facebook dell’Ufficio stampa dell’esecutivo “Assicurare l’apertura dell’aeroporto di Mitiga, di tutte le strade della capitale e di quelle che vi confluiscono” era il quinto dei sette punti dell’accordo di cessate il fuoco raggiunto l’altro ieri. “Il cessate il fuoco tra le principali parti in conflitto in Libia ha effettivamente bloccato i combattimenti e ha iniziato il ripristino dell’ordine a Tripoli. I gruppi che violano la tregua devono essere responsabili, il momento dell’impunità è passato, non permetteremo che si ripeta quanto accaduto nel 2014”, ha affermato l’inviato speciale in Libia, Ghassan Salamè, durante la riunione del Consiglio di Sicurezza Onu, in videoconferenza da Tripoli. Salame’ ha detto che l’Onu e la comunità internazionale stanno monitorando la situazione. Quindi ha sottolineato che le Nazioni Unite si stanno concentrando sulla revisione degli accordi sulla sicurezza di Tripoli e per affrontare le questioni economiche che sono alla base della crisi. La missione Unsmil, ha aggiunto, ritiene che la richiesta del premier Fayez Sarraj di sostegno internazionale per una revisione finanziaria sia una preziosa opportunità per portare trasparenza e responsabilità nella gestione della ricchezza in Libia. Ottimi propositi, ma realizzarli è alquanto complicato.

Perché, sette anni dopo la fine del regime di Muammar Gheddafi, la Libia è sempre più nel caos. Politico e militare. Che non data l’oggi. "Il punto debole di gran parte delle iniziative messe in campo per la Libia, ad oggi – rileva in proposito Lorenzo Marinone in un documentato report per il CeSI (Centro Studi Internazionali) - è un approccio basato sull’esclusione di determinati attori. Un carattere sempre più evidente anche nel Governo di Unità Nazionale (GUN). Da un lato, è innegabile che il Premier Sarraj, dal 2016 a oggi, abbia cercato di cooptare sempre più realtà locali per consolidare la sua base di legittimità.

Dall’altro lato, però, questo processo è stato progressivamente indebolito dall’emergere di un gruppo compatto di milizie tripoline che, di fatto, detengono il potere (sia politico che economico). Ne fanno parte le Brigate Rivoluzionarie di Tripoli di Haitham al-Tajouri, la Brigata Nawasi guidata dall’ex ministro dell’Interno Abd al-Latif Qaddur, l’Unità di Abu Salim al comando di Abdul Ghani al-Kikli, e la Forza Speciale di Deterrenza (meglio nota come Forza Rada) il cui leader è il salafita Abdelraouf Kara. Grazie al controllo delle sedi istituzionali, delle banche e delle infrastrutture strategiche hanno creato un vero e proprio “cartello” para-mafioso, con cui influenzano profondamente il GUN, lo piegano ai propri interessi personali, e si coordinano per evitare che altri attori riescano ad avere influenza a Tripoli. Non deve quindi stupire che, ciclicamente, gli attori esclusi dalla capitale tentino di farvi ritorno con la violenza. Infatti, le milizie di Misurata (il Fronte Sumud di Salah Badi) e Tarhouna (le milizie Kani, note anche come 7° Brigata) che in questi giorni attaccano Tripoli sono state cacciate dalla città non più tardi di maggio 2017…". Quanto alla diplomazia internazionale, a tenere banco è ancora il confronto tra Parigi e Roma. “In appoggio alle Nazioni Unite e al fianco dei suoi partner, la Francia è determinata a lavorare al proseguimento del processo politico e all’organizzazione di elezioni entro la fine dell’anno” in Libia, “seguendo il piano d’azione delle Nazioni Unite”: è quanto si legge in una nota diffusa dal ministero degli Esteri di Parigi. “Chi cerca di ostacolare il processo politico - aggiunge Parigi - dovrà rispondere dei propri atti”. Non basta. “La comunità internazionale deve imperativamente rimanere unita e determinata per agire contro tutti coloro che cercano di frenare o indebolire il processo politico volto all’organizzazione delle elezioni attese dal popolo libico per scegliere i suoi futuri dirigenti”: è quanto si legge in una nota, diffusa stavolta dall’Eliseo al termine di un colloquio telefonico tra il presidente francese e il premier libico, Macron, recita la nota, si è intrattenuto oggi con Sarraj, con cui le squadre diplomatiche francesi sono state in “continuo contatto in questi ultimi giorni”. Durante il colloquio, il capo dello Stato ha ribadito il “sostegno della Francia al Consiglio presidenziale libico riconosciuto dalla comunità internazionale e al processo politico volto ad una Libia pacifica, sovrana, unita e democratica”.

Anche la posizione dell’Italia sul voto è netta. “La nostra posizione è che quando fare le elezioni lo devono stabilire i libici e le loro istituzioni. Noi non fissiamo date”, dice il ministro degli Esteri Enzo Moavero Milanesi alle commissioni congiunte Esteri e Difesa di Camera e Senato. E aggiunge: “Su questa questione esiste una dialettica, dentro e fuori l’Italia. Ma è curioso che le date siano stabilite dall’esterno”. Intanto Roma prosegue per la sua strada confermando la volontà di organizzare una conferenza di pace simile a quella di Parigi. “La conferenza sulla Libia si terrà in Italia a novembre nel formato ‘di Roma’, quindi con la partecipazione anche di Cina e Stati Uniti”, ha sottolineato Moavero Milanesi: “Il luogo – dice - potrebbe essere la Sicilia, ma non è ancora stato deciso”. Ma il titolare della Farnesina non è un uomo dedito alle bordate e, pur ribadendo la posizione italiana sul voto, prova a non rinfocolare polemiche con l’Eliseo. “C’è un nemico di tutti in Libia ed è d’estremismo, il fondamentalismo. Non è questione solo di bisticci, competizione con questo o quell’altro Paese europeo”, avverte il capo della diplomazia italiana., ricordando che “con la Francia abbiamo fatto una dichiarazione appena due giorni fa, anche l’1 settembre. Mi riconosco nelle dichiarazioni del presidente Macron sulla necessità di dialogare con tutti e sostenere lo sforzo dell’Onu”. Moavero non viene meno alla necessità del dialogo e spiega che: “L’approccio inclusivo del dialogo con tutti gli attori - continua Moavero - comporta che noi già da tempo stiamo dialogando con tutti, nessuno escluso”. Il ministro degli Affari esteri ricorda poi che il governo italiano intende lavorare “con tutti gli Stati, sia quelli che condividono le nostre visioni, sia con quelli che non le condividono, sia con quelli che sono animati da una certa competitività nei nostri confronti”. Anche perché, aggiunge la ministra della Difesa Elisabetta Trenta - anche lei intervenuta in audizione alle commissioni congiunte - gli scontri in Libia “non sembrano essere legati a questioni politiche, ma invece conseguenti al mancato rispetto da parte delle istituzioni tripoline di alcuni accordi di carattere economico e sul coinvolgimento nella gestione della sicurezza della capitale, provocando lo scontento delle fazioni ribelli”. Insomma, a Tripoli non è in atto un “golpe” ispirato da Macron, come sostenuto da Matteo Salvini. Una conferma che sulla Libia, e su Macron, esistono due linee nel governo gialloverde.

Fonte: Huffington Post