Sviluppo, insicurezza e volatilità politica nel Golfo di Guinea
Il Golfo di Guinea è una ampia insenatura dell’Oceano Atlantico che lambisce le coste africane occidentali dal Senegal fino all’Angola, includendo al proprio interno tra i Paesi più popolosi e tra le economie più dinamiche e in espansione del continente, come testimoniato dalla crescita media annua del PIL pari al 3% negli ultimi 10 anni.
Sinora, il modello di sviluppo dei Paesi rivieraschi si è basato principalmente sullo sfruttamento dei giacimenti idrocarburici e sull’esportazione di petrolio. Ad esempio, Nigeria ed Angola sono tra i massimi produttori di greggio africani e basano buona parte della propria stabilità finanziaria e delle proprie entrate in valuta pregiata sulla vendita di “oro nero”.
Tuttavia, negli ultimi 2 decenni, i modelli produttivi nazionali hanno iniziato ad evolversi, cercando vie per la diversificazione e osservando la crescita di un mercato interno sempre più variegato ed esigente. Tale crescita ha stimolato l’incremento dell’interscambio commerciale non-energetico e, conseguentemente, il traffico commerciale marittimo, spingendo i Paesi rivieraschi ad investire nel rinnovamento delle infrastrutture portuali ormai congestionate.
Inoltre, l’abbondanza di risorse alimentari ha reso gli Stati del Golfo di Guinea tra i maggiori produttori di pesce al mondo, rendendo il mercato ittico locale uno dei principali bacini di fornitura per soddisfare il fabbisogno europeo.
Purtroppo, il sistema economico adottato dai Paesi rivieraschi ha avuto impatti deleteri su alcune delle comunità locali della costa. L’estrazione di petrolio e il rinnovamento infrastrutturale hanno creato ingenti danni ambientali in grado di compromettere le fonti di sostentamento di agricoltori e pescatori, mentre la pesca intensiva dei pescherecci stranieri ha ridotto la popolazione ittica autoctona ed eroso i margini di guadagno dei piccoli imprenditori.
L’emarginazione economica è andata a fomentare i risentimenti politici e le faglie di conflittualità etnica pre-esistenti nei singoli Paesi, gettando le basi per la nascita di movimenti di protesta e di gruppi di insorgenza armata, su tutti il MEND ed i suoi eredi nel Delta del Niger.
Presto la carica politica dell’insurrezione è svanita, sostituita da un accentuato pragmatismo che ha spinto i “combattenti per la libertà” a trasformarsi in contrabbandieri di petrolio prima e in pirati poi. In tal senso, il traffico di carburanti e il business dei rapimenti degli equipaggi delle navi si sono dimostrate due attività più lucrative per le disilluse e vulnerabili popolazioni del sud della Nigeria. Oggi, questa tendenza si è tradotta nella drammatica evoluzione del Golfo di Guinea nel principale hotspot della pirateria globale, con numeri in costante ascesa e in controtendenza rispetto al resto del mondo, dove invece il fenomeno è in fase calante.
La necessità di proteggere la libertà dei mari e le rotte di navigazione, di tutelare gli interessi nel settore energetico ed infrastrutturale e di contribuire alla stabilità internazionale ha spinto sia i Paesi rivieraschi che i loro partner internazionali ad impegnarsi in attività sempre più complesse di contro-pirateria.
In tal senso, nel 2020, l’Italia ha lanciato la prima missione permanente su base annua nel Golfo di Guinea, imponendosi immediatamente sulla scena regionale come provider di sicurezza e supporto capacitivo per i Paesi africani. La proiezione del nostro Paese, tuttavia, non va interpretata in un mero senso militare, quanto piuttosto come la promozione delle nostre eccellenze all’estero e come il volano per l’intensificazione delle relazioni politiche ed economiche con un continente in crescita e denso di opportunità.