Sorek B, il braccio di ferro tra Washington e Pechino passa anche da Israele
Il 13 maggio, il Segretario di Stato americano Mike Pompeo si è recato in visita all’ambasciata americana a Gerusalemme, ribadendo la necessità che Israele rafforzi il sistema di screening sugli investimenti cinesi. Le pressioni mosse da Pompeo giungono a seguito delle recenti preoccupazioni sollevate dell’Amministrazione statunitense riguardo Hutchinson, un conglomerato multinazionale cinese con sede a Hong Kong giunto alla fase finale della gara d’appalto per la costruzione dell’impianto di dissalazione Sorek B, nei pressi di Palmachim, principale spazioporto israeliano. Il Sorek B non è un progetto di poco conto. Si tratta dell’impianto di dissalazione più grande al mondo, con una capacità produttiva di 200 milioni di metri cubi di acqua all’anno, ovvero un quarto del consumo medio annuale israeliano.
Il cambio di rotta suggerito da Pompeo sembra aver raccolto i suoi frutti. Infatti, martedì 26 maggio, il Ministro delle Finanze israeliano ha annunciato la vittoria della società israeliana IDE Technologies con il sostegno di istituti bancari come la locale Leumi, la tedesca KfW e la Banca europea per gli investimenti. L’eventualità che Hutchinson potesse firmare l’accordo per il progetto da 1,5 miliardi di dollari aveva infatti messo in allerta la Casa Bianca fin dal primo momento, già preoccupata per l’ingente flusso di investimenti cinesi in Israele registrato negli ultimi anni, soprattutto in settori strategici.
Sebbene le preoccupazioni sulla crescente collaborazione sino-israeliana non siano quindi una novità, i potenziali scenari post-pandemici stanno particolarmente agitando gli ambienti politici statunitensi. Mentre in Europa e in America la produzione industriale crolla, gli ultimi dati di aprile rilasciati dalle Dogane cinesi registrano un surplus commerciale di oltre 45 miliardi di dollari. Inoltre, la ripresa di una serie di investimenti su larga scala dimostrano come il governo cinese non abbia intenzione di rallentare il controllo sui capitali messo in piedi negli ultimi anni, ma bensì di accelerarne il processo, soprattutto di fronte ad una generale e progressiva richiesta di capitali generata dall’emergenza sanitaria. Israele, leader del settore high-tech si inserisce perfettamente nella strategia diplomatica cinese, offrendo uno spazio ottimale per ingenti investimenti nelle biotecnologie e nell’industria med-tech. Lo conferma la recente approvazione del tandem tra il colosso della genomica cinese BGI e la società israeliana del DNA MyHeritage per la creazione di una struttura di emergenza atta a potenziare i test sui pazienti sospetti di aver contratto il coronavirus.
Per ritrovare le premesse della relazione sino-israeliana e comprendere il perché le pressioni di Washington si siano intensificate negli ultimi mesi, è necessario analizzare come Israele abbia cercato di bilanciare gli interessi vis-a-vis le due superpotenze economiche. Sebbene le relazioni diplomatiche tra Pechino e Tel Aviv emergano agli inizi degli anni ’90, la cooperazione commerciale si è intensificata solo nell’ultimo decennio. Per quantificare la crescita di scambi tra i due Paesi, basti pensare che nel 2017 il commercio bilaterale era 200 volte più grande rispetto a quello fatto registrare all’inizio delle relazioni nel ’92. Dal 2013, le società cinesi hanno incrementato la loro presenza in Israele attraverso acquisizioni societarie e gare d’appalto sulla costruzione di infrastrutture chiave. Tali attività si sono focalizzate nel settore high-tech, in cui l’apporto di capitale di rischio cinese è raddoppiato, da 500 milioni di dollari nel 2014 a 1 miliardo nel 2016. In particolare, gli investimenti cinesi in startup hi-tech israeliane ha raggiunto i 325 milioni di dollari nei primi tre trimestri del 2018, segnando un aumento del 37% rispetto all’anno precedente. Nello stesso arco temporale, le importazioni cinesi da Israele (chipset, dispositivi a semiconduttori e altri prodotti altamente tecnologici) hanno conosciuto un aumento del 47,2%, numeri che hanno reso la Cina il primo partner asiatico di Tel Aviv ed il terzo su scala globale.
Ciò che rende Israele un partner sui generis per Pechino è la convergenza di due obiettivi primari per il colosso asiatico: lo sviluppo del progetto della Nuova Via della Seta (Belt and Road Initiative, BRI), e l’ottenimento di un vantaggio competitivo nell’high-tech rispetto le economie occidentali al fine di consolidare il suo ruolo di potenza economica globale. In aggiunta, un solido rapporto con Israele consoliderebbe l’influenza di Pechino nell’area mediorientale, controbilanciando storiche partnership come quella con l’Iran e l’Arabia Saudita. Intese, quest’ultime, dettate dall’energivora economia cinese. Israele ha tutte le caratteristiche per essere uno snodo chiave nella Nuova Via della Seta Marittima, connettendo l’Oceano Indiano al Mar Mediterraneo attraverso il Golfo di Suez. Due esempi significativi riguardano la costruzione del nuovo porto a Ashdod, vinta da una consociata della China Harbour Engineering nel 2014, e il potenziale progetto cinese della ferrovia Red-Med, ponte tra i porti di Eilat e Ashdod. Quello di Ashdod, però, non è l’unico porto che vede il coinvolgimento cinese. Infatti, nel 2015 la società pubblica SIPG, controllata dalla municipalità di Shangai, si è accaparrata il progetto del porto di Haifa. La stessa società ha in seguito siglato un accordo con il governo israeliano riguardo l’implementazione del complesso portuale, da realizzarsi nel 2021. La decisione farebbe parte di un programma statale volto ad incrementare il livello competitivo e partecipativo del settore privato nell’industria portuale israeliana. È bene evidenziare, però, come il programma escluda il coinvolgimento del Consiglio di Sicurezza Nazionale e l’opinione della Marina, un fattore rilevante se si pensa che lo stabilimento settentrionale del porto di Haifa è sede della flotta sottomarina israeliana e scalo di quella navale americana. Il carattere critico della struttura sotto il potenziale controllo cinese ha destato, al tempo, particolari preoccupazioni da parte di Washington, i cui ammonimenti hanno verosimilmente spinto il Primo Ministro Netanyahu a rivedere l’accordo.
Dunque, gli investimenti diretti ad infrastrutture considerate ‘chiave’ per la sicurezza nazionale hanno di recente attirato maggiore attenzione e sospetto soprattutto da parte americana, complice l’assenza di un meccanismo di screening chiaro e comprensivo. Dal 2013, Benjamin Netanyahu ha mostrato una particolare apertura verso Pechino, accogliendo apertamente offerte riguardanti progetti di infrastrutture rilevanti. La motivazione primaria va rinvenuta nella volontà di consolidare il rapporto con quello che è il gigante economico cinese e al contempo diversificare i suoi partner commerciali.
A facilitare la crescente attività cinese in Israele è stata la presenza di un ambiente legislativo relativamente permissivo, con un intervento regolatorio diretto solo ed esclusivamente ad investimenti afferenti beni e tecnologie militari o a duplice uso, civile e militare. Prima di quest’anno Israele non aveva mai avuto un meccanismo onnicomprensivo simile al Comitato sugli investimenti esteri negli Stati Uniti (CFIUS), il cui ruolo consiste nel valutare ogni acquisizione estera di entità domestiche al fine di schermare eventuali minacce alla sicurezza nazionale. Tuttavia, lo scorso 30 ottobre, il governo israeliano ha annunciato la formazione di un nuovo comitato consultivo, volto ad assistere nello screening di investimenti esteri. Sebbene non venga nominato nessun Paese nello specifico, le intenzioni di Tel Aviv mirano a mitigare la stretta americana senza rischiare di compromettere la relazione con Pechino. Washington, dall’altra parte, ha bocciato la formazione del comitato, lamentando una serie di importanti limitazioni legali e strutturali. In primis, il comitato è stato istituito da un governo ad interim. Di conseguenza, l’assenza di una base legislativa solida ne limita la potenziale funzione di monitoraggio, compromettendone l’efficacia. Secondo, la denominazione ‘consultiva’ implica una deliberata scelta da parte del governo nell’interpellare il comitato per una valutazione, il cui carattere è per di più non vincolante. Terzo, il raggio d’azione del comitato è estremamente ridotto; gli ambiti su cui può intervenire comprendono la finanza pubblica, le comunicazioni, le infrastrutture, i trasporti e l’energia. L’esclusione del settore tecnologico è il fattore chiave che distingue il comitato israeliano dal corrispettivo americano CFIUS. Quest’ultimo infatti include tutte le transazioni relative a tecnologie definite come critiche, emergenti e fondanti, fra cui le biotecnologie, l’intelligenza artificiale, la robotica. La maggior parte degli investimenti cinesi in Israele si inserisce proprio in tali settori, esenti però, dalle competenze del comitato.
Il caso dell’impianto Sorek B, definita infrastruttura critica, illustra un ulteriore limite del comitato. Infatti, questo non ha capacità consultiva retroattiva, e dunque, non può intervenire su un bando pubblicato prima della sua formazione. Ad ogni modo, è evidente come la nascita del comitato corrisponda ad un primo tentativo di tamponare le pressioni di Washington senza compromettere il prezioso rapporto commerciale con Pechino. Infatti, gli ingenti investimenti cinesi, rappresentano per Tel Aviv un’opportunità importante per mantenere il suo vantaggio assoluto nell’high-tech, settore portante dell’economia israeliana; una priorità che sembra attualmente prevalere sulle pressioni di Washington.