La ripresa di Hodeida potrebbe delineare nuovi riposizionamenti nello scacchiere yemenita
Lo scorso 17 novembre le milizie ribelli Houthi hanno ripreso il controllo del porto yemenita di Hodeida, sul Mar Rosso, in seguito al ritiro delle forze lealiste. Queste ultime, attraverso una dichiarazione congiunta, avevano annunciato il loro indietreggiamento e conseguente ridispiegamento nel sud del Paese, forti del fatto che la zona fosse sottoposta ad un regime di tregua imposto dalle Nazioni Unite. L’origine dell’intesa ONU risiedeva nei violenti combattimenti svoltisi proprio ad Hodeida a metà del 2018, che avevano visto l’esercito governativo yemenita strappare il controllo del territorio agli Houthi. Dopo mesi di ostilità, le parti avevano sottoscritto un accordo di cessate il fuoco per tutelare il porto, strategico punto di ingresso per le importazioni e gli aiuti umanitari. Da allora però le forze lealiste erano rimaste nella città costiera in posizione difensiva a causa degli sporadici tentativi di incursione dei ribelli, detenendo di fatto una posizione di vantaggio rispetto alla controparte. Con il ritiro delle truppe governative si sono riaccese però le tensioni tra le parti, generando nuovi combattimenti e provocando la fuga di migliaia di civili verso Khokha, a più di 100 chilometri a sud dagli scontri. La missione di monitoraggio delle Nazioni Unite per la salvaguardia dell’accordo di Hodeida (UNMHA) ha esortato le parti a garantire la sicurezza della popolazione, sottolineando poi di non essere stata informata anticipatamente dei movimenti né dell’esercito lealista, né della coalizione araba sotto egida saudita.
La presa di Hodeida ha una valenza significativa poiché la città è il principale punto d’ingresso per aiuti umanitari e flussi commerciali (quasi il 90% degli approvvigionamenti alimentari yemeniti derivano dalle importazioni e passano attraverso questo accesso), oltre ad essere un importante passaggio verso la capitale Sana’a. In questo senso, il controllo della città comporta un controllo delle entrate economiche provenienti dalla dogana e dalle tariffe sulle merci esportate e importate, consentendo anche una maggiore proiezione sulle isole strategiche yemenite situate nel Mar Rosso. Difatti i ribelli riuscirebbero non solo a sorvegliare i flussi commerciali diretti in tutto il Paese assicurandosi una posizione particolarmente vantaggiosa, ma anche ad ottenere armi attraverso la fornitura navale iraniana. Per far ciò però è necessario, come starebbe avvenendo in queste ore, proseguire l’avanzata militare verso Sud in modo da controllare per intero la costa del Mar Rosso e gestire più accessi sensibili per le forniture.
Il ritiro delle forze lealiste da Hodeida potrebbe essere spiegato dalla necessità di un nuovo dispiegamento al sud del Paese. Questa ipotesi sembrerebbe però essere contraddetta dal fatto che le forze di Riyadh abbiano abbandonato un’importante base ad Aden e quelle di Abu Dhabi avrebbero lasciato le proprie posizioni ad al-Durayhimi e al-Tahita, località collocate nella parte meridionale dello Yemen. In concomitanza alla ritirata dei lealisti, gli Houthi hanno continuato ad assediare la città di Marib, ultima roccaforte settentrionale del governo sostenuto dai sauditi, e hanno avanzato verso il governatorato di Shabwa a sud, zona ricca di idrocarburi. Nonostante l’apparente indietreggiamento della coalizione saudita-emiratina, questa sembrerebbe comunque essere guidata da una nuova strategia che si focalizza sul controllo di aree chiave del Paese a discapito di ampi territori difficili da mantenere. In questo senso le loro truppe potrebbero concentrarsi sulla città di Marib, area dalla forte valenza strategica dove gli Houthi continuano a dispiegare le proprie milizie.
Ciononostante, tra le priorità di Riyadh in politica estera vi è la necessità di trovare una via di fuga politica dal pantano yemenita, soprattutto perché i suoi confini continuano ad essere minacciati dal lancio di droni e missili da parte dei ribelli. L’Arabia Saudita, nonostante continui ad attaccare gli Houthi considerandoli i principali responsabili per l’escalation del conflitto, sembrerebbe essere disposta a fare concessioni pur di risolvere la crisi, trovando un certo interesse anche nell’azione dell’Iran. Il ritiro potrebbe quindi essere letto secondo logiche macro-regionali, valutando i piani strategici a lungo termine di Arabia Saudita e Iran, che si stanno mobilitando per definire nuove leve di potere contrattuale nei colloqui che si stanno tenendo a Baghdad. Sebbene i negoziati stiano riaprendo un dialogo tra le due potenze, non sembrano ancora segnare un punto di svolta sulla faccenda yemenita. In quest’ottica potrebbe risultare importante il ruolo degli USA. Infatti, il Presidente Joe Biden ha annunciato da un lato la revoca del suo sostegno diretto alla coalizione guidata da Riyadh, ma dall’altro ha reiterato il suo supporto per la ripresa dei colloqui sul nucleare con l’Iran, di cui l’Arabia Saudita non fa parte ma è attore fortemente interessato. Washington, il cui obiettivo è quello di far cessare il prima possibile la guerra in Yemen per aprire una chiave di volta nelle tensioni regionali e dedicarsi definitivamente nel ricercare un’intesa nelle trattative di Vienna (che riprenderanno il prossimo 29 novembre) per un JCPOA 2.0, sta realizzando numerose pressioni sul Regno wahhabita per eliminare le restrizioni delle navi da guerra della coalizione sui porti controllati da Houthi, condizione necessaria per iniziare i colloqui per il cessate il fuoco. L’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti dovranno quindi mobilitarsi per stabilizzare il Paese assicurandosi i propri interessi e mitigando le conseguenze negative del loro intervento militare. Tuttavia, per poter realizzare i loro obiettivi di politica estera, dovranno scendere a patti con le istanze dell’avversario regionale, la Repubblica Islamica.