La ribellione armata del Wagner Group: significato politico, implicazioni e prospettive future
“La Russia è un indovinello, racchiuso in un mistero, dentro un enigma”. Le parole di Winston Churchill del 1939 suonano tremendamente attuali all’alba del 24 giugno, ad un giorno di distanza da uno dei momenti più significativi della storia russa recente, nel contesto del più pericoloso, intenso e polarizzante conflitto sul territorio europeo dai tempi della Seconda Guerra Mondiale, ossia la guerra in Ucraina.
Infatti, la ribellione armata e la “marcia su Mosca” dei miliziani del Gruppo Wagner e del suo leader Evgenij Prigozhin, oltre ad essere stati un evento altamente spettacolare, hanno evidenziato tutte le fragilità del sistema di potere russo, le lacune dell’apparato militare e l’oscurità della lotta fratricida tra clan, oligarchi e gruppi di interesse all’interno del Paese. Tutto questo mentre le truppe russe fronteggiano la controffensiva ucraina con risultati sinora egregi ma volatili e le agenzie di sicurezza interna devono disinnescare la minaccia dei gruppi armati ribelli orbitanti attorno alla “Legione per la Libertà della Russia”.
Nello specifico, il 23 giugno, il Gruppo Wagner ha lanciato il suo guanto di sfida alle Forze Armate ed al Cremlino, prima prendendo il controllo, con irrisoria facilità, della città di Rostov sul Don, principale centro logistico e di comando per le operazioni militari russe in Ucraina, e poi procedendo indisturbato verso Mosca. Dopo aver percorso oltre 400 km, le colonne del Wagner si sono arrestate a circa 200 km dalla periferia sud della capitale russa e, nei fatti, si sono ritirate per evitare di scontrarsi con le Forze Armate e provocare un “enorme spargimento di sangue”. L’obbiettivo dichiarato dell’insurrezione è stato liberare la Russia dai clan di potere che l’avevano danneggiata e depredata e ottenere la destituzione dei vertici delle Forze Armate, nello specifico il Ministro della Difesa Shoigu e il Capo di Stato Maggiore Gerasimov, accusati a più riprese da Prigozhin di incompetenza e comportamenti predatori.
La tensione tra Wagner Group e Forze Armate è cresciuta a dismisura a partire dall’invasione russa dell’Ucraina ed ha raggiunto il culmine negli ultimi mesi, quando Prigozhin ha incrementato il numero e la violenza verbale dei suoi attacchi contro i vertici militari. Da parte loro, gli alti comandi russi hanno sempre mal digerito la presenza e la crescita d’influenza dei mercenari, nonché il loro comportamento irrispettoso e sprezzante. Inoltre, non si può omettere il fatto che la Difesa vedeva con astio l’incremento delle capacità politiche e finanziarie del Wagner, ottenuto grazie alle diverse tipologie di attività in territorio africano. In aggiunta a questo, il vertice della Difesa mal sopportava l’idea di dover relazionarsi con Prigozhin, un ambizioso oligarca senza alcuna esperienza militare e con un passato da faccendiere e criminale, su un piano di parità. Il conflitto tra Wagner Group e Forze Armate è stato sempre sfruttato dal Presidente Putin, secondo la logica del divide et impera, per rafforzare la propria posizione di garante e vertice dell’ordine oligarchico, impedendo ad ogni potentato economico, militare o di sicurezza di accumulare troppo potere. In questo contesto, non si può omettere che il Wagner Group è struttura (parlare di semplice milizia mercenaria è riduttivo vista la portata delle attività che svolge) voluta da Putin nel contesto del perseguimento di interessi misti (privati, pubblici e personali) e nella cornice della guerra ibrida. Non è un’eresia affermare che il Presidente russo, anche in virtù della sua formazione da cekista (ex ufficiale del KGB) ha sempre avuto un rapporto ambivalente con i militari e, nel corso della sua carriera politica, ha costantemente cercato di creare unità e organizzazioni che fungessero da contraltare o da “valvola di sicurezza” nei confronti delle Forze Armate. Pur con scopi diversi, il Wagner Group e la Guardia Nazionale si inserivano in questa dialettica. Tale equilibrio di potere ha cominciato a scricchiolare quando Prigozhin ha iniziato ad avere ambizioni personali ed ha inteso scalare la gerarchia oligarchica, passando dall’essere un semplice esecutore di progetti ed interessi altri al voler essere un membro di alto rango del “cerchio magico” che governa realmente la Russia.
Il punto di non ritorno è stato raggiunto ad inizio giugno scorso, quando il Ministero della Difesa, con la benedizione di Putin, ha emesso un decreto esecutivo che obbligava le compagnie militari private a siglare un contratto con le Forze Armate per poter proseguire la propria attività. In sintesi, si trattava di un accordo di subordinazione che avrebbe privato il Wagner di quella autonomia e di quelle prerogative uniche che ne avevano permesso l’ascesa. Inoltre, così facendo, si segnava la fine della parabola politica di Prigozhin, destinato quasi inevitabilmente ad un lento declino. A quel punto, al leader del Wagner non restavano che due opzioni: accettare il declino o ribellarsi apertamente, giocandosi il tutto per tutto. Prigozhin ha optato per la seconda, effettuando un calcolo ben preciso basato sui fattori di vantaggio sui quali poteva contare. Innanzitutto, l’impreparazione del Ministero della Difesa ad una sua azione: infatti, con le truppe impegnate sul fronte ucraino, il territorio russo era poco e mal presidiato. In secondo luogo, la forza della macchina propagandistica: negli ultimi mesi, il Wagner Group, attraverso la propria abilità comunicativa, ha costruito una narrativa efficace circa i propri presunti livelli di preparazione militare e la “nobilità” della propria causa patriottica. Una narrativa che ha fatto breccia in parte della popolazione civile russa, come si evince dal comportamento benevolo dei cittadini a Rostov. In terzo luogo, Prigozhin ha approfittato delle divisioni interne alla verticale del potere russo: con tutta probabilità, egli dispone di alleati nelle oligarchie economiche, nel FSB, addirittura in parte delle Forze Armate a livello di comandi intermedi. Si tratta di gruppi di interesse molto diversi tra loro ma accomunati dalla critica a Putin e all’attuale sistema di potere. La ribellione armata si è conclusa con un accordo dai contorni ambigui, in cui Prigozhin è stato, di fatto, esiliato in Bielorussia ed i miliziani del Wagner salvati dalle accuse di tradimento. Un epilogo oscuro che, tanto nel breve periodo quanto nel lungo periodo, lascia aperti moltissimi interrogativi. Tra questi, il destino del Wagner e la sua subordinazione o meno al Ministero della Difesa. Innanzitutto, occorrerà capire come sarà gestita la problematica legale che prevede la sigla di contratti con società, le compagnie militari private, vietate dalla legge russa. In secondo luogo, tale subordinazione potrebbe valere solo per la Russia o per i Paesi dove sono ufficialmente presenti contingenti russi (come la Siria) e non applicarsi ai teatri africani, dove invece il gruppo continuerà ad agire come ha fatto sinora. Tuttavia, se così non fosse, emergerebbero interrogativi su cosa farebbe il Cremlino, vale a dire se sostituirà il Wagner con un’altra compagnia di mercenari oppure con truppe nazionali, sacrificando il modello di successo sperimentato sinora. Inoltre, la sopravvivenza del Wagner in Africa coinciderebbe, almeno nel breve periodo, con la sopravvivenza politica e finanziaria di Prigozhin.
Un’altra domanda riguarda il futuro dei vertici militari russi. Se Shoigu e Gerasimov dovessero essere sostituiti, l’immagine del Cremlino e di Putin ne risulterebbero ulteriormente danneggiate. Parallelamente, occorrerà comprendere la natura e la composizione degli schieramenti in lotta. Ossia chi appartiene al campo dei lealisti putiniani e chi alla fronda o ai cosiddetti “secessionisti” che guardavo con interesse alla boutade del Wagner.
La ribellione del Wagner Group lascia poche certezze e molti dubbi. Tra le certezze, l’immagine di debolezza trasmessa da Putin e le profonde fratture nella verticale del potere russo. Infatti, il Presidente russo, dopo aver definito il Wagner un gruppo di traditori ed aver esplicitato la volontà di prendere misure punitive, si è clamorosamente tirato indietro e, per non perdere ulteriormente credibilità, ha “costretto” il Presidente bielorusso Lukashenko a giocare la parte del mediatore. Inoltre, esiste la concreta possibilità che Putin abbia abbandonato Mosca nelle ore più convulse della ribellione, come testimoniato dalla partenza e dalla successiva sparizione dai radar di uno degli arei presidenziali. Tale procedura di emergenza è parte delle misure della cosiddetta “operazione Fortezza”, ossia il piano di evacuazione della leadership politica russa in caso di estrema minaccia. Dunque, l’uomo che aveva costruito la sua credibilità e la sua carriera politica su un’immagine di durezza, risolutezza e forza si è mostrato debole e vulnerabile davanti alle intemperanze di un manipolo di mercenari ed ex galeotti. La personalità che rappresenta la tradizione e l’autorevolezza della Russia nell’arena internazionale ha visto il governo kazako respingere la propria richiesta di aiuto, dando un segnale di isolamento. Inoltre, l’intera gestione della crisi ha dimostrato al mondo e al Paese che il Cremlino non detiene il pieno monopolio della forza sul territorio, presupposto irrinunciabile degli Stati moderni.
La perdita dell’unicità del monopolio della forza è sintomo di un Paese diviso tra milizie e clan, dove unità militari familiarizzano, si arrendono senza combattere o addirittura passano dalla parte del nemico. Un Paese dove una insurrezione armata, ossia una minaccia diretta all’ordine costituzionale, viene neutralizzata con un accordo ed un compromesso. In sintesi, la Russia del giugno 2023 è sembrata assomigliare più ad un convulso Stato africano o ad una celeberrima “repubblica delle banane” sudamericana che a un moderno e funzionale Stato occidentale.
Le prospettive future appaiono ancora più complesse da decifrare. Innanzitutto, come accennato in precedenza, occorrerà capire come Mosca gestirà il dossier dei vertici delle Forze Armate e del futuro del Wagner. In secondo luogo, nelle prossime settimane si comprenderà l’effetto del terremoto Wagner sulla tenuta del fronte ucraino. La performance militare appare indispensabile a garantire la sopravvivenza dell’attuale sistema di potere. Una sconfitta in Ucraina, improvvisa o graduale, costituirebbe il colpo di grazia del putinismo. Viceversa, la tenuta del fronte potrebbe giocare a favore della leadership e consentirle di agire con (assai relativa) tranquillità sul fronte interno.
Putin ha l’urgenza di riaffermare la propria forza ed il proprio ruolo, nonché di cercare di riabilitare la propria immagine. Si tratta di una sfida ardua, soprattutto se si considera il momento di difficoltà economico, militare e politico-sociale del Paese. Dovrà farlo guardandosi dai congiurati e dai nemici all’interno dell’establishment, decidendo con attenzione se seguire la strada della brutalità manifesta o la famosa “tattica del salame” di staliniana memoria. Da parte loro, gli avversari di Putin hanno indubbiamente acquisito fiducia dalla bizzarra azione di Prigozhin, che ha dimostrato che il Cremlino non è inespugnabile. In sintesi, potrebbero prepararsi mesi di tensione profonda, non necessariamente visibile, con rischi continui di repentine “notti dei lunghi coltelli”.
È difficile dire se ci si trova davanti all’inizio della fine del putinismo, poiché i fattori e le variabili sono troppe per stabilire con certezza una simile ipotesi e perché Putin dispone ancora di un potere personale e di reti clientelari non trascurabili. Tuttavia, è possibile affermare che siamo entrati in una turbolenta fase crepuscolare dell’impero, in cui non si possono sottovalutare i rischi di fenomeni di frammentazione ed entropia. Uno scenario che la storia russa conosce bene, che teme più di ogni altra cosa e che la storiografia chiama “Periodo dei Torbidi”. Una fattispecie, quest’ultima, in grado di scatenare una corsa alla cannibalizzazione delle risorse naturali e militari russe (tecnologia e armi nucleari comprese) in grado di destabilizzare l’intero scenario internazionale.
In tutto questo, desta particolare preoccupazione l’assenza di una opposizione liberale e democratica matura. Gli avversari del putinismo non sono così diversi dal mostro che vogliono abbattere e, qualora prendessero il potere, presto o tardi, non è detto che produrrebbero modifiche strutturali alla politica interna e internazionale russa. Europa, Stati Uniti e Cina sono consapevoli di questo e dovranno modellare le loro strategie di resilienza e risposta sulla base di tali presupposti. Non ci sarebbe errore più grande che scambiare Prigozhin o simili per gli alfieri del cambiamento e guardare a loro come ad una speranza di vera riforma in Russia.