La guerra siriana alla svolta
La riconquista di Aleppo da parte del regime di Damasco (dicembre 2016) e il successivo avvio dei negoziati di Astana condotti da Russia, Iran e Turchia, hanno segnato un importante punto di svolta nel conflitto siriano, le cui ripercussioni hanno messo a dura prova il variegato fronte di opposizione ad Assad. La perdita della seconda città della Siria ha annullato ogni velleità di ottenere una vittoria per via militare, costringendo i gruppi ribelli sulla difensiva e limitandone il perimetro d’azione alla provincia di Idlib e a poche altre sacche isolate nell’ovest del Paese. In parallelo, la nuova sintonia fra Mosca e Ankara, tradizionale sponsor dell’opposizione, ha fatto emergere profonde divisioni tra le due principali formazioni del panorama ribelle, Ahrar al-Sham (AS) e l’ex Fronte al-Nusra (FN), sfociate più volte in scontro aperto fin dallo scorso gennaio.
Il più evidente fattore di divergenza tra i due gruppi è costituito dall’atteggiamento tenuto nei confronti del processo di Astana. AS ha accolto positivamente i negoziati, dimostrando un forte pragmatismo nell’adeguarsi alla mutata situazione sul campo. In questo modo, AS tenta di mantenere vivo il rapporto con Ankara, così da sfruttarne la partecipazione ad Astana e non precludersi a priori un ruolo nel futuro assetto della Siria. Inoltre, tale decisione permette di distanziarsi da una formazione jihadista come FN, nettamente contraria a una soluzione negoziale, per presentarsi come un interlocutore valido a livello internazionale e punto di riferimento per l’intera opposizione siriana. Non è un caso che, fin dai primi mesi del 2017, AS abbia adottato una retorica dai chiari toni nazionalisti, lontana dal sentire del nucleo originario del gruppo, fautore di posizioni salafite e, in molti casi, propriamente jihadiste.
Parallelamente, FN ha cercato di usare a proprio vantaggio il riallineamento tra Ankara e Mosca per porsi in diretta competizione con AS, facendo leva sulla propria superiore capacità operativa, adottando una posizione intransigente rispetto alla partecipazione ai tavoli negoziali e diluendo il legame con al-Qaeda. In questo senso va letta la creazione, lo scorso 28 gennaio, di Hayat Tahrir al-Sham (HTS), gruppo-ombrello che ha riunito attorno a FN formazioni minori come Ansar al-Din, Jaysh al-Sunna, Liwa al-Haqq e al-Zenki. Nonostante le defezioni di importanti chierici come Abdullah al-Muhaysini e Sami al-Oraydi, che hanno lasciato il gruppo in disaccordo con la nuova linea politica, tramite il re-branding in HTS il FN è riuscito a intercettare il malcontento di parte della leadership di AS, contraria alla svolta moderata impressa al gruppo, spingendo a defezionare almeno un migliaio di miliziani e, soprattutto, alcuni esponenti di spicco come Abu Jaber Sheyk. Già leader di AS tra il 2014 e il 2015, prima gli è stato affidato il ruolo di comandante militare generale di HTS e da ottobre quello di capo del Consiglio della Shura.
Nel complesso, la dialettica tra HTS e AS delinea un vero e proprio scontro per la leadership della ribellione siriana, che coinvolge il piano ideologico al pari di quello militare e ha come prospettiva ultima garantirsi un adeguato margine di manovra nell’assetto post-conflitto della Siria. Data l’importanza della posta in gioco, non deve stupire che la maggiore competizione tra i due gruppi non si sia limitata alla riorganizzazione interna, ma sia sfociata in più fasi di scontro aperto. Infatti, dopo alcune scaramucce a gennaio, tra luglio e agosto AS ha perso il controllo di aree strategiche come il confine con la Turchia, incluso il valico di Bab al-Hawa, il fronte di Jisr al-Shughur e la città di Idlib. Di riflesso, il rafforzamento di HTS ha influito sull’atteggiamento della Turchia, il più interessato alle sorti di Idlib tra i Paesi presenti ad Astana, inducendola a scartare l’opzione di uno scontro frontale per tutelare i propri interessi. Un segno di questo maggiore pragmatismo potrebbe essere rinvenuto nel ridispiegamento di un contingente turco in funzione anti-curda, lungo il confine tra Idlib e il cantone di Efrin, avvenuto a partire dal 9 ottobre con l’assenso di HTS.
Spostando l’attenzione sul fronte lealista, il progressivo consolidamento nell’ovest del Paese e i cessate il fuoco raggiunti a partire da maggio nell’ambito del processo di Astana, attraverso l’istituzione delle de-escalation zones, hanno consentito di concentrare il grosso dello sforzo militare verso la Siria orientale, nelle aree ancora occupate dall’Isis. Con l’avanzata nel deserto centrale e la rottura dell’assedio di Deir ez-Zor, tra maggio e settembre, Damasco è tornata in possesso di importanti risorse (petrolio, gas, fosfati) che potranno ridare respiro a un’economia nazionale al collasso.
Negli sviluppi successivi dell’offensiva lealista, che è proseguita lungo il corso dell’Eufrate in direzione sud, verso gli ultimi centri urbani in mano all’Isis (Mayadin, conquistata il 17 ottobre, e Abu Kamal), ha assunto rilevanza crescente il ruolo dell’Iran, del network di milizie sciite eterodirette dalla Forza Qods iraniana e di Hezbollah. Infatti, il controllo di quest’area, prossima al confine siro-iracheno, rappresenta un obbiettivo di estrema rilevanza per Teheran, perché consentirebbe di creare un collegamento terrestre con la costa mediterranea attraverso Iraq e Siria, consolidare la propria profondità strategica verso il Libano e aumentare l’influenza nella regione. Per prevenire questa eventualità, in accordo con la priorità di Washington di contenere l’Iran, le forze curdo-arabe inquadrate nelle Forze Democratiche Siriane (FDS), appoggiate dagli USA, hanno accelerato le operazioni sulla sponda orientale dell’Eufrate. Aggirando una Deir ez-Zor ormai in mano ai lealisti, le FDS hanno evitato di ingaggiare l’Isis nei centri urbani, allo scopo di procedere più celermente verso il confine con l’Iraq.
Di fatto, la Siria orientale è diventata la regione dove si concentrano le attenzioni dei principali attori in campo per andare a colmare quel vuoto che lascerà l’Isis. Perciò l’avanzata parallela del fronte lealista e delle FDS, e il loro convergere sulla stessa area, rischia di far emergere nuovi punti di attrito, che potrebbero caratterizzare la regione anche all’indomani della sconfitta dell’Isis come entità territoriale. A suscitare la preoccupazione di Washington è il possibile radicamento in territorio siriano di quelle milizie sciite, prevalentemente di origine irachena, legate all’Iran sia dall’ideologia del velayat-e faqih che dal punto di vista operativo, di cui Teheran potrebbe servirsi anche in futuro. In tal modo si replicherebbe in Siria il modello degli Hezbollah libanesi.
Bisogna sottolineare che tanto una maggiore presenza di forze sciite nell’est della Siria quanto l’instaurazione di un controllo curdo su aree a maggioranza araba rappresentano fattori capaci di incidere in modo negativo sul processo di stabilizzazione del Paese. Benché le FDS integrino esponenti delle tribù locali nei Consigli civili creati per amministrare le città conquistate e, parallelamente, l’Esercito siriano sia affiancato da milizie a base tribale (Quwat Muqatili al-Ashair, Liwa Suqur al-Furat), rappresentative delle principali confederazioni della valle dell’Eufrate, il permanere di tensioni etniche e settarie rappresenta una pesante incognita nell’ottica di un’effettiva pacificazione di un’area, limitrofa all’Anbar iracheno, dove resterà alto il rischio di infiltrazioni dell’Isis.
Al di là delle necessità dettate dal contrasto all’Isis, anche la crescente competizione tra Iran e USA nell’area potrebbe indurre Washington a mantenere una presenza nel nord-est della Siria. Di fatto, in tal modo si delineerebbe una spartizione del Paese in zone di influenza, trascinando il conflitto siriano in una nuova fase dove, al congelamento della situazione sul campo, corrisponderebbe la permanenza di tutti i potenziali motivi di attrito, impedendo il reale raggiungimento di un nuovo equilibrio.
Contributo apparso su