La débâcle politica in Libia: una questione di sicurezza internazionale
Il Congresso Generale Nazionale Libico (CGN) ha approvato domenica 5 maggio il disegno di legge denominato Political Isolation Law, che sancisce la possibile esclusione dagli uffici pubblici per almeno cinque anni per chiunque abbia ricoperto incarichi nel periodo 9 settembre 1969 al 23 ottobre 2011, considerate rispettivamente data d’inizio e di fine della dittatura dell’ex leader Muhammar Gheddafi. Adottata con 164 voti favorevoli, su 200 membri, e solo quattro contrari, la legge deve però essere ancora ratificata dalla Commissione Giuridica del CGN. Qualora approvata, essa sarebbe immune da qualsiasi tentativo di modifica da parte della Corte Suprema, di fatto esautorata dal potere di giudicare l’eventuale incostituzionalità di disposizioni in questa materia da un emendamento alla provvisoria Dichiarazione costituzionale adottato dallo stesso Congresso lo scorso aprile.
Non essendoci un criterio di discrimine basato sull’attività svolta o sul ruolo ricoperto all’interno della dittatura di Gheddafi, la legge 41 così formulata potrebbe comportare l’allontanamento dalla vita politica di circa 40 membri dell’attuale governo. Tra questi, anche il Primo Ministro Ali Zeidan e il Presidente del CGN, Mohammed Magarief, ambasciatore in India negli anni Ottanta, ma anche esponente di spicco del National Front for the Salvation of Libya (NFSL), il movimento che l’8 maggio 1984 aveva cercato di eliminare l’ex dittatore, attaccando direttamente il quartier generale di Bab al-Aziza a Tripoli. Spetterà comunque alla Political Positions Standards Implementation Authority, organo istituito dall’art.3 della legge stessa, valutare l’applicabilità della disposizione.
Sull’esito finale della votazione ha sicuramente influito l’assedio al Ministero degli Esteri e al Ministero della Giustizia iniziato il 28 aprile da parte di alcuni gruppi di miliziani armati, che hanno circondato gli edifici con veicoli blindati, bloccando di fatto l’attività dei due dicasteri per una decina di giorni. L’azione ha provocato in prima istanza le dimissioni del Ministro della Difesa, Mohamed el-Bargathi, poi ritirate; successivamente, una serie di contro-manifestazioni da parte di sostenitori del governo - che accusavano i militanti di essere espressione dei partiti islamici finanziati direttamente dal Qatar - hanno accresciuto la tensione in un momento di già alta criticità. Nonostante l’approvazione del disegno di legge e l’annuncio da parte del Primo Ministro Zeidan di un imminente rimpasto dell’esecutivo, i miliziani non hanno interrotto immediatamente la protesta, chiedendo le dimissioni del premier prima del 5 giugno, data ultima per l’entrata in vigore del provvedimento.
Terminato con un simbolico gesto di consegna delle due sedi ministeriali ad un comitato formato da membri del Congresso e dai leader di alcuni gruppi sostenitori della legge sull’isolamento politico, l’assedio ha di fatto messo in evidenza la precarietà dell’assetto istituzionale libico a quasi un anno dalle elezioni dello scorso luglio. Un’altra situazione di alta tensione si era già verificata nell’ottobre scorso, quando l’ex Primo Ministro Mustafa Abushagour aveva rassegnato le proprie dimissioni in seguito alla doppia bocciatura da parte del CGN della lista dei ministri presentata per formare l’esecutivo. Nominato Zeidan, il governo ha dovuto fronteggiare una situazione di grande incertezza politica, in cui la mancanza di una Forza Armata nazionale di peso ha ulteriormente aggravato il processo di accentramento del potere da parte del nuovo governo.
Esiste, infatti, una fitta rete di milizie e gruppi armati, più o meno organizzati, che dopo la fine della Rivoluzione libica hanno finito col diventare efficaci strumenti di pressione nei confronti del governo di Tripoli. Oltre alle bande di disoccupati e di ex detenuti ci sono dei gruppi più strutturati, localizzati su base regionale o dislocati in singole città di riferimento, formati dai ribelli che hanno combattuto durante la Rivoluzione del 17 febbraio. Un caso particolare, poi, è costituito dal Supreme Security Committee (SSC), organismo temporaneo istituito dal Consiglio Nazionale di Transizione e facente capo al Ministro dell’Interno. Secondo alcune fonti, dietro le proteste delle settimane scorse potrebbe esserci la connivenza del SSC, determinato a conservare il ruolo di garante della sicurezza nazionale, affidatogli dal CNT, anche nel futuro assetto dello Stato.
La volontà dell’esecutivo di cooperare con i gruppi rivoluzionari - sancita dallo scioglimento, simbolico più che formale, della Brigata Free Libyans durante una cerimonia ufficiale in cui il comandante Essam Qatus ha consegnato gli armamenti del suo gruppo al Primo Ministro - non ha fino ad ora portato ad alcun risultato significativo. Al contrario, l’accondiscendenza dimostrata dai membri del governo nell’incontrare le richieste dei miliziani in occasione dell’assedio dei giorni scorsi, potrebbe essere interpretato come un elemento di debolezza, che renderebbe Tripoli suscettibile di futuri ricatti da parte di gruppi di potere decentrati.
Questa situazione potrebbe rivelarsi piuttosto costosa per la Libia: dopo la richiesta – negata - delle grandi compagnie petrolifere afferenti al cartello dell’OPEC di poter organizzare privatamente la sicurezza dei propri stabilimenti, nei giorni scorsi la British Petroleum ha annunciato una prima riduzione del personale nella sede di Tripoli. Già a gennaio la compagnia petrolifera inglese aveva espresso l’intenzione di riconsiderare i propri piani di estrazione nel Paese a causa dell’instabilità politica registrata.
L’assenza di un’autorità che si faccia garante della sicurezza nazionale è confermata anche dalla decisione presa dai leader tribali della Cirenaica - regione orientale della Libia in cui si trovano i maggiori giacimenti petroliferi - di organizzarsi in modo autonomo per rispondere all’esigenza di sicurezza all’interno del proprio territorio. L’intento sarebbe riunire il primo giugno nella città di al- Baida il Cyrenaica Congress, nato nel marzo 2012 per suggellare la semi-autonomia della regione rispetto a Tripoli e proporre la formazione di uno Stato federale.
La precarietà delle condizioni di sicurezza non è affatto limitata alla capitale. Nelle scorse settimane Bengasi è stata interessata da una serie di attentati anonimi contro alcune stazioni della polizia locale nei distretti di Gwarsha, Ras Obeida e al-Medina. Inoltre, il 13 maggio un’auto è esplosa davanti all’ospedale di al-Jalaa, causando la morte di tre persone e una ventina di feriti. Il Ministro dell’Interno, Ashur Shwayel, ha dichiarato che si sarebbe trattato di un incidente - la Toyota, che trasportava tra i 15 e i 20 kg di terilene, sarebbe esplosa in movimento per l’imprudenza di uno dei passeggeri - e non di un atto deliberato. Se così non fosse, la diversità di questo episodio rispetto al passato – sarebbe il primo attentato contro la popolazione civile - potrebbe lasciar presupporre un’evoluzione nella minaccia alla sicurezza del Paese. Il CGN si è mosso per predisporre un coordinamento tra Esercito e polizia attraverso l’istituzione della Joint Security Room, guidata da funzionari esperti del Ministero degli Interni e dei servizi di intelligence libici, ma non è ancora chiara la tempistica necessaria affinché diventi operativa.
La forte instabilità in cui si trova la Libia suscita inevitabilmente la preoccupazione della comunità internazionale. Gli Stati Uniti, in particolare, iniziate le udienze da parte del Congresso in merito all’attacco al consolato americano a Bengasi dello scorso settembre - durante il quale è rimasto ucciso l’ambasciatore Christopher Stevens e tre persone dello staff diplomatico - guardano con grande attenzione agli sviluppi della crisi politica libica. Le autorità statunitensi hanno infatti allertato il proprio comando per le operazioni speciali afferente all’Africom di base a Stoccarda (Germania), e la Forza di reazione rapida dei Marines a Moron (Spagna), riposizionando 200 unità nella base siciliana di Sigonella per intervenire tempestivamente in soccorso ai contingenti stanziati all’ambasciata a Tripoli in caso di escalation delle proteste.
Inoltre, a poche settimane dalle esplosioni avvenute nei pressi dell’ambasciata francese lo scorso 23 aprile, Washington e Londra hanno predisposto il rientro di parte del loro personale diplomatico e, insieme alle autorità di Parigi, si sono rivolti al governo libico affinché riesca a trovare una soluzione in tempi rapidi per portare a termine il processo di transizione democratica. Invito ribadito anche dall’Alto Rappresentante per gli Affari Esteri e la Politica di Sicurezza dell’Unione Europea, Catherine Ashton, che ha espresso il sostegno europeo alle autorità di Tripoli. L’Europa, di fatto, ha l’opportunità di concretizzare l’aiuto al governo di Zeidan attraverso la Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo (BERS), alla quale la Libia si è rivolta per avere una consulenza tecnica, più che finanziaria, in merito alla formazione delle istituzioni necessarie per riempire il vuoto creatosi con la caduta del regime di Gheddafi e non ancora adeguatamente colmato.
La transizione politica che si sta verificando in Libia non solo risulta funzionale alla stabilizzazione del contesto interno, ma è anche strettamente connessa con la questione sicurezza nell’intera regione. Favorendo il processo di state building e consolidando l’efficacia di una forza di sicurezza statale, il governo riuscirebbe ad esercitare la propria sovranità sul territorio e a gestire, se non a controllare, quelle vie di contrabbando per il traffico di armi e droga che passano attraverso il territorio libico e arrivano in Tunisia, a nord, in Niger e in Mali, a sud. Critiche al governo di Zeidan sono inoltre arrivate sia dal Ministro degli Esteri nigerino, Mohamed Bazoum, sia dal Presidente del Ciad, Idriss Deby, per la presenza nel Paese di campi di addestramento per ribelli e militanti dei gruppi terroristici di matrice islamica. Inoltre, è stato osservato come armi di provenienza libica - mitragliatori e missili antiaerei - siano state utilizzate da combattenti jihadisti in Algeria, Mali ed Egitto. L’impegno della comunità internazionale nella crisi libica potrebbe quindi rivelarsi determinante per scongiurare l’infiltrazione della rete di al-Qaeda nel Paese. Si ritiene infatti che, in seguito all’intervento francese in Mali, la Libia sia diventata una roccaforte per il gruppo terroristico di AQIM (al-Qaeda nel Maghreb Islamico), che avrebbe organizzato il proprio comando operativo nella regione del Fezzan, cercando di stabilire un coordinamento anche operativo con le milizie salafite presenti sul territorio.