Il viaggio di Biden in Medio Oriente
Dal 13 al 16 luglio si è tenuto il primo viaggio presidenziale di Joe Biden in Medio Oriente, terminato con il summit USA-rappresentanti del Gulf Cooperation Council (GCC), allargato ad Egitto, Giordania ed Iraq nel formato insolito GCC+3. Questa visita era molto attesa perché mirata essenzialmente a riequilibrare le relazioni di Washington con i suoi tradizionali partner mediorientali, in un momento come quello attuale in cui i cambiamenti geopolitici regionali e globali incoraggiano una ridefinizione di obiettivi e asset nell’area allargata.
Alla vigilia quindi di quello che è stato a lungo considerato come un momento fondamentale per la politica estera statunitense nel quadrante – anche e soprattutto a livello di opinione pubblica interna data la dura contestazione nei confronti del Presidente per la scarsa attenzione prestata al tema del rispetto dei diritti umani –, la postura di Washington ha però subìto importanti contraccolpi legati ad alcune tematiche di carattere regionale, come il dossier nucleare iraniano, le difficoltà nel costruire un rapporto solido tra Israele e mondo arabo, nonché il vano tentativo di ricostruire, sin dalle fondamenta, il logoro rapporto Washington-Riyadh.
La volontà di riavvicinarsi all’Arabia Saudita e iniziare una nuova fase nella pluridecennale partnership tra i due Paesi non è stata accolta favorevolmente, specialmente dopo la rottura avvenuta in seguito al caso Khashoggi e alla minaccia USA di presentare il Paese al mondo come un pariah. Tuttavia, è stato lo stesso Biden in un editoriale pubblicato sul Washington Post il 9 luglio scorso a ribadire come l’asse Washington-Riyadh sia fondamentale per poter affrontare molteplici questioni di natura sia regionale sia internazionale, dalla crisi in Yemen alle conseguenze del conflitto ucraino. Oltre al rapporto con la monarchia saudita, il Presidente Biden ha sottolineato come la Casa Bianca stia lavorando per creare una regione più stabile e sicura nell’interesse statunitense e dei Paesi partner dell’area.
Durante la visita in Israele, Biden ha incontrato l’attuale Primo Ministro israeliano Yair Lapid, l’ex Primo Ministro Naftali Bennett, il Presidente Isaac Herzog e il leader del Likud, Benjamin Netanyahu. Il tema che ha maggiormente tenuto banco nell’incontro avuto con Lapid è stato quello relativo al comparto securitario: l’Iran rappresenta ancora la principale minaccia per Israele e non solo. Tuttavia, l’approccio dei leader dei due Paesi è nettamente differente. Biden ha voluto ribadire come la diplomazia rimanga ad oggi lo strumento più efficace e la strada migliore da adottare per porre un freno allo sviluppo del nucleare iraniano, mentre Lapid non ha usato mezzi termini: l’unica risposta efficace che può essere utilizzata in caso di minaccia concreta alla sicurezza nazionale e regionale è l’uso della forza. Nonostante questa divergenza sui metodi da applicare per risolvere la questione iraniana, Stati Uniti e Israele hanno rinnovato la partnership in ambito sicurezza e difesa e Washington ha approvato un pacchetto di supporto per Tel Aviv pari a 4 miliardi di dollari.
In questo contesto, tuttavia, a far notizia è stata anche la mancanza di iniziative concrete da parte della Casa Bianca per la risoluzione nel conflitto israelo-palestinese. Nonostante la visita a Ramallah e l’incontro con il Presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmud Abbas, gli addetti ai lavori hanno evidenziato come nell’agenda statunitense questa parte del viaggio in Medio Oriente abbia rappresentato una tappa pro-forma e non di reale interesse, a discapito dei proclami dello stesso Biden riguardo la risoluzione dei conflitti regionali e il rispetto dei diritti umani.
La seconda parte del viaggio in Medio Oriente ha visto Biden recarsi a Jeddah con un volo diretto da Israele. L’agenda statunitense ha messo in cima alle priorità proprio questa tappa. Gli obiettivi che la stessa Casa Bianca si era prefissata di raggiungere erano molteplici: dalla distensione dei rapporti diplomatici alla questione energetica, passando per la difesa dei diritti umani alla cooperazione securitaria regionale. Al termine dei due giorni in Arabia Saudita, l’inquilino della Casa Bianca non ha fondamentalmente ottenuto grandi risultati. Partendo dalla questione energetica, Biden non ha ottenuto formalmente nessuna promessa che i Paesi dell’OPEC+ aumenteranno la produzione di petrolio per far fronte all’incremento dei prezzi derivante dal conflitto ucraino, nonostante lo stesso Biden abbia dichiarato che i primi cambiamenti significativi si vedranno durante la prossima riunione dello stesso consesso che si terrà in agosto. Sul tema dei diritti umani, il Presidente statunitense ha voluto sottolineare sia allo stesso Principe ereditario Mohammed Bin Salman sia alle altre delegazioni arabe presenti al summit di Jeddah che il rispetto dei diritti umani sia un passo imprescindibile per lo sviluppo di tutti i Paesi della regione e del mondo intero. Infine, sul tema della cooperazione Biden ha affrontato diverse questioni. Dal punto di vista securitario, anche in questa occasione è stato ribadito come l’Iran rappresenti la minaccia più concreta e di primaria importanza, sottolineando come il ritorno alle trattative del JCPOA – momentaneamente bloccate dopo l’uscita degli stessi Stati Uniti durante l’Amministrazione Trump – rappresenti l’occasione migliore per gli attori coinvolti. Nonostante ciò, i Paesi arabi hanno voluto maggiori garanzie di engagement statunitense nella regione anche dal punto di vista economico: l’Egitto del Presidente Al-Sisi si è posto in prima linea per quanto riguarda lo sviluppo di un progetto per far fronte alla crisi alimentare che sta colpendo molti Paesi dell’area MENA e la creazione di una serie di infrastrutture volte a favorire la partnership tra i vari attori regionali.
Al netto di tutto, la visita di Biden ha raccolto meno risultati rispetto ai numerosi temi che si prefiggeva di affrontare, riuscendo solo in parte a soddisfare le diverse parti in gioco. Allo stato attuale, quindi, è emersa chiaramente una necessità araba (e israeliana) nel voler preservare il rapporto con lo storico partner statunitense, soprattutto, in un’ottica di sicurezza regionale – si veda in tal senso il discorso sul Middle East Air Defense Alliance (MEAD) in una chiave dichiaratamente anti-iraniana –, cercando al contempo di differenziare il più possibile le relazioni politiche con altri attori internazionali (Cina, India e Russia, su tutti),più utili a districare le matasse in altri dossier e questioni di difficile risoluzione anche di portata globale.
Emanuele Volpini è stagista al Desk Medio Oriente e Nord Africa.