Il Kenya e le sue sfide: le elezioni, gli scontri tribali, il terrorismo
Per Il Kenya il 2013 sarà un anno cruciale. Nel Paese s’intrecciano una serie di questioni di politica interna, estera e di natura sociale ed economica che ne stanno mettendo a dura prova la stabilità.
Su tutte, le elezioni presidenziali e legislative del prossimo marzo, l’intervento militare in Somalia ed il processo presso la Corte Penale Internazionale per alcuni esponenti di alto rango dell’establishment keniota, accusati di crimini contro l’umanità in seguito alle violenze post-elettorali del 2007-2008. Tra questi, Uhuru Kenyatta e William Ruto, due candidati alla Presidenza della Repubblica.
Inoltre, il governo di Nairobi deve affrontare i fermenti separatisti del Mombasa Republican Council, le ritorsioni del gruppo terroristico al-Shabaab ed il dilagare del banditismo e delle rivalità etnico-tribali degenerate in una grave spirale di violenza.
Il Kenya si prepara cosi a vivere quello che, quattro anni dopo la peggiore crisi politica attraversata dall’indipendenza, potrebbe essere un anno di fuoco. E’ ancora vivo il ricordo degli scontri post-elettorali che hanno causato oltre 1.200 e centinaia di migliaia di sfollati.
Il 4 marzo prossimo, oltre al Presidente, saranno eletti i Senatori ed i membri del Parlamento, i Country Governors, i Collegi elettorali civici (Civic Wards) e le rappresentanze femminili (Women Country Representatives). Verrà adottato un nuovo sistema elettorale, dopo il referendum del 2010 e la conseguente modifica della Costituzione, con un sistema di voto in cui è previsto un eventuale ballottaggio al secondo turno per l’elezione del Presidente.
Per la candidatura alla Presidenza della Repubblica si sono formati due blocchi principali.
Da una parte il Primo Ministro Raila Odinga, esponente dell’Orange Democratic Movement, ha ufficializzato l’alleanza con il Vice Presidente Kalonzo Musyoka del Wiper Democratic Movement. Dall’altra il vice Primo ministro Uhuru Kenyatta, appartenente a The National Alliance, e figlio del primo presidente del Kenya, con il parlamentare William Ruto del United Republican Party, e Musalia Mudavadi, legato allo United Democratic Forum, anch’egli vice Primo ministro. Il Ministro per la Sicurezza Interna George Saitoti, che si riteneva essere un autorevole candidato, è morto lo scorso giugno in un incidente aereo nella foresta di Ngong, alle porte di Nairobi, in circostanze poco chiare.
L’alleanza tra Kenyatta e Ruto ha sollevato critiche e diviso l’opinione pubblica. L’ufficializzazione del patto elettorale tra i due è avvenuta a Nakuru, nella Rift Valley. Una scelta non casuale, poiché quella è una terra di profonde divisione tribali, ed epicentro delle violenze post-elettorali del 2007. Proprio qui i Kikuyu e i Kalenjin, le tribù di appartenenza dei due politici, hanno combattuto l’una contro l’altra rendendosi protagoniste di sanguinosi scontri, terminati con un accordo politico e la nomina di Kibaki alla Presidenza e di Odinga come Primo ministro.
Kenyatta e Ruto sono oggi entrambi sotto processo presso la Corte Internazionale per crimini contro l’umanità, accusati di essere i mandanti ideologici di quegli scontri.
Ecco perché tale alleanza sembra ai più un matrimonio di convenienza, stipulato per garantirsi un’immunità reciproca. Ruto e Kenyatta hanno assicurato di voler cooperare, e che non si sottrarranno alle richieste della Corte. Tuttavia tali candidature, criticate da più parti ed in particolare dalla International Commission of Jurists, sembrano essere mirate a frenare il procedimento accusatorio nei confronti degli stessi. E qualora i due dovessero ricoprire le due principali cariche politiche, Presidenza e vice Presidenza, sarebbe certamente più agevole evitare una loro comparizione nelle aule dell’Aia.
E’ vero, come ha sostenuto il portavoce del controverso leader del Lord’s Resistance Army, l’ugandese Kony, che questa imputazione ha avuto la paradossale conseguenza di cementare un’alleanza altrimenti improbabile tra esponenti politici che sono espressione di etnie ed istanze diverse e di contenere ulteriori frizioni tra le due tribù. Risulta altrettanto vero che il processo, che prenderà il via in aprile subito dopo le elezioni, sta inevitabilmente influenzando la campagna elettorale e pesa come una spada di Damocle sulla testa degli imputati, i quali hanno accusato la comunità internazionale di voler interferire nelle vicende politiche interne.
Le rappresentanze diplomatiche dell’Unione Europea, Gran Bretagna e Danimarca su tutte, hanno smentito le indiscrezioni secondo cui a Ruto e Kenyatta verrebbe negato il visto qualora intendessero recarsi in Europa. Anche Washington ha ribadito che verrà rispettata la scelta elettorale del popolo keniota, senza interferenze.
Ma è altrettanto vero che, con una loro elezione, il Kenya entrerebbe a far parte del “club” dei Paesi con un Presidente od alti esponenti politici accusati di crimini contro l’umanità, con conseguenze pesanti sul piano delle relazioni politiche ed economiche internazionali. Kofi Annan, ex Segretario Generale delle Nazioni Unite, ha invitato l’elettorato keniota a non votare chi è sotto processo per tali crimini. Avere un Presidente eletto che è sotto processo alla ICC avrebbe delle implicazioni non indifferenti sulle relazioni internazionali del Paese. Questo potrebbe rivelarsi il peggiore scenario possibile per il Kenya.
I due politici sono imputati insieme all’ex direttore del Civil Service Francis Muthaura ed al noto conduttore radiofonico Joshua Arap Sang, accusato di fomentare le violenze durante i suoi programmi.
Il nuovo Procuratore Fatou Bensouda, che ha preso il posto del celebre Moreno Ocampo, nel mese di ottobre ha visitato i luoghi delle violenze post-elettorali, in particolare Nakuru, Eldoret e Naivasha, oltre ai campi dove ancora vivono le persone sfollate, ed ha partecipato ad un incontro con la popolazione civile presso la chiesa di Kiambaa, dove all’apice degli scontri diciassette persone furono bruciate vive. Inoltre, Bensouda ha raccolto prove e redatto una lista di testimoni, che saranno resi noti nei prossimi giorni e sono ora sotto protezione della Corte. Benouda ha ribadito che le prove a carico degli imputati sono numerose ed il processo andrà avanti, esprimendo peraltro il suo disappunto per la non piena cooperazione del Governo centrale con il suo ufficio. Il fatto che la Corte Internazionale non goda di un potere coercitivo diretto ma debba godere della cooperazione dei singoli Stati firmatari dello Statuto di Roma, pone seri dubbi sulla applicabilità delle pene eventualmente emesse. La mancanza di un Law Enforcement diretto è in tal senso il più grande limite della Corte Penale Internazionale.
Altro tema caldo dell’agenda keniota è l’intervento del Kenya Defence Force in Somalia, teso a neutralizzare la presenza del movimento terroristico al-Shabaab. Quest’operazione militare ha già provocato pesanti ripercussioni interne per quel che riguarda il quadro di sicurezza.
Da oltre un anno il governo keniota ha schierato le sue truppe in Somalia, allo scopo di riportare la stabilità nell’area, in particolare nella Juba Valley, zona di confine con il Kenya, e di consentire al Governo Federale di Transizione somalo (TFG) di riprenderne il controllo. L’esercito keniota è integrato nella forza di pace africana AMISOM (African Union Mission in Somalia).
L’operazione “Linda Nchi” (Proteggere la nazione) è la più grande sfida militare che il Kenya abbia mai affrontato dall’indipendenza. E nonostante le forze armate non abbiano mai combattuto in un contesto di guerra asimmetrica, sono stati conseguiti discreti risultati nel breve periodo. Alla fine di settembre Kismayo, una delle principali roccaforti di al-Shabaab, è stata espugnata e riportata sotto il controllo del Governo centrale. Altre città sono state liberate dalla presenza del movimento terroristico, ed a Mogadiscio cominciano a riaprire uffici delle organizzazioni non governative internazionali. Tuttavia è necessario, per il Governo keniota, evitare una presenza prolungata, per non rischiare di rimanere impantanati in quello che è stato un teatro funesto già per le missioni delle Nazioni Unite in passato e poi per quella etiope (2006-2009).
La risposta di al-Shabaab è stata veemente. Da quando il KDF ha messo piede in territorio somalo, il Kenya è teatro di ripetuti attacchi ed attentati da parte del gruppo terroristico. Nairobi, Garissa ed Isiolo sono le città più calde. Attacchi a chiese e attentati, contro le forze di sicurezza e la popolazione, si verificano con cadenza settimanale. I più gravi nella capitale, davanti a una moschea ed in bus hanno causato oltre dieci morti e hanno provocato violente reazioni contro la comunità somala del quartiere Eastleigh, la “little Mogadishu” di Nairobi. Su Twitter il portavoce di al-Shabaab ha minacciato nuovi e sanguinosi attacchi contro siti turistici e obiettivi sensibili, e il rischio di una prolungata campagna di terrore è concreto. Il movimento terroristico, indebolito e privato delle sue roccaforti principali in Somalia, sta guadagnando terreno in Kenya, dove operano diverse cellule (a Nairobi, Mombasa, Garissa, Isiolo e Lamu). E mentre a Nairobi le questioni politiche e militari si intrecciano con quelle sociali ed interetniche (tensioni con la comunità somala) a Mombasa sulla costa, il terrorismo si lega alle spinte secessioniste.
L’altra spinosa questione è infatti legata ai fermenti separatisti del Mombasa Republican Council. “Pwasi ni Kenya” (“la Costa non è Kenya”) recita il motto del movimento, che campeggia sui muri delle città costiere e sul pontile di Malindi, dove quest’anno si è registrato un forte decremento dell’attività turistica, settore trainante dell’economia sulla costa dell’Oceano Indiano.
Il Mombasa Republican Council è un’organizzazione politica nata con l’intenzione di combattere le presunte discriminazioni e l’emarginazione posta in essere dal Governo centrale nei confronti della popolazione costiera, ed il cui obiettivo finale è la secessione.
Il movimento era stato bandito nel 2008, ma una recente pronuncia della High Court di Mombasa ha legittimato nuovamente il gruppo. Negli ultimi mesi, però, le frizioni con il Governo centrale sono aumentate, anche a causa delle imminenti elezioni, che MRC invita a boicottare. Il quindici ottobre il leader Omar Mwamnuadzi è stato arrestato assieme ad altre trentasette persone, con una sanguinosa operazione (due poliziotti ed un assistente del MRC sono morti). La settimana precedente la stessa sorte era toccata al portavoce ed al segretario generale del gruppo. E incidenti tra polizia e giovani seguaci del movimento sono sempre più frequenti.
La forza usata dalle forze di polizia nel frenare le istanze secessioniste è stata duramente criticata, in particolare da Muslim for Human Rights, ed è stata istituita una commissione d’inchiesta volta ad investigare su eventuali abusi della polizia (Independent Policing Oversight Authority). Quella delle forze dell’ordine è sembrata una reazione di panico conseguente alle rimostranze dell’opinione pubblica interna, che accusa la polizia di aver fatto poco o niente in seguito alle violenze nei mesi scorsi nella zona del Tana River Delta, piuttosto che a Matwpa (dove una guardia del corpo del Ministro della Pesca è stato ucciso a colpi di machete), e in seguito agli scontri seguiti all’omicidio dello Sheikh Aboud Rogo a Mombasa, la scorsa estate.
C’è il rischio che questa violenta campagna conto il Mombasa Republican Council accresca il consenso nei riguardi dello stesso tra la popolazione ed abbia un effetto boomerang su Nairobi. Peraltro, in campagna elettorale, la questione fa gola ad esponenti politici che strumentalizzano il contesto per guadagnare consenso nell’area.
Bisogna tenere presente che le forze di polizia sono sottoposte, nell’ultimo periodo, ad una pressione straordinaria. Il massacro di Baragoi di novembre è il più grande attacco mai sferrato contro le forze di polizia keniote. Quarantadue poliziotti sono stati uccisi in un’imboscata mentre cercavano di recuperare del bestiame nell’ambito di una lotta tra le tribù Turkana e Samburu.
Attualmente manca una struttura di comando unificata nel corpo di polizia, ed il ritardo nella nomina dell’Inspector General of Police ha esposto il Paese a seri rischi. Sono evidenti le carenze nel coordinamento delle operazioni. E c’è il timore che stesse le forze di polizia non siano in grado di gestire la situazione sicurezza, e che possano essere messe in atto reazioni indiscriminate. Intanto, per gli ultimi due attentati a Nairobi, sono state arrestate ben seicento persone, quasi tutte di etnia somala.
Tali episodi si intrecciano con violenze diffuse in tutto il Paese. Reports del National Security Intelligence Service (NSIS) hanno alzato il livello di sicurezza in tutto il Paese, ed in particolare lungo la costa, nel timore di attacchi terroristici. Nella zona di Mombasa, dopo l’arresto nel dicembre dello scorso anno dei terroristi Fuad Abubakar Manswab e John Jermaine Gran, si è verificata un’escalation di scontri.
Nella regione del Tana River più di centocinquanta persone sono state uccise da Agosto e oltre dodicimila sono sfollate. La lotta per l’acqua e per la terra tra le tribù Pokomo (agricoltori) e Orma (pastori semi-nomadi) riporta agli scontri di quattro anni fa. Nairobi ha risposto schierando un reparto della GSU (General Service Unity) ed istituendo una commissione d’inchiesta. E’ questa una regione turistica dove coesistono resort a cinque stelle e villaggi estremamente poveri. Nel corso dell’ultimo anno si sono qui registrate attività terroristiche del movimento al-Shabaab, che hanno portato anche al rapimento di cittadini occidentali ed alla morte, nell’ottobre del 2011, della francese Marie Dedieu . Discorso simile vale per la Rift Valley. “Il problema della terra è esplosivo, e le elezioni sono un pretesto per risolvere vecchie ruggini” ha tuonato Motari, commissario distrettuale di Rongai.
I prossimi mesi saranno, dunque, decisivi per il Kenya, in un periodo di profondi cambiamenti per la nazione.
La più grande economia dell’Africa Orientale vacilla, ed il debito pubblico ha raggiunto livelli insostenibili. La mancanza di sicurezza potrebbe compromettere i massicci investimenti esteri nel paese, in particolare da parte di India e Cina, e la corruzione resta una delle piaghe più profonde del Paese.
Il Kenya inoltre, e più in generale l’Africa Orientale, è terreno di confronto tra potenze straniere, non soltanto dal punto di vista economico. La scorsa estate due iraniani sono stati arrestati perché trovati in possesso di quindici chilogrammi di RDX, un potente esplosivo, che avrebbero utilizzato per compiere attentati nel Paese ai danni di obiettivi israeliani ed occidentali. Un’unità del Mossad, inviata sul posto, ha interrogato i due che sono attualmente sotto processo.
Sullo sfondo rimane anche la questione pirateria. A tal proposito una pronuncia della corte d’Appello ha stabilito che le Kenyan Courts hanno giurisdizione sui casi di pirateria, a prescindere dal luogo in cui il crimine è stato commesso e dalla nazionalità degli accusati, in quanto il Kenya è firmatario dei Trattati internazionali. La sentenza è stata emessa sul caso riguardante nove sospettati, arrestati nel Marzo del 2009 dalle forze militari tedesche e statunitensi al largo del Golfo di Aden e consegnati alle autorità di Mombasa. Una sentenza che potrebbe stabilire un precedente giuridico di riferimento per le statuizioni future in materia di lotta alla pirateria.
In conclusione, il rischio che il Kenya diventi un paese profondamente instabile, e che tale instabilità si rifletta sull’intera area, è elevato. Il Ministro degli Esteri italiano Terzi ha parlato del pericolo, da evitare, che il Kenya si trasformi in una “nuova Nigeria”. Qui convivono oltre quaranta etnie diverse. Ciò che serve è una leadership forte e scevra da condizionamenti di carattere tribale e personalistico-nepotista. Molti leader politici, come già nel 2007, cavalcano l’onda della divisione interetnica, e strumentalizzano tali divisioni per conseguire risultati personali.
In risposta agli ultimi attentati, il Governo centrale ha peraltro ordinato a migliaia di rifugiati somali di lasciare le aree urbane e di rientrare nel campo profughi di Dadaab, il più grande del mondo con oltre 500mila persone, contribuendo cosi ad accrescere le tensioni sociali e provocando le reazioni della comunità internazionale, in primis dell’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati. E ciò nonostante gli autori degli attacchi si siano poi rivelati essere cittadini kenioti o di nazionalità differente da quella somala.
Le prossime elezioni saranno dunque un banco di prova fondamentale per la stabilità del Paese, cosi come il processo presso la Corte Penale Internazionale di aprile.
In Kenya c’è un progetto di lungo termine, chiamato 2030 VISION, che dovrebbe entro tale data alzare il livello di prosperità della nazione e la qualità della vita dei suoi cittadini. Si basa su un processo di industrializzazione del Paese, e su tre pilastri principali: economico, sociale e di governance politica.
Miglioramento delle infrastrutture, del settore turistico e agricolo, crescita economica, innalzamento della qualità dei servizi sanitari e dell’istruzione, riduzione dell’HIV e dell’altissimo livello di corruzione, questi sono i cardini principali di tale progetto.
Tuttavia, VISION 2030 potrebbe sembrare oggi già più lontano della stessa data.