Il futuro dell’Oman dopo Qaboos tra sfide interne e influenze esterne
Medio Oriente e Nord Africa

Il futuro dell’Oman dopo Qaboos tra sfide interne e influenze esterne

Di Emanuele Oddi
10.02.2020

Lo scorso 10 gennaio è morto il Sultano dell’Oman Qaboos al-Said, al potere dal 1970. Nonostante questi avesse predisposto da tempo la sua successione, pur senza rivelare pubblicamente l’identità del nuovo Sultano, non era scontato che l’avvicendamento al trono avvenisse senza tensioni, anche a causa di una procedura piuttosto oscura e complessa che regola un passaggio così delicato. Nonostante queste incertezze, la successione si è conclusa senza alcun intoppo ed in meno di 24 ore. A succedere a Qaboos è stato il cugino Haitham bin Tariq al-Said, già Segretario e Sottosegretario agli Affari Esteri, Ministro della Cultura e personalità con buone connessioni nella regione.

La rapidità con cui l’Oman è transitato nell’era post-Qaboos lascia comunque numerose incognite circa le prospettive di stabilità del Paese nel prossimo futuro. Qaboos, durante il suo lungo regno, è riuscito a ricomporre tensioni e spinte centrifughe che hanno attraversato il Paese, impedendo che assumessero una dimensione sistemica e mettessero apertamente in crisi la sua gestione. Tra queste si possono ricordare la gestione della guerra civile in Dhofar (1962 - 1976) e l’attenzione riservata allo sviluppo delle aree interne del Paese eredi dell’Imamato ibadita. Questo modus operandi però ha nascosto delle criticità, su tutte le fragilità del quadro macroeconomico, che se ignorate potrebbero sia minare la pace interna, sia esporre il Paese a maggiori pressioni esterne che, in prospettiva, ne potrebbero ridisegnare il ruolo negli equilibri della regione.

Alla luce delle molteplici incertezze appena delineate, non deve stupire che l’attenzione internazionale si sia concentrata sul delicato passaggio della nomina del successore di Qaboos. L’assenza di un erede diretto (Qaboos non aveva figli) ha alimentato le aspirazioni di quelle componenti della società omanita che premevano per un Sultano più sensibile alle loro istanze. In questo senso, il fatto che la successione sia avvenuta senza scossoni e in tempi rapidissimi lascia intendere che la scelta del nuovo sovrano sia un assunto ponderato e consolidato ormai da tempo, con ogni probabilità maturato da un compromesso tra le parti. In particolare, l’assenza di attriti evidenti potrebbe indicare che la figura di Haitham, uno degli uomini d’affari più importanti del Paese, sia in grado di risultare gradita sia alle diverse correnti della famiglia regnante sia alle élites del commercio e della finanza. Infatti, nonostante la poca esperienza in campo internazionale e militare, Haitham è riuscito a imporsi su potenziali rivali “interni” con credenziali altrettanto valide. Tra questi si possono annoverare il carismatico Assad bin Tariq, cugino di Qaboos e fratello di Haitham, che può vantare buone connessioni sia con i leader tribali del Paese sia negli ambienti militari; ma anche Shihab bin Tariq, altro fratello di Haitham con un passato nelle Forze Armate e, soprattutto, in controllo del Consiglio della Famiglia Reale, organo che è chiamato dalla Costituzione a gestire la successione del Sultano; o ancora Fahd bin Mahmoud, per decenni consigliere economico di Qaboos.

Per quanto queste credenziali giochino a suo favore, il successore di Qaboos si trova comunque a dover fronteggiare una congiuntura complessa. Haitham, infatti, eredita un sultanato con una crescita economica vicina allo zero e un debito estero che continua a gonfiarsi. L’economia è dipendente dai proventi dell’esportazione del petrolio per circa il 72% e, in seguito al crollo dei prezzi del petrolio del 2014, il Paese ha accumulato un ingente debito, che pare destinato a essere incrementato. Secondo le stime della Banca Mondiale, in un’ottica di medio lungo termine, il trend economico dell’Oman è sostanzialmente negativo: la crescita del PIL, dal 2012 a oggi, è calata di circa otto punti percentuali, mentre il deficit è al 10,9%. Dato ancora più rilevante è quello del debito delle casse statali, che ha raggiunto ben il 53,5% del PIL (nel 2014 era solamente il 5%), indice del fatto che il Paese è sprovvisto degli strumenti economici necessari per far fronte alle attuali difficoltà in modo armonico. Oltre a tutto ciò, la disoccupazione giovanile si attesta intorno ad un altissimo 49%. Considerando il grado di dipendenza dal comparto oil&gas, un piano di rilancio serio dell’economia nazionale non può che passare dalla diminuzione strutturale della dipendenza dall’esportazione d’idrocarburi. Nel 2013 fu lo stesso Haitham a lanciare il progetto Oman 2040 per la diversificazione complessiva dell’economia nazionale, ma nonostante i proclami finora è stato fatto poco e l’Oman continua a dipendere dall’esportazione di petrolio, subendone di conseguenza l’oscillazione dei prezzi sul mercato.

Con queste condizioni economiche, nel prossimo futuro la stabilità del Paese dipenderà molto dalle politiche che Haitham sceglierà di portare avanti, bilanciando lo spazio riservato ad investitori omaniti, fondamentali per garantire il mantenimento di un equilibrio interno tra i vari gruppi d’interesse, con il necessario volume di finanziamenti esterni. Su questo sfondo, bisogna sottolineare che il profilo del nuovo Sultano sembra essere particolarmente favorevole agli interessi emiratini. Come accennato in precedenza, Haitham è un uomo d’affari con contatti professionali e personali con altre società del Golfo. Nello specifico, Haitham si segnala per i rapporti, che emergono nell’ambito di società attive nel comparto energetico, con Mohammed bin Zayed, erede al trono degli Emirati Arabi Uniti (EAU), che sono peraltro interessati da tempo a espandere la propria influenza su Muscat. Tali legami, da un lato, potrebbero essere impiegati da Haitham per facilitare il rilancio economico del Paese, dal momento che costituiscono un prezioso canale preferenziale con Abu Dhabi; dall’altro lato, tuttavia, potrebbero al tempo stesso aumentare la permeabilità del Sultanato all’influenza emiratina, proprio attraverso i flussi d’investimento diretti nel Paese.

Difatti, sono anni che Abu Dhabi opera investimenti strategici in Oman, sfruttando legami storici, amministrativi ed economici che altri Stati vicini, a partire dall’Arabia Saudita, non possono vantare. L’Oman confina con gli EAU, non solo nella sua parte nord, ma anche con il territorio strategico della penisola di Musandam, che affaccia direttamente sullo Stretto di Hormuz, il più importante choke point globale da cui transita un terzo del petrolio mondiale. L’interscambio commerciale fra i due Paesi fa degli EAU i principali partner commerciali dell’Oman (al pari della Cina), con questo trend in continua crescita soprattutto in una logica di diversificazione dell’economia. Infatti, l’interscambio tra i due Paesi nei settori non-oil è da tempo in crescita ad un tasso medio del 10% annuo. Ciò nonostante, le relazioni fra Muscat e Abu Dhabi sono fatte anche di tensioni su alcuni dossier regionali di mutuo interesse, in particolare lo Yemen. L’Oman, per meglio gestire il caos prodotto dal conflitto yemenita, fin dal 2015 ha consolidato ulteriormente i rapporti con le realtà tribali  che controllano sia la regione del Dhofar omanita che l’estremo sud-est yemenita. Inevitabilmente, ciò pone Muscat in competizione con i vicini sauditi ed emiratini, interessati a espandere la loro influenza nell’area.

Questa complessità di rapporti tra Muscat e Abu Dhabi fa sì che tra i due Paesi sussista un delicato equilibrio, che potrebbe mutare proprio a causa delle vulnerabilità economiche omanite e della concomitante ricerca di un maggiore protagonismo nella regione mostrata da parte emiratina negli ultimi anni.

Gli EAU infatti sono interessati ad aumentare l’influenza sul Paese vicino per una molteplicità di ragioni, che si collocano sullo sfondo della più generale rivalità regionale dove Abu Dhabi è in competizione sia con l’Iran che con la Turchia. Tuttavia, va sottolineato che il dossier omanita è del tutto peculiare per la proiezione esterna emiratina, poiché va a incidere su alcune delle sue condizioni strutturali. Nello specifico, l’interesse di Abu Dhabi per Muscat risponde al desiderio di preservare (e, in prospettiva, aumentare) il proprio peso nel commercio marittimo in uno snodo globale così importante come quello del Golfo Persico – mar Arabico – Corno d’Africa, oggi messo in discussione, tra gli altri, dalla Belt Road Initiative (BRI) cinese. Proprio per non essere marginalizzati dalla BRI, gli EAU puntano da tempo a creare con Pechino un rapporto simbiotico, proponendosi come principale referente nella regione per il comparto marittimo. Gli interessi cinesi nell’area sono in costante crescita, data anche la quantità di petrolio che Pechino importa dai Paesi del Golfo, e gli EAU potrebbero offrire il supporto logistico e politico affinché quest’espansione avvenga nel modo più lineare possibile, difendendo allo stesso tempo i propri interessi. Abu Dhabi ha sviluppato una strategia di lungo termine analoga a quella cinese (quel “filo di perle” che ha il suo perno nelle infrastrutture portuali), con cui intende affermare il proprio peso nei principali porti della regione, da Jebel Ali, il porto di Abu Dhabi, a Djibouti. In quest’ottica, costituendo uno snodo fondamentale per i traffici marittimi, l’Oman è oggetto d’importanti investimenti sia della Cina, sia degli EAU, che procedono secondo una logica speculare. Ad esempio, la Cina ha investito 10,7 miliardi di dollari per il potenziamento del porto di Duqm, nel sud dell’Oman, e, parallelamente, gli EAU stanno contribuendo alla costruzione di una linea ferroviaria ad alta velocità di 1,200 km, che collegherà Duqm con gli Emirati e il resto della Penisola Araba. Abu Dhabi, intrecciando il suo sistema di porti con la BRI, si vuole proporre come il principale intermediario commerciale della regione, per sfruttare a pieno le potenzialità del progetto cinese, ma per realizzare il proprio intento ha bisogno di essere presente nei porti omaniti, come Duqm.

Il “filo di perle” emiratino ha come chiave di volta l’Oman, non solo per equilibrare i rapporti di forza con la Cina, ma anche per una maggiore influenza commerciale e politica nello Stretto di Hormuz, di cui l’extraterritorialità omanita di Musandam costituisce la sponda sud. Le rotte commerciali che partono dal porto di Jebel Alì, Abu Dhabi, hanno nello Stretto un passaggio obbligato, che non perderà la sua importanza, nonostante il comune interesse emiratino e cinese a dotarsi di alternative valide per mitigare gli effetti di una sua eventuale chiusura temporanea.

D’altronde, va ricordato che in questo stretto si condensano tensioni internazionali, come quelle fra Iran e Stati Uniti, in cui Muscat ha spesso avuto un ruolo di primaria importanza adottando un atteggiamento di spiccata neutralità e fornendo quindi una preziosissima camera di compensazione per attutire l’impatto delle tensioni e tenere vivo il dialogo tra le parti. Non si può quindi escludere che gli EAU puntino a sfruttare la fase di passaggio al post-Qaboos per indurre Muscat ad assumere una postura più in linea con i desiderata di Abu Dhabi. Il successo o meno di una simile strategia dipenderà molto dallo spazio di manovra che Abu Dhabi riuscirà a ritagliarsi in Oman, soprattutto per mezzo degli investimenti e dell’interscambio commerciale.

Alla luce di quanto detto, il post-Qaboos si preannuncia per Muscat un periodo complesso e ricco d’insidie. Il nuovo Sultano dovrà affrontare la crisi economica prima che questa sfoci in una crisi sociale analoga a quella esplosa nel 2011, di cui permangono intatte tutte le cause strutturali. Su questo sfondo, alla luce delle tensioni regionali, le strategie che Haitham sceglierà di perseguire in campo economico dovranno necessariamente tenere conto di un bilanciamento tra esigenze di stabilità interna e mantenimento della tradizionale autonomia in politica estera.

Lo scorso 10 gennaio è morto il Sultano dell’Oman Qaboos al-Said, al potere dal 1970. Nonostante questi avesse predisposto da tempo la sua successione, pur senza rivelare pubblicamente l’identità del nuovo Sultano, non era scontato che l’avvicendamento al trono avvenisse senza tensioni, anche a causa di una procedura piuttosto oscura e complessa che regola un passaggio così delicato. Nonostante queste incertezze, la successione si è conclusa senza alcun intoppo ed in meno di 24 ore. A succedere a Qaboos è stato il cugino Haitham bin Tariq al-Said, già Segretario e Sottosegretario agli Affari Esteri, Ministro della Cultura e personalità con buone connessioni nella regione.

La rapidità con cui l’Oman è transitato nell’era post-Qaboos lascia comunque numerose incognite circa le prospettive di stabilità del Paese nel prossimo futuro. Qaboos, durante il suo lungo regno, è riuscito a ricomporre tensioni e spinte centrifughe che hanno attraversato il Paese, impedendo che assumessero una dimensione sistemica e mettessero apertamente in crisi la sua gestione. Tra queste si possono ricordare la gestione della guerra civile in Dhofar (1962 - 1976) e l’attenzione riservata allo sviluppo delle aree interne del Paese eredi dell’Imamato ibadita. Questo modus operandi però ha nascosto delle criticità, su tutte le fragilità del quadro macroeconomico, che se ignorate potrebbero sia minare la pace interna, sia esporre il Paese a maggiori pressioni esterne che, in prospettiva, ne potrebbero ridisegnare il ruolo negli equilibri della regione.

Alla luce delle molteplici incertezze appena delineate, non deve stupire che l’attenzione internazionale si sia concentrata sul delicato passaggio della nomina del successore di Qaboos. L’assenza di un erede diretto (Qaboos non aveva figli) ha alimentato le aspirazioni di quelle componenti della società omanita che premevano per un Sultano più sensibile alle loro istanze. In questo senso, il fatto che la successione sia avvenuta senza scossoni e in tempi rapidissimi lascia intendere che la scelta del nuovo sovrano sia un assunto ponderato e consolidato ormai da tempo, con ogni probabilità maturato da un compromesso tra le parti. In particolare, l’assenza di attriti evidenti potrebbe indicare che la figura di Haitham, uno degli uomini d’affari più importanti del Paese, sia in grado di risultare gradita sia alle diverse correnti della famiglia regnante sia alle élites del commercio e della finanza. Infatti, nonostante la poca esperienza in campo internazionale e militare, Haitham è riuscito a imporsi su potenziali rivali “interni” con credenziali altrettanto valide. Tra questi si possono annoverare il carismatico Assad bin Tariq, cugino di Qaboos e fratello di Haitham, che può vantare buone connessioni sia con i leader tribali del Paese sia negli ambienti militari; ma anche Shihab bin Tariq, altro fratello di Haitham con un passato nelle Forze Armate e, soprattutto, in controllo del Consiglio della Famiglia Reale, organo che è chiamato dalla Costituzione a gestire la successione del Sultano; o ancora Fahd bin Mahmoud, per decenni consigliere economico di Qaboos.

Per quanto queste credenziali giochino a suo favore, il successore di Qaboos si trova comunque a dover fronteggiare una congiuntura complessa. Haitham, infatti, eredita un sultanato con una crescita economica vicina allo zero e un debito estero che continua a gonfiarsi. L’economia è dipendente dai proventi dell’esportazione del petrolio per circa il 72% e, in seguito al crollo dei prezzi del petrolio del 2014, il Paese ha accumulato un ingente debito, che pare destinato a essere incrementato. Secondo le stime della Banca Mondiale, in un’ottica di medio lungo termine, il trend economico dell’Oman è sostanzialmente negativo: la crescita del PIL, dal 2012 a oggi, è calata di circa otto punti percentuali, mentre il deficit è al 10,9%. Dato ancora più rilevante è quello del debito delle casse statali, che ha raggiunto ben il 53,5% del PIL (nel 2014 era solamente il 5%), indice del fatto che il Paese è sprovvisto degli strumenti economici necessari per far fronte alle attuali difficoltà in modo armonico. Oltre a tutto ciò, la disoccupazione giovanile si attesta intorno ad un altissimo 49%. Considerando il grado di dipendenza dal comparto oil&gas, un piano di rilancio serio dell’economia nazionale non può che passare dalla diminuzione strutturale della dipendenza dall’esportazione d’idrocarburi. Nel 2013 fu lo stesso Haitham a lanciare il progetto Oman 2040 per la diversificazione complessiva dell’economia nazionale, ma nonostante i proclami finora è stato fatto poco e l’Oman continua a dipendere dall’esportazione di petrolio, subendone di conseguenza l’oscillazione dei prezzi sul mercato.

Con queste condizioni economiche, nel prossimo futuro la stabilità del Paese dipenderà molto dalle politiche che Haitham sceglierà di portare avanti, bilanciando lo spazio riservato ad investitori omaniti, fondamentali per garantire il mantenimento di un equilibrio interno tra i vari gruppi d’interesse, con il necessario volume di finanziamenti esterni. Su questo sfondo, bisogna sottolineare che il profilo del nuovo Sultano sembra essere particolarmente favorevole agli interessi emiratini. Come accennato in precedenza, Haitham è un uomo d’affari con contatti professionali e personali con altre società del Golfo. Nello specifico, Haitham si segnala per i rapporti, che emergono nell’ambito di società attive nel comparto energetico, con Mohammed bin Zayed, erede al trono degli Emirati Arabi Uniti (EAU), che sono peraltro interessati da tempo a espandere la propria influenza su Muscat. Tali legami, da un lato, potrebbero essere impiegati da Haitham per facilitare il rilancio economico del Paese, dal momento che costituiscono un prezioso canale preferenziale con Abu Dhabi; dall’altro lato, tuttavia, potrebbero al tempo stesso aumentare la permeabilità del Sultanato all’influenza emiratina, proprio attraverso i flussi d’investimento diretti nel Paese.

Difatti, sono anni che Abu Dhabi opera investimenti strategici in Oman, sfruttando legami storici, amministrativi ed economici che altri Stati vicini, a partire dall’Arabia Saudita, non possono vantare. L’Oman confina con gli EAU, non solo nella sua parte nord, ma anche con il territorio strategico della penisola di Musandam, che affaccia direttamente sullo Stretto di Hormuz, il più importante choke point globale da cui transita un terzo del petrolio mondiale. L’interscambio commerciale fra i due Paesi fa degli EAU i principali partner commerciali dell’Oman (al pari della Cina), con questo trend in continua crescita soprattutto in una logica di diversificazione dell’economia. Infatti, l’interscambio tra i due Paesi nei settori non-oil è da tempo in crescita ad un tasso medio del 10% annuo. Ciò nonostante, le relazioni fra Muscat e Abu Dhabi sono fatte anche di tensioni su alcuni dossier regionali di mutuo interesse, in particolare lo Yemen. L’Oman, per meglio gestire il caos prodotto dal conflitto yemenita, fin dal 2015 ha consolidato ulteriormente i rapporti con le realtà tribali  che controllano sia la regione del Dhofar omanita che l’estremo sud-est yemenita. Inevitabilmente, ciò pone Muscat in competizione con i vicini sauditi ed emiratini, interessati a espandere la loro influenza nell’area.

Questa complessità di rapporti tra Muscat e Abu Dhabi fa sì che tra i due Paesi sussista un delicato equilibrio, che potrebbe mutare proprio a causa delle vulnerabilità economiche omanite e della concomitante ricerca di un maggiore protagonismo nella regione mostrata da parte emiratina negli ultimi anni.

Gli EAU infatti sono interessati ad aumentare l’influenza sul Paese vicino per una molteplicità di ragioni, che si collocano sullo sfondo della più generale rivalità regionale dove Abu Dhabi è in competizione sia con l’Iran che con la Turchia. Tuttavia, va sottolineato che il dossier omanita è del tutto peculiare per la proiezione esterna emiratina, poiché va a incidere su alcune delle sue condizioni strutturali. Nello specifico, l’interesse di Abu Dhabi per Muscat risponde al desiderio di preservare (e, in prospettiva, aumentare) il proprio peso nel commercio marittimo in uno snodo globale così importante come quello del Golfo Persico – mar Arabico – Corno d’Africa, oggi messo in discussione, tra gli altri, dalla Belt Road Initiative (BRI) cinese. Proprio per non essere marginalizzati dalla BRI, gli EAU puntano da tempo a creare con Pechino un rapporto simbiotico, proponendosi come principale referente nella regione per il comparto marittimo. Gli interessi cinesi nell’area sono in costante crescita, data anche la quantità di petrolio che Pechino importa dai Paesi del Golfo, e gli EAU potrebbero offrire il supporto logistico e politico affinché quest’espansione avvenga nel modo più lineare possibile, difendendo allo stesso tempo i propri interessi. Abu Dhabi ha sviluppato una strategia di lungo termine analoga a quella cinese (quel “filo di perle” che ha il suo perno nelle infrastrutture portuali), con cui intende affermare il proprio peso nei principali porti della regione, da Jebel Ali, il porto di Abu Dhabi, a Djibouti. In quest’ottica, costituendo uno snodo fondamentale per i traffici marittimi, l’Oman è oggetto d’importanti investimenti sia della Cina, sia degli EAU, che procedono secondo una logica speculare. Ad esempio, la Cina ha investito 10,7 miliardi di dollari per il potenziamento del porto di Duqm, nel sud dell’Oman, e, parallelamente, gli EAU stanno contribuendo alla costruzione di una linea ferroviaria ad alta velocità di 1,200 km, che collegherà Duqm con gli Emirati e il resto della Penisola Araba. Abu Dhabi, intrecciando il suo sistema di porti con la BRI, si vuole proporre come il principale intermediario commerciale della regione, per sfruttare a pieno le potenzialità del progetto cinese, ma per realizzare il proprio intento ha bisogno di essere presente nei porti omaniti, come Duqm.

Il “filo di perle” emiratino ha come chiave di volta l’Oman, non solo per equilibrare i rapporti di forza con la Cina, ma anche per una maggiore influenza commerciale e politica nello Stretto di Hormuz, di cui l’extraterritorialità omanita di Musandam costituisce la sponda sud. Le rotte commerciali che partono dal porto di Jebel Alì, Abu Dhabi, hanno nello Stretto un passaggio obbligato, che non perderà la sua importanza, nonostante il comune interesse emiratino e cinese a dotarsi di alternative valide per mitigare gli effetti di una sua eventuale chiusura temporanea.

D’altronde, va ricordato che in questo stretto si condensano tensioni internazionali, come quelle fra Iran e Stati Uniti, in cui Muscat ha spesso avuto un ruolo di primaria importanza adottando un atteggiamento di spiccata neutralità e fornendo quindi una preziosissima camera di compensazione per attutire l’impatto delle tensioni e tenere vivo il dialogo tra le parti. Non si può quindi escludere che gli EAU puntino a sfruttare la fase di passaggio al post-Qaboos per indurre Muscat ad assumere una postura più in linea con i desiderata di Abu Dhabi. Il successo o meno di una simile strategia dipenderà molto dallo spazio di manovra che Abu Dhabi riuscirà a ritagliarsi in Oman, soprattutto per mezzo degli investimenti e dell’interscambio commerciale.

Alla luce di quanto detto, il post-Qaboos si preannuncia per Muscat un periodo complesso e ricco d’insidie. Il nuovo Sultano dovrà affrontare la crisi economica prima che questa sfoci in una crisi sociale analoga a quella esplosa nel 2011, di cui permangono intatte tutte le cause strutturali. Su questo sfondo, alla luce delle tensioni regionali, le strategie che Haitham sceglierà di perseguire in campo economico dovranno necessariamente tenere conto di un bilanciamento tra esigenze di stabilità interna e mantenimento della tradizionale autonomia in politica estera.

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