I rischi connessi all’intervento militare del Kenya in Somalia
Sulla scia dei rapimenti di persone straniere su suolo keniota (4 rapite soltanto a partire dal settembre 2011), poi trasportate in Somalia, Nairobi ha deciso di lanciare il 16 ottobre 2011 un’offensiva militare denominata “Operation Linda Nchi” (Operation Protect Kenya) contro gli islamisti radicali di Al-Shabaab sospettati dei sequestri. Le truppe di Nairobi sono penetrate in territorio somalo dirette alla città di Afmadow, situata a 120 chilometri dal confine e 90 a nord da Kismayo, roccaforte economica e logistica degli Shabaab. In seguito alla decisione keniota di aprire le ostilità, Hassan Turki e Sheikh Ali Mohamud Rage, leader del gruppo, hanno minacciato apertamente le truppe di Nairobi.
A conferma della determinazione degli Shabaab, il 18 ottobre un kamikaze si è fatto esplodere a soli 2 chilometri dall’aeroporto di Mogadiscio durante i colloqui tra i ministri kenioti Moses Wetangula (Esteri) e Yusuf Haji (Difesa) ed il Presidente somalo Sharif Sheikh Ahmed del Transitional Federal Government (TFG) incentrati sulle relazioni bilaterali fra i due Paesi, in particolare per quanto concerne la lotta al movimento Shabaab. Inoltre, il 19 ottobre, si è verificato un secondo attentato vicino al porto di Mogadiscio, quando un’autobomba ha causato il ferimento di 6 persone; lo stesso giorno, Marie Dedieu, una degli ostaggi francesi, malata di cancro e paraplegica, è deceduta, sebbene sia ancora da appurare se la sua morte sia legata ai trattamenti subìti durante la prigionia. Infine, il 25 ottobre, sono stati rapiti due operatori umanitari nella città di Galkacyo (regione di Mudug, Somalia centro-settentrionale).
L’operazione di Nairobi può essere letta alla luce della minaccia alla sicurezza nazionale rappresentata dalle milizie Shabaab, come confermato dal Ministro degli Interni del Kenya George Saitoti, il quale ha giustificato l’intervento in Somalia come un’operazione di legittima difesa sulla base delle frequenti incursioni di Shabaab in Kenya. Le milizie somale si sono rese protagoniste di attentati anche al di fuori del territorio nazionale, come accaduto nel luglio 2010, quando un duplice attacco suicida ha causato la morte di 76 persone a Kampala, in Uganda, in risposta all’invio dei peacekeepers ugandesi a Mogadiscio inquadrati nelle truppe dell’Unione Africana (UA). Lo stesso Kenya ha subìto nel 1998 il primo attacco su larga scala commesso da Al-Qaeda (in contatti con il movimento Shabaab), quando circa 200 persone hanno perso la vita nell’attacco sferrato all’ambasciata americana di Nairobi.
L’attività di Shabaab di su territorio keniota è causa di grande preoccupazione per Nairobi, considerato l’alto numero di somali presenti sia sul territorio nazionale (circa 2milioni) sia nel più grande complesso di campi profughi del mondo di Dadaab, situato nella parte orientale del Kenya, che ospita circa 450mila rifugiati in fuga dalla siccità e dal conflitto in Somalia. In particolare, la situazione di Dadaab è seguita attentamente dal governo keniota poiché si ritiene che gli Shabaab arruolino combattenti proprio tra i rifugiati del campo. La risposta del gruppo islamista somalo su territorio keniota non si è fatta attendere e dopo che l’ambasciata americana in Kenya aveva ammonito circa una “imminent threat” di attacchi direttamente nel Paese, il 24 ottobre una granata ha causato il ferimento di 12 persone in un locale della capitale. A poche ore di distanza un altro ordigno esploso alla fermata di un autobus ha causato la morte di una persona.
Una seconda motivazione alla base dell’intervento militare di Nairobi è rintracciabile nelle ripercussioni economiche che i sequestri di persone straniere causano al settore turistico keniota, considerato che nel Paese il turismo costituisce il 10%del PIL ed occupa il 9% della forza lavoro totale.
Nel quadro dell’operazione Linda Nchi, le truppe di Nairobi (per un totale di circa 3mila soldati, cifra tuttavia non confermata dalle autorità di Nairobi), dalla città somala di Qoqani, mirano alla presa del centro abitato di Afmadow ed alla stabilizzazione della regione del Lower Jubba. Un portavoce dell’esercito keniota ha quindi confermato l’intenzione di avanzare verso il porto di Kismayo, città di assoluta importanza per i rifornimenti alle milizie Shabaab. L’obiettivo del governo di Nairobi è creare una buffer zone nelle aree messe in sicurezza del Lower Jubba.
Nell’ambito delle operazioni militari, l’esercito del Kenya si sta appoggiando sia alle truppe del TFG di Mogadiscio, sia alle milizie del Raskamboni Movement, ottenendo supporto anche dall’Unione Africana (presente in Somalia dal 2007 con circa 9mila peacekeepers inquadrati nella missione AMISOM, African Union Mission in Somalia, in supporto del TFG). Inoltre, Francia e Stati Uniti sono impegnate nel conflitto garantendo copertura alle truppe keniote; nella fattispecie, le postazioni Shabaab sono prese di mira da bombardamenti effettuati dalla Marina francese e da droni americani (già responsabili di altri raid in passato, di cui l’ultimo a Kismayo nel settembre 2011). Parigi, attraverso il Colonnello Thierry Burkhard, ha confermato che offrirà appoggio logistico alle truppe keniote.
Nell’ottica della sicurezza regionale, l’organizzazione dell’Africa Orientale IGAD (Inter-Governmental Authority on Development), in occasione di un meeting ad Addis Abeba del 21 ottobre, ha confermato di voler collaborare all’operazione Linda Nchi e richiesto l’imposizione di una no-fly zone sulla Somalia integrata da un blocco navale della città di Kismayo. Nel contesto degli scontri nella capitale Mogadiscio, il 20 ottobre, gli Shabaab hanno mostrato nella città di Elasha Biya, a 18 chilometri dalla capitale, i corpi di circa 70 peacekeepers del Burundi; l’evento costituisce la più grave perdita per l’AMISOM dal 2007 e conferma le potenzialità degli Shabaab.
La decisione di Nairobi di lanciare l’operazione Linda Nchi è di fatto la prima grande azione di politica estera intrapresa dal Kenya a partire dall’indipendenza dal Regno Unito nel 1963. Questo elemento può quindi costituire un fattore di apprensione circa l’andamento militare dell’operazione, anche alla luce della determinazione delle milizie islamiche e soprattutto del ruolo che assumeranno i vari clan e gruppi armati somali nel complesso mosaico politico interno. In particolare, un ruolo determinante è ricoperto dal Raskamboni Movement, organizzazione paramilitare somala guidata da Sheik Ahmed Madobe e nata dalla scissione delle Ras Kamboni Brigades (quest’ultimo era un gruppo islamista fondato nel 2007 da Hassan Abdullah Hersi al-Turki). Dopo la lotta per il controllo di Kismayo nel 2009 tra Shabaab e Ras Kamboni Brigades si è determinata una scissione di queste ultime, dove una fazione, chiamata, appunto, Raskamboni Movement, ha continuato a battersi contro Shabaab, mentre un’altra fazione è confluita con questi nel 2010). Il Raskamboni Movement è infatti riuscito il 20 ottobre ad occupare la città di Ras Kamboni (distretto di Badhaadhe) in mano agli Shabaab, snodo strategico fondamentale nell’ottica dell’eventuale presa di Kismayo.
La dimensione clanica della società somala è alla base degli equilibri di potere sul territorio e tale fattore potrebbe tradursi nel rischio di uno scenario post-bellico caratterizzato da ulteriore instabilità, dettata dal mutamento dei rapporti tra le varie tribù e clan locali. Qualora si profilasse una sconfitta del movimento Shabaab, il conseguente vuoto di potere potrebbe essere colmato da gruppi armati o clan con cui il governo di Nairobi dovrà necessariamente trattare se vorrà garantire la sicurezza dei suoi confini. A vantaggio degli Shabaab gioca tuttora il fatto che l’esercito keniota e TFG dovranno mantenere le città occupate, con conseguente ingente dispendio di risorse cui Nairobi e Mogadiscio dovranno far fronte. Il Kenya dovrà poi affrontare il nodo dei rapporti con il TFG per quanto riguarda l’amministrazione delle zone target dell’operazione militare, alla luce della debolezza del governo di Mogadiscio.
Tra le conseguenze della decisione di intervenire in Somalia, l’Uganda ha espresso perplessità alla luce del suo massiccio coinvolgimento nella missione AMISOM, cui contribuisce con circa 6mila peacekeepers. Come ricordato, gli Shabaab hanno già dato prova della loro potenzialità colpendo Kampala nel 2010, motivazione che spiega la freddezza dei vertici ugandesi nell’operazione Linda Nchi per timore di ripercussioni sia sul territorio nazionale che per i suoi soldati impegnati a Mogadiscio. Alla luce di tale dinamica, il Governo ugandese potrebbe pensare anche ad un ritiro delle proprie truppe, evento che indebolirebbe la missione AMISOM, di vitale importanza nell’appoggio al TFG per il controllo della capitale.