Geopolitical Weekly n.326

Geopolitical Weekly n.326

Di Stefania Montagna e Sara Nicoletti
16.05.2019

Burkina Faso: nuovi attacchi jihadisti contro i cristiani

Domenica 12 maggio, un commando di circa 20 uomini ha ucciso 6 persone durante la messa nella chiesa cattolica di Dablo, nel nord del Burkina Faso. Lo scorso 28 aprile un evento simile si era verificato in una chiesa protestante di Djibo, nella stessa area, sollevando preoccupazioni sull’escalation di violenza che continua a colpire un Paese un tempo immune dai conflitti etnico-religiosi che caratterizzano l’area del Sahel.

Anche se non è avvenuta alcuna rivendicazione ufficiale, i principali sospettati dell’attacco sono i membri di Ansarul Islam (I Protettori dell’Islam), gruppo jihadista di etnia Fulani parte dell’ombrello terroristico del Gruppo Per la Salvaguardia dell’Islam e dei Musulmani (GSIM), cartello che riunisce le sigle salafite violente della regione comprese nell’orbita qaedista.

Ansarul Islam sfrutta il malcontento dei Fulani contro le istituzioni governative e il sistema di potere burkinabé, ritenuto iniquo e penalizzante le popolazioni del nord del Paese. Il proselitismo jihadista ha trovato terreno fertile in Burkina Faso grazie al sentimento di alienazione dell’etnia Fulani, reso ancor più grave dall’impatto economico del cambiamento climatico e dalla crescente difficoltà di accedere alle risorse idriche e del suolo. In questo contesto, i Fulani, pastori semi-nomadi, sono in crescente competizione con le popolazioni sedentarie dedite all’agricoltura, in maggioranza cristiane, le quali usufruiscono di un maggior grado di tutela da parte delle autorità.

La radicalizzazione jihadista è facilitata dai servizi che i gruppi terroristici offrono alle etnie e alle classi sociali più vulnerabili, come protezione dalle bande armate rivali e supporto nelle lotte per il controllo delle risorse.

Pakistan: attentato contro obiettivi cinesi in Balochistan

Sabato 11 maggio tre uomini armati hanno fatto irruzione nell’hotel a cinque stelle Zaver Pearl-Continental nella città portuale di Gwadar, in Pakistan, uccidendo cinque persone e ferendone altre sei. L’attacco è stato rivendicato dal Balochistan Liberation Army (BLA), il quale ha dichiarato l’intento di voler colpire gli investitori cinesi ed internazionali presenti nell’hotel.

Il BLA è un gruppo militante che si batte per l’indipendenza del Balochistan, regione al confine con l’Afghanistan e l’Iran. Si tratta della provincia geograficamente più grande ed economicamente più povera della nazione pakistana. Nonostante la regione sia ricca di risorse minerarie ed energetiche, infatti, gli introiti derivanti dallo sfruttamento di queste ultime sono per lo più destinati al governo centrale e ad investitori stranieri.

Il Balochistan è da sempre interessato da un’insorgenza di natura separatista. Tuttavia, negli ultimi anni il risentimento di parte della popolazione locale nei confronti delle autorità di Islamabad ha costituito terreno fertile per una nuova ondata di radicalizzazione nell’area, che è stata teatro di numerosi attentati, realizzati sia dall’insorgenza separatista sia da gruppi di ispirazione jihadista. In questo contesto, gli interessi cinesi sono diventati progressivamente un obiettivo sempre più importante per i gruppi operartivi in Balochistan. L’attentato allo Zavel Pearl Continental, infatti, rappresenta solo l’ultimo esempio di una serie di attacchi rivolti a colpire la presenza della Cina in Pakistan, per cercare di destabilizzare indirettamente il governo di Islamabad. Il rapporto con Pechino, nel corso degli ultimi anni, è diventato di importanza strategica per Islamabad, che ha trovato nella Cina non solo un prezioso interlocutore economico, ma anche una sponda politica con cui controbilanciare il raffreddamento dei rapporti con gli Stati Uniti di Trump. Emblema di questo rapporto è il China Pakistan Economic Corridor, corridoio infrastrutturale dal valore di circa 62 miliardi di dollari, che dovrebbe collegare la provincia cinese dello Xinjiang con il porto di Gwadar e, dunque, con il Mar Arabico. Per la Cina il CPEC rappresenta una parte fondamentale della Belt and Road Initiative.

Colpire gli interessi di Pechino, soprattutto In uno snodo tanto strategico come Gwadar, sembra mettere in luce la volontà dei gruppi militanti di utilizzare la vulnerabilità degli obiettivi cinesi, non solo per fermare la costruzione di un progetto percepito come una nuova forma di espropriazione delle risorse locali ai danni della popolazione balocha, ma soprattutto per mettere in difficoltà le autorità pakistane agli occhi del potente alleato a Pechino.

Sudan: Militari e civili raggiungono l’accordo sulla transizione

Lo scorso 15 maggio, il Consiglio Militare di Transizione (CMT) e le Declaration of Freedom and Change Forces (DFCF), dopo settimane di intense trattative, hanno raggiunto un primo accordo per la definizione del piano di transizione politico che guiderà il Paese alle sue prime elezioni libere e democratiche dopo il lungo regime di Omar al-Bashir. Il documento congiunto prevede la creazione di 4 organismi statali principali: un consiglio di sicurezza, incaricato di supervisionare  il processo di transizione e gestire i dossier di rilevanza strategica nazionale;  un gabinetto di governo, responsabile del potere esecutivo; un’assemblea nazionale transitoria; responsabile del potere legislativo, ed infine un cosiddetto consiglio sovrano, assimilabile ad un ufficio di presidenza collegiale con funzioni di controllo, ratifica delle leggi e relazioni internazionali. Il 67% dei seggi dell’assemblea saranno assegnati ai membri delle DFCF, mentre il restante 33% ad altri partiti politici di opposizione. Il consiglio di sicurezza sarà formato dal presidente del consiglio sovrano e dai ministri della Difesa, degli Esteri, degli Interni  e delle Finanze. Il gabinetto di governo sarà formato interamente da esponenti civili, mentre il consiglio sovrano vedrà la partecipazione di militari e civili. In totale, il periodo di transizione durerà tre anni, alla fine dei quali saranno indette le elezioni.

L’annuncio dell’accordo è arrivato a due giorni di distanza dall’uccisione di 4 civili e di un ufficiale dell’esercito avvenuta durante gli scontri tra Forze Armate e manifestanti a margine dell’ennesima protesta di piazza contro i CMT. Infatti, quest’ultimo, giunta militare che ha destituito il Presidente al-Bashir dopo mesi di rivolte popolari, è accusato di non voler favorire il pieno passaggio di poteri ad autorità civili nel tentativo di mantenere l’influenza ed i privilegi acquisiti da Forze Armate e di sicurezza durante gli anni del regime. Di contro, le DFCF, variegata espressione di alcuni partiti di opposizione, movimenti della società civile, associazioni di categoria e movimenti armati autonomisti, forti del supporto popolare, esigono il ridimensionamento del ruolo dell’apparato militare e di sicurezza.

Nonostante rappresenti un compromesso positivo per i movimenti civili, l’accordo consente ai militari di mantenere una funzione di primo piano nel controllo di alcuni dossier fondamentali, quali Difesa, Sicurezza e relazioni internazionali. Inoltre, la volontà di dialogo tra civili e militari potrebbe essere ostacolata dalla corsa alle principali cariche ministeriali, al momento indefinita ed incerta. Come se non bastasse, sul già complesso processo negoziale continua a pesare la pressione di una società stremata dall’innalzamento dei prezzi dei beni di prima necessità ed attraversata da profonde fratture etnico-tribali che trovano il loro apice nei movimenti armati autonomisti del Darfur e secessionisti del Blue Nile del South Kordofan.

Yemen: gli Houthi si ritirano dal porto di Hodeidah

A quattro anni dall’inizio della guerra in Yemen contro le forze governative guidate dal Presidente Abdel Rabbo Mansur Hadi, il gruppo di ribelli Houthi ha annunciato il ritiro delle proprie forze da tre importanti città portuali. La mossa, compiuta tra l’11 e il 14 maggio, dà il via all’implementazione dell’accordo raggiunto lo scorso 13 dicembre a Stoccolma. Di fatto, gli Houthi hanno effettuato una prima ricollocazione unilaterale dagli unici porti che garantivano loro un accesso al Mar Rosso. Si tratta di Hodeidah, scalo principale del Paese e unico punto di accesso per gli aiuti umanitari; il porto di Saleef, principale ingresso per il grano; ed infine il porto di Ras Isa, scalo fondamentale per il transito di carburante e greggio. In seguito al ridispiegamento delle forze, saranno gestiti dalla Red Sea Ports Corporation sotto la supervisione del Comitato di coordinamento delle Nazioni Unite.

Ad oggi, sul piano militare, il conflitto in Yemen è arenato in una situazione di sostanziale stallo. Le forze governative, riconosciute dalla Comunità Internazionale, controllano gran parte del Paese, mentre gli Houthi sono principalmente asserragliati nella regione nord-ovest affacciata sul Mar Rosso. Nel corso degli anni, le parti hanno tentato più volte, inutilmente, di negoziare un accordo di pace. Dunque, il piano preliminare raggiunto a Stoccolma grazie all’inviato ONU Martin Griffiths, e volto a ricostruire un minimo di fiducia tra le parti, è un tassello necessario affinché i rivali accettino di discutere un piano di pace definitivo.

Nonostante le trattive di dicembre e il recente ritiro da Hodeidah, gli Houthi e le forze guidate da Hadi restano lontani da una vera distensione. Di fatto, tra i ribelli sciiti, in stretti rapporti con l’Iran, e i lealisti, supportati dall’Arabia Saudita e dagli Emirati Arabi Uniti, negli ultimi cinque mesi non sono mancati sporadici scontri, inaspriti dal coinvolgimento degli sponsor regionali dei due schieramenti. In questo senso, anche il ripiegamento degli Houthi da Hodeidah, peraltro ancora parziale, potrebbe essere interrotto da un innalzamento del livello del conflitto su altri fronti interni (province di Taiz, Daleh e Bayda). Allo stesso modo, il recente aumento delle tensioni nel Golfo tra Riyadh, Abu Dhabi e Teheran può facilmente sfogarsi nel teatro yemenita e intaccare il precario equilibrio raggiunto con l’accordo di Stoccolma.

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