Geopolitical Weekly n.243
Cina/Taiwan
Le nuove dichiarazioni rilasciate negli ultimi giorni da parte di Donald Trump sui rapporti con Cina e Taiwan alimentano nuovamente il dibattito riguardo le reali intenzioni del nuovo Presidente degli Stati Uniti. Trump ha infatti affermato come ogni opzione sia sul tavolo delle trattative e come ogni aspetto delle relazioni tra Stati Uniti e Cina sia negoziabile, compreso il pilastro stesso dei rapporti sino-americani, il principio di “una sola Cina”. Secondo tale fondamento politico, esiste una sola Cina, quella rappresentata dalla Repubblica Popolare Cinese, la quale considera invece Taiwan, ufficialmente Repubblica di Cina, come una propria provincia separatista. Gli Stati Uniti non riconoscono ufficialmente Taiwan, anche se di fatto intrattengono con quest’ultima intensi rapporti, come lo stesso Trump ha più volte sottolineato. Immediata è stata la risposta cinese, nella quale viene evidenziato come non si possa assolutamente mettere in discussione il principio di “una sola Cina”, ritenuto in alcun modo negoziabile. Pechino ha inoltre dichiarato che la presenza di una delegazione taiwanese alla cerimonia di insediamento di Trump (evento non insolito) potrebbe minare le relazioni tra i due Paesi. L’ennesimo scambio di battute tra le parti testimonia come il dossier cinese sia uno dei più caldi della nuova Amministrazione, la quale potrebbe decidere di utilizzare la messa in discussione del principio di “una sola Cina” come leva di bargaining sul piano politico per ottenere maggiori concessioni dal Presidente cinese, Xi Jinping, sul terreno economico. Determinanti saranno le prime mosse che il Presidente degli Stati Uniti intraprenderà subito dopo l’insediamento, nell’ottica delle future relazioni tra le due maggiori economie mondiali e degli equilibri geopolitici tanto regionali quanto globali.
Gambia
Il 19 gennaio, il Presidente uscente Yaya Jammeh ha dichiarato lo stato d’emergenza ed ha posticipato sine die la data della consegna dei poteri al suo successore Adama Barrow, vincitore delle elezioni presidenziali dello scorso dicembre. Ciononostante, Adama Barrow ha ufficializzato ugualmente l’inizio del proprio mandato in una cerimonia ufficiale presso l’ambasciata gambiana nella capitale senegalese Dakar.
In seguito alla reticenza di Jammeh nel dimettersi, l’ECOWAS (Economic Community of West Africa States, Comunità Economica Degli Stati dell’Africa Occidentale) ha disposto l’invio di un contingente militare ai confini del Paese, pronto ad intervenire nel caso in degenerazione della situazione di sicurezza. Infatti, il Presidente eletto Barrow è espressione delle forze di opposizione a Jammeh, autocrate che governa il Gambia dal lontano 1994 con piglio personalistico e autoritario. La permanenza al potere di Jammeh potrebbe esacerbare le tensioni tra il fronte lealista e le opposizioni, sfociando in un conflitto interno.
Già nei mesi precedenti, i Presidenti dei Paesi confinanti con il Gambia e la stessa ECOWAS hanno promosso diversi tentativi di negoziato e conciliazione tra le parti i lotta, senza tuttavia ottenere risultati significativi. Infatti, anche se in un primo momento Jammeh aveva accettato l’esito delle urne, successivamente ha ritrattato la decisione di dimettersi invocando presunti brogli durante la campagna elettorale e il conteggio delle schede. Al di là delle ragioni addotte, Jammeh teme di perdere la propria influenza politica e la propria immunità giuridica, elemento che potrebbe esporlo al rischio di processi a causa dei numerosi crimini e abusi svolti nei 22 anni di regime.
Nel prossimo futuro, nel caso in cui Jammeh non dovesse abbandonare la carica presidenziale, sussiste la possibilità di un intervento dell’ECOWAS a sostegno delle opposizioni e di Barrow, con il rischio di una imprevedibile escalation delle violenze. Tuttavia, una simile eventualità potrebbe essere evitata nel caso in cui fosse concessa a Jammeh l’immunità per i reati commessi durante l’esercizio delle sue funzioni in cambio di una transizione immediata e pacifica dei poteri a Barrow.
Iran
Lo scorso 8 gennaio a Teheran è morto l’ex Presidente iraniano Akbar Hashemi Rafsanjani. Oltre alle massime autorità del Paese, alla cerimonia funebre hanno partecipato decine di migliaia di persone, che hanno affollato le strade della capitale per dare l’ultimo saluto ad una delle più importanti personalità politiche della storia iraniana. Tra i leader della rivoluzione del 1979, Presidente dal 1989 al 1997, Rafsanjani rivestiva ancora oggi un ruolo fondamentale nelle vicende del Paese: infatti, ricopriva la carica di Presidente del Consiglio per il Discernimento (organo chiave nel dirimere le questioni tra il Parlamento (Majlis) e il Consiglio dei Guardiani e nel supervisionare il rispetto della Costituzione da parte delle diverse istituzioni) ed era stato eletto come primo candidato nella lista di Teheran all’Assemblea degli Esperti (organo incaricato di nominare la prossima Guida Suprema). L’ex Presidente, inoltre, è stato uno dei fautori, seppur dietro le quinte, dell’accordo sul programma nucleare iraniano raggiunto nel 2015 tra l’Iran e le grandi potenze mondiali, così come decisivo è stato il suo supporto all’attuale Presidente Rouhani, fin dalla sua elezione alla Presidenza della Repubblica Islamica nel 2013. Rafsanjani è stato un elemento equilibratore nel corso dei quattro decenni passati: figura di spicco tra i padri della Rivoluzione ha assunto nel corso degli anni una posizione più pragmatica e riformista rispetto alle forze ultra-tradizionaliste, volta ad aprire l’Iran al dialogo con l’Occidente.
La sua scomparsa, dunque, potrebbe avere concrete ripercussioni sugli equilibri interni alle istituzioni iraniane, soprattutto in vista delle prossime elezioni presidenziali, previste per maggio, e in cui Rouhani potrebbe risultare indebolito. Anche nel caso in cui l’attuale Presidente dovesse essere riconfermato, Rouhani dovrebbe trovare un modo, o una nuova figura, che vada a sostituire Rafsanjani nel ruolo di mediatore con le forze tradizionaliste. Un eventuale interruzione del dialogo con le forze conservatrici o un improvviso indebolimento dello schieramento pragmatista potrebbe spianare la strada al ritorno al potere delle frange ultraconservatrici e, dunque, a una nuova chiusura e ad un inasprimento dell’autoritarismo nella Persia degli ayatollah. Ciò potrebbe influire innanzitutto sulla tenuta dell’accordo sul nucleare iraniano e sulla predisposizione al dialogo con l’occidente, in primis con gli Stati Uniti. In questo, decisivo si rivelerà anche l’atteggiamento che nei fatti adotterà il nuovo Presidente statunitense Donald Trump, il quale ha più volte affermato di voler rivedere l’accordo raggiunto con l’Iran, sul quale si è dichiarato molto critico. Da entrambe le parti potrebbe manifestarsi la volontà di non proseguire sulla strada del dialogo e della collaborazione, vanificando in tal modo gli ingenti sforzi diplomatici compiuti negli ultimi anni.
Israele / Palestina
I Paesi del G20, i Paesi della Lega Araba e i 28 membri dell’Unione Europea si sono riuniti lo scorso 15 Gennaio a Parigi per discutere il futuro del processo di Pace tra Israele e Palestina, per ora congelato. Infatti, dopo il fallimento dei negoziati di pace guidati dagli Stati Uniti nel 2014 e con l’aumento degli insediamenti israeliani nei territori palestinesi avvenuto a partire dal 2008, le relazioni tra il Presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmud Abbas e il Presidente israeliano Benjamin Nathanyau si sono sensibilmente inasprite. La Conferenza di Parigi ha assunto, quindi, il compito di risanare il processo di pace, ostacolato questa volta dalle dichiarazioni del nuovo Presidente americano Donald Trump a favore di Israele. Trump ha infatti annunciato la volontà di voler spostare l’Ambasciata statunitense dalla capitale israeliana, Tel Aviv, a Gerusalemme, in una ipotetica mossa dal profondo significato simbolico. Se questo dovesse accadere, gli sforzi diplomatici fatti in sede ONU nel promuovere la creazione di due Stati, uno israeliano e uno palestinese, potrebbero subire un duro colpo.
La Conferenza si è conclusa con una dichiarazione, non vincolante dal punto di vista giuridico, ma utile a riaffermare l’importanza della creazione dei due Stati e della Risoluzione 2334/2016, passata con 14 voti e con l’astensione degli Stati Uniti. La Risoluzione ha condannato gli insediamenti israeliani nei territori palestinesi, menzionando per la prima volta anche Gerusalemme Est tra i territori occupati.
Dunque, il futuro del complesso processo di pace tra Israele e Palestina, rischia di conoscere una ulteriore evoluzione in concomitanza con i possibili sviluppi della relazione tra Trump e il Presidente israeliano Nethanyau, dopo la stagione dell’amministrazione Obama, quando i rapporti tra Israele e Stati Uniti erano arrivati ai minimi storici.
Libia
Il 17 Gennaio, il Generale Khalifa Haftar, comandante dell’Esercito Nazionale Libico e leader militare del Camera dei Rappresentanti (o governo di Tobruk) ha fatto visita alla portaerei russa “Ammiraglio Kuznetsov”, in quel momento al largo di Tobruk e diretta in Russia dopo la conclusione delle operazioni in Siria. Durante la visita, Haftar ha avuto un colloquio con il Ministro della Difesa russo, Sergei Shoigu, il secondo dopo la visita a Mosca dello scorso novembre.
Il dialogo tra Haftar e il Cremlino potrebbe rispondere a diverse e reciproche necessità. Infatti, il Generale libico e il governo di Tobruk, sostenuti dall’Egitto e dagli Emirati Arabi Uniti ma non riconosciuti dal resto della Comunità Internazionale, potrebbero cercare l’appoggio politico e militare russo per aumentare la propria influenza, il proprio peso e le proprie capacità in Libia. Inoltre, a legare Haftar e Mosca è il contrasto all’islamismo politico radicale e al jihadismo, fenomeni che in Libia continuano ad avere un non trascurabile seguito.
La Russia, da parte sua, potrebbe anelare a una maggiore influenza nel Mediterraneo, sfruttando le divisioni all’interno del fronte europeo e il limitato impegno statunitense nella regione. Gli obbiettivi del Cremlino potrebbero essere molteplici, dall’instaurare una presenza militare nel Golfo della Sirte a recuperare i rapporti economici decaduti dopo l’esautorazione di Gheddafi, soprattutto nei settori dell’industria militare ed energetica.
Un ipotetico ingresso russo nel conflitto interno libico potrebbe ulteriormente complicarne la risoluzione e la stabilizzazione, nonché modificare i rapporti di forza tra il Governo di Tobruk e il governo di Tripoli. Quest’ultimo, ad oggi si trova costretto ad affrontare l’ennesima crisi della sua breve storia a causa delle lacune di legittimità e sostegno da parte del Premier Serraj e delle turbolenze politiche animate dalle milizie ad egli contrarie, comprese quelle attive nella capitale Tripoli.
Polonia
Lo scorso 8 gennaio, la 3° Brigata Corazzata della 4° Divisione di Fanteria dell’Esercito statunitense, conosciuta anche con il nome di “Iron Brigade”, unità composta da 4.000 soldati e da un equipaggiamento di circa 2.700 pezzi (tra cui carri armati, veicoli blindati, artiglieria, veicoli da combattimento corazzati, camion e container) è arrivata nella località tedesca di Bremerhaven. Il successivo 14 gennaio, la Iron Brigate si è ufficialmente insediata nella base di Zagan, in Polonia, come parte di “Atlantic Resolve”, la missione volta al rafforzamento della presenza militare statunitense in Europa. Le truppe si distribuiranno sia lungo il territorio polacco, principalmente nelle basi polacche di Zagan, Boleslawiec, Swietoszow and Skwierzyna, sia nel resto dell’Europa Orientale (Estonia, Lettonia, Lituania, Bulgaria e Ungheria).
Atlantic Resolve si inserisce nella più ampia European Reassurance Initiative (ERI), iniziativa di Washington nata nel 2015 sia come forma di rassicurazione nei confronti dei Paesi del fronte orientale della NATO sia come misura di deterrenza nei confronti dell’aggressività militare russa in Crimea, Donbas e lungo tutto il fianco est dell’Alleanza Atlantica. In questo senso, l’ERI combina la presenza fisica di un contingente statunitense alle attività di addestramento e formazione delle Forze Armate dei singoli Paesi.
Serbia / Kosovo
Lo scorso 14 gennaio le autorità kosovare hanno bloccato un treno partito da Belgrado e diretto a Mitrovica, nella parte settentrionale del Paese a causa della sua livrea che ricalcava i colori della bandiera serba e riportava la scritta: “Il Kosovo è serbo”. Il governo di Priština non ha esitato a condannare il gesto, considerandolo una provocazione deliberata e una violazione della propria sovranità nazionale. Di contro, il Presidente serbo Tomislav Nikolic ha sottolineato l’inopportunità del fermo da parte del governo kosovaro ed ha affermato la prontezza del governo di Belgrado ad adottare tutte le misure necessarie per la tutela e la difesa dei cittadini serbi residenti in Kosovo, presenti per la maggior parte nelle regioni settentrionali.
Il Primo Ministro del Kosovo, Isa Mustafa, ha dichiarato di temere eventuali iniziative serbe che possano ricalcare la strategia utilizzata dalla Federazione Russa in Crimea, dove, nel 2014, in seguito ad una protesta filo-russa in antitesi ad Euromaidan, reparti militari del Cremlino si sono impossessati delle infrastrutture critiche e delle istituzioni al fine di facilitare lo svolgimento di un referendum popolare che ha sancito l’annessione della penisola al territorio russo.
È importante sottolineare come attualmente in Kosovo siano presenti sia la missione NATO KFOR (Kosovo Force) che la missione europea EULEX aventi lo scopo di compito di promuovere e garantire la stabilità e la sicurezza nel Paese. Proprio tale presenza costituisce per il governo kosovaro un fondamentale elemento di deterrenza nei confronti di eventuali azioni aggressive da parte della Serbia.
L’incidente del treno ha interrotto una stagione politica decisamente costruttiva per i rapporti serbo-kosovari, culminata nell’accordo del 2013 riguardante lo status delle quattro municipalità settentrionali a maggioranza serba e i principi generali sulla normalizzazione delle relazioni tra Serbia e Kosovo. In ogni caso, gli eventi di questi giorni testimoniano come, a distanza di quasi venti anni dalla fine della guerra, gli attriti tra Serbia e Kosovo siano ancora elevati, rappresentando un focolaio di tensione molto delicato per la stabilità e la sicurezza dell’intera regione. Inoltre l’atteggiamento del governo serbo, ancora poco incline al dialogo e all’instaurazione di un rapporto reciprocamente costruttivo con Pristina, potrebbe rallentare la procedura d’ingresso di Belgrado nell’UE, almeno fino a quando i rapporti tra le parti non inizieranno a distendersi e a normalizzarsi in maniera stabile.