Geopolitical Weekly n.119
Colombia
Il 1 luglio, il leader del gruppo ribelle colombiano FARC (Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia), Ivan Marquez, ha annunciato ufficialmente i progressi fatti nel negoziato con le autorità colombiane dopo l’ultimo incontro ufficiale avvenuto a L’Avana, alla fine di maggio. Le dichiarazioni di Marquez sull’esito dell’incontro sono state accompagnate anche da affermazioni di distensione riguardo i rapporti tra le FARC e un altro gruppo di ribelli armati colombiani, l’ELN (Esercito di Liberazione Nazionale), dopo un passato di scontri ideologici, che hanno fomentato le tensioni già esistenti. I rappresentanti dell’ELN non hanno partecipato all’ultimo incontro di Cuba, ma i suoi leader hanno dichiarato il loro appoggio alla negoziazione. Entrambi i gruppi, sorti in Colombia nel 1964, sono nati come rappresentanza comunista dei sostenitori dell’autorganizzazione agraria contadina nel Paese, contrastata dal governo colombiano, poiché vista come possibile pericolo per l’integrità della Nazione. L’ELN, però, secondo gruppo insurrezionale armato del Paese per numero di affiliati (2.200-3.000 membri contro i circa 7.000 delle FARC), è meno ideologico e più violento. Il gruppo segue un approccio più pragmatico, improntato alla liberazione del Paese da ogni tipo di finanziamento straniero, principalmente americano. I risultati raggiunti sono un passo concreto per il Paese, che, dal 1964, è teatro di una lunga guerra civile tra l’Esercito regolare e vari gruppi ribelli. I punti della negoziazione tra le parti sono stati sei: la riforma agraria, il riconoscimento dello status di policy maker a tutti i gruppi e movimenti colombiani, il disarmo dei gruppi ribelli, il controllo del narcotraffico (in cui i gruppi armati sono pesantemente coinvolti), i diritti delle vittime e l’attuazione della pace nel Paese. L’accordo sulla riforma della terra e sulla partecipazione politica, sono stati i temi chiave dei negoziati. Secondo l’accordo, le terre non utilizzate saranno destinate ai contadini e il governo si impegnerà ad erogare prestiti e consegnare infrastrutture a vantaggio degli agricoltori. Questo sviluppo, insieme al cambio di atteggiamento dell’establishment, che ora esplicitamente accoglie la partecipazione alle scelte politiche da parte di FARC ed ELN, è foriero di un graduale avvicinamento e di una distensione fra le parti. Ogni tipo di accordo raggiunto sarà oggetto, però, secondo Bogotá, di un referendum nazionale.
Egitto
Il Capo dell’Esercito egiziano, Generale Abdul Fatah al-Sisi, con un discorso alla nazione tenuto nella serata del 3 luglio alla televisione di Stato, ha destituito Mohammed Morsi dalla presidenza dell’Egitto. Sospesa la Costituzione in vista di nuove elezioni, Sisi ha indicato Adly Mahmud Mansour, giudice e capo della Suprema Corte Costituzionale, come leader ad interim del governo tecnico che governerà il Paese durante il periodo di transizione.
Morsi è stato posto agli arresti domiciliari e altri 300 membri della Fratellanza, tra cui il leader Mohamed al-Badie, sono stati arrestati nelle ore successive.
L’intervento delle Forze Armate era stato annunciato nei giorni scorsi, in seguito alle proteste organizzate dalle opposizioni il 30 giugno, in occasione dell’anniversario dell’elezione di Morsi. Alle manifestazioni, infatti, avevano fatto seguito duri scontri tra oppositori e sostenitori dell’ormai ex Presidente, di fronte ai quali l’Esercito aveva dato al governo un ultimatum di 48 ore per ripristinare le condizioni di sicurezza necessarie a superare la crisi.
Controversa è stata la reazione della comunità internazionale. Se Stati Uniti e Unione Europea hanno espresso con cautela la propria preoccupazione per quello che, di fatto, è stato l’esautoramento da parte dei militari di un Presidente uscito vincitore da libere elezioni, i Paesi del Golfo – Arabia Saudita, Emirati Arabi e Qatar in particolare – hanno invece porto le proprie congratulazione al neo Presidente Mansour ed elogiato l’intervento delle Forze Armate a tutela della volontà popolare.
Benché il Generale Sisi avesse dichiarato la volontà delle Forze Armate di prendere le distanze dalla vita politica nazionale, l’Esercito ancora una volta ha rappresentato l’ago della bilancia per l’equilibrio istituzionale del Paese. Saranno, infatti, i militari a farsi garanti del nuovo processo di transizione, come già era accaduto nel febbraio 2011, sull’onda delle rivoluzioni che avevano portato alla destituzione dell’ex dittatore Hosni Mubarak, quando era stato il Consiglio militare a governare il Paese alle successive elezioni.
Mali
Lo scorso 1 luglio, le Nazioni Unite hanno iniziato la loro missione di stabilizzazione in Mali, che prende il nome di MINUSMA (Mission Multidimensionnelle Intégrée des Nations Unies pour la Stabilisation au Mali) e conta la presenza di 12.000 uomini, è sotto il comando ruandese del Generale Jean Bosco Kazura. MINUSMA al pari di MONUSCO, la missione ONU di Stabilizzazione nella Repubblica Democratica del Congo, dispone di un mandato estensivo in materia di poteri e disposizioni di law enforcement. Quest’ultimo aspetto le permette di intraprendere azioni dirette contro i miliziani jihadisti nel nord del Mali allo scopo di migliorare la situazione di sicurezza nella regione.
MINUSMA integra quei contingenti militari che, nel recente passato, hanno combattuto le forze qaediste nel nord del Mali: la missione dell’Unione Africana AFISMA, 1.000 uomini parte del contingente francese dell’operazione “Serval”, 1.800 uomini del contingente ciadiano. L’attuale instabilità politica e la precarietà del quadro di sicurezza maliano rendono indispensabile la presenza di una forza militare internazionale sul territorio maliano. Il pessimo stato dell’Esercito nazionale e la condizione embrionale del processo di pace tra il Governo centrale e i movimenti tuareg dell’MNLA (Movimento Nazionale per la Liberazione dell’Azawad) e del MIA (Movimento Islamico dell’Azawad, costola di Ansar al Din che ha deciso di abbandonare la causa jihadista) non consentirebbero al Paese di gestire da solo le sue criticità interne e lo esporrebbero di nuovo, in caso di ritiro totale degli aiuti, ad una nuova offensiva delle forze jihadiste.
Pakistan
Nella notte del 2 luglio un drone USA ha colpito un compound nel villaggio di Dande Darpa Khel, uccidendo diciassette militanti. Il raid, nei pressi di Miram Shah, capoluogo del Nord Waziristan – area tribale parte delle Federally Administered Tribal Areas (FATA) al confine con l’Afghanistan – avrebbe ucciso alcuni militanti del Network Haqqani, gruppo predominante dell’area e parte dell’insurrezione afghana. La presenza della rete Haqqani in Pakistan è stata più volte causa di tensione tra Washington e Islamabad. Nonostante dal 2008 nove leader del gruppo siano ricercati dagli Stati Uniti per noti legami con al-Qaeda, l’intelligence pakistana (l’ISI) e le Forze Armate pakistane non intervengono in modo decisivo contro il gruppo. La sua inattività all’interno del Pakistan e la partecipazione all’insorgenza afghana, rende gli Haqqani un interlocutore privilegiato per l’ISI nel contesto della ricerca di un canale negoziale con i Talebani della Shura di Quetta e di un compromesso politico che possa gettare le basi per la futura stabilità del vicino Afghanistan.
L’episodio sarebbe il terzo raid condotto dagli Stati Uniti in Pakistan dall’elezione di Nawaz Sharif alla guida del governo di Islamabad. Il Primo Ministro aveva già nei mesi scorsi dichiarato di voler interrompere qualsiasi tacito accordo con l’Amministrazione statunitense per l’impiego dei droni in territorio pakistano.