Buhari e la sfida di Boko Haram
Africa

Buhari e la sfida di Boko Haram

Di Giorgia Pilar Giorgi
29.06.2015

Le elezioni presidenziali che si sono tenute il 28 marzo in Nigeria sono state vinte da Muhammadu Buhari, ex Generale musulmano di 72 anni originario dello Stato di Katsina e leader del partito politico “Congresso di tutti i Progressisti” (APC). Con 14 milioni di voti, egli ha sconfitto al primo turno il Presidente uscente Goodluck Jonathan, cristiano e leader del “Partito Democratico Popolare”.

Buhari è una delle figure più autorevoli della Nigeria: dopo aver partecipato a un colpo di Stato nel dicembre del 1983, ha mantenuto il potere fino al 1985 e dopo essersi presentato senza successo alle presidenziali del 2003, del 2007 e del 2011, ha ottenuto una vittoria storica nel 2015. Infatti, è la prima volta che in Nigeria a vincere le elezioni è un candidato dell’opposizione.

Inoltre, la fede religiosa, l’appartenenza etnica (Hausa-Fulani) e la provenienza di Buhari (Stato federale di Katsina, nel nord del Paese) lo rendono il candidato ideale per la mediazione con quelle componenti della popolazione settentrionale che avevano osteggiato la Presidenza di Jonathan. Nel suo ambizioso programma di governo, Buhari ha indicato come prioritaria la lotta alla corruzione dilagante nel Paese e il contrasto all’insorgenza jihadista di Boko Haram (“L’educazione occidentale è peccato” in lingua Hausa), guadagnandosi così il consenso dell’elettorato deluso dalle inefficienze dell’amministrazione Jonathan.

Nella lotta contro Boko Haram, Buhari ha sottolineato l’importanza di una strategia incentrata su due fattori: l’impiego razionale ed efficiente della forza militare e l’inizio di una campagna educativa e sociale per migliorare le condizioni di vita della popolazione del nord-est nigeriano, principale bacino di reclutamento per il gruppo jihadista.

Innanzitutto, tra le intenzioni del neo-Presidente c’è la volontà di incrementare il numero delle truppe impegnate nelle operazioni contro-terrorismo nelle regioni nord-orientali nigeriane (Yobe, Borno, Adamawa) e di migliorare la logistica delle Forze Armate. Infatti, uno dei maggiori problemi ravvisati sinora dal comparto militare nigeriano è stata la scarsa disponibilità di mezzi e la difficoltà nel gestire manovre prolungate lontano dalle principali basi nazionali. Tale criticità è resa ancor più profonda dal teatro operativo, una regione estesa quanto il Belgio e priva di adeguate vie di comunicazione nonché caratterizzata dall’alternanza di zone aride, impervi altopiani e foreste impenetrabili, come quella di Sambisa, una delle principali roccaforti bokoharamiste.

Il nuovo Capo di Stato ha inoltre predisposto un piano di rinnovamento militare del costo di circa 30 milioni di dollari che prevede, tra le altre cose, il trasferimento quartier generale del comando anti-terrorismo nigeriano dalla capitale Abuja, a Maiduguri, nello Stato del Borno, la principale città nel cuore della rivolta bokoharamista. Una decisione simbolicamente importante ma anche rischiosa, in quanto potrebbe esporre il vertice dell’apparato militare nigeriano agli attacchi e agli attentati suicidi di Boko Haram.

Oltre ai problemi di natura strettamente tecnica (addestramento ed equipaggiamento), le Forze Armate nigeriane lamentano pesanti carenze di tipo disciplinare e comportamentale. I soldati impiegati nelle remote regioni nord-orientali si sono spesso macchiati di atteggiamenti non professionali, come saccheggi, stupri, arresti ed esecuzioni sommarie, distruzione indiscriminata di interi villaggi. In questo modo, la popolazione locale ha ulteriormente alienato il proprio sostegno dal governo centrale ed ha percepito le Forze Armate alla stregue di occupanti più che di liberatori.

L’alienazione del sostegno popolare rappresenta probabilmente la maggiore vulnerabilità per la strategia di Buhari e, nello stesso tempo, la maggiore risorsa per Boko Haram. Infatti, il gruppo jihadista non costituisce soltanto un’organizzazione eversiva, bensì un vero e proprio para-Stato che controlla e gestisce una larga porzione di territorio nella regione del Lago Ciad, che amministra la giustizia e fornisce assistenza sociale, educazione e lavoro. Boko Haram ha riempito il vuoto lasciato dall’assenza del governo e ha costruito un impianto di potere solido e accettato da una parte consistente della popolazione delle regioni in questione. In questo senso, molti dei miliziani bokoharamisti vedono nel jihad anti-occidentale la sola lotta contro la discriminazione e verso una vita più dignitosa per essi e per le proprie famiglie. Dunque, Boko Haram effettua una vera e propria “speculazione” economico-sociale e culturale.

Inoltre, la dimensione trans-nazionale raggiunta dal gruppo, che opera costantemente in Niger, Ciad, Camerun e Nigeria, ha costretto i governi di N’Djamena, Abuja, Niamey e Douala ad organizzare un’azione militare e politica concertata. Nella fattispecie, tale azione si è concretizzata con l’istituzione, alla fine del 2014, della Multinational Joint Task Force (MNJTF), la forza militare congiunta per la quale Nigeria, Ciad, Camerun, Niger e Benin dispiegheranno 8.700 tra militari e poliziotti.

Tuttavia, la gestione, il comando ed il controllo della MNJTF ha presentato, sin dalla sua origine, molteplici difficoltà di tipo finanziario, logistico e politico. Innanzitutto, i governi della regione hanno chiesto alla Comunità Internazionale di contribuire economicamente allo sforzo militare, asserendo, a ragione, che la minaccia bokoharamista è un problema globale che necessita di una risposta globale. In realtà, tale richiesta di “donazioni” nasconde le difficoltà di bilancio dei Paesi in questione, che necessitano del supporto straniero per evitare di svenare le casse statali e rischiare di ridurre le già esigue risorse destinate al funzionamento della burocrazia e dello scarno sistema di welfare. Allo stesso modo, le truppe di Ciad, Nigeria, Camerun, Niger e Benin lamentano croniche difficoltà nel comparto logistico, dell’intelligence e delle Forze Speciali. Per questa ragione, i governi francese e statunitense si sono offerti di aiutare la MNJTF con supporto logistico, addestrativo ed informativo.

Infine, sussiste un problema di tipo politico. Infatti, Nigeria e Ciad, le due maggiori potenze della regione, hanno a lungo ed animatamente dibattuto su a chi avrebbe dovuto spettare il comando della MNJTF. Tale acredine non è solo una questione di prestigio, ma soprattutto di comando e controllo di operazioni che si svolgono sul territorio di Stati terzi e di monitoraggio e smistamento dei flussi finanziari provenienti dai donatori. Alla fine, Abuja e N’Djamena sembrano aver trovato un accordo di massima secondo il quale alla Nigeria andrà il comando della MNJTF, mentre la capitale ciadiana ospiterà fisicamente le strutture dalle quali l’operazione sarà coordinata. La guida della missione sarà dunque nigeriana, nella persona del Generale Tukur Buratai.

Nonostante i buoni propositi e le indicazioni offerte dal nuovo Presidente, la situazione di crisi nella regione del Lago Ciad sembra lontana da una risoluzione definitiva. Inoltre, il processo di ammodernamento dell’Esercito e di epurazione di quelli elementi ritenuti poco professionali o contrari alla linea del governo potrebbe provocare una crisi di rigetto nelle Forze Armate. In questo frangente, non è da escludere che alcuni elementi dell’Esercito, magari in rotta con le autorità centrali o contrari all’uso della forza contro i gruppi etnico-tribali di provenienza, abbandonino la divisa e rimpolpino i ranghi di Boko Haram o di altre organizzazioni eversive e di ispirazione jihadista. Il rischio è quello di creare le basi per un’alleanza tra jihadisti ed ex militari, come accaduto con l’esercito Iracheno e lo Stato Islamico.