ATLAS Risultati e limiti della conferenza di Berlino

ATLAS Risultati e limiti della conferenza di Berlino

Di Veronica Conti e Emanuele Oddi
23.01.2020

Iraq: sarebbe il turcomanno al-Salbi il nuovo leader di Daesh

Secondo fonti d’intelligence, Amir Mohammed Abdul Rahman al-Mawli al-Salbi sembrerebbe essere il successore di Al-Baghdadi, leader di Daesh morto nel raid americano di Barisha il 27 ottobre scorso. Il miliziano è conosciuto anche con altri nomi, tra i quali Haji Abdullah, Abdullah Qardash, Hajji Abdullah al-Afari, e anche soprannomi traducibili come “Il professore” e “Il distruttore”.

Al-Salbi è nato nel nord dell’Iraq, a Tal Afar, città non molto distante da Mosul. È noto per essere tra i fondatori del gruppo terroristico e per essere stato supervisore delle operazioni sui fronti del Maghreb, del Sahel e dell’Afghanistan. Essendo stato detenuto a Camp Bucca nel 2004, è probabile che abbia conosciuto lì al-Baghdadi. In questo senso, la scelta del Consiglio della Shura confermerebbe che Daesh resta essenzialmente un gruppo iracheno, nonostante l’espansione a livello globale dell’ultimo lustro.

Tuttavia, la scelta di al-Salbi ha un profilo di novità rilevante, poiché è turcomanno e non arabo come tutti i precedenti leader del gruppo. Appaiono quindi due possibili linee di riflessione. Da un lato, ciò potrebbe riflettere una maggiore flessibilità di Daesh a livello organizzativo, anche in funzione dell’espansione registrata negli ultimi sei anni, in cui ha travalicato i confini del Medio Oriente e del mondo arabo. Dall’altro lato, la scelta di al-Salbi potrebbe essere legata essenzialmente a questioni di “merito” a fronte anche della vicinanza con al-Bagdadi, di cui è stato a lungo consigliere. In passato, infatti, Daesh ne aveva negato pubblicamente l’appartenenza all’etnia turcomanna. D’altronde, un non arabo ai vertici di Daesh non rispetterebbe quell’importante simbolismo che vuole il “Califfo” come discendente della tribù di Maometto, e dunque arabo. Simbolismo su cui finora si è fondata parte rilevante del carisma e della credibilità del leader di Daesh.

Libano: formato un governo di tecnici, ma a trazione Hezbollah

Il 21 gennaio in Libano è stata annunciata la formazione di un nuovo governo, che sarà guidato da Hassan Diab, 60enne professore dell’Università Americana di Beirut. L’esecutivo è composto da 20 ministri, per la maggior parte tecnici e figure di alto profilo, non direttamente collegate al mondo politico.

Questo governo tecnico chiude formalmente la crisi apertasi con le manifestazioni in corso da ottobre 2019, contro la corruzione e la situazione economica disastrosa. Il debito libanese, infatti, è uno dei più alti al mondo, pari al 150% del PIL, e il settore bancario è prossimo al collasso. Le manifestazioni avevano portato alle dimissioni dell’ex Primo Ministro Saad Hariri, leader del Movimento Futuro. La scelta di dar vita a un esecutivo tecnico quindi è un disperato tentativo di calmare la Piazza e di stimolare quegli investimenti di capitale estero di cui il Libano necessita.

Nonostante la maschera super partes, il nuovo governo è in realtà frutto di un accordo politico raggiunto esclusivamente tra i partiti Hezbollah, Amal e il Movimento Patriottico Libero. Dunque, a differenza del precedente esecutivo di unità nazionale, in cui coesistevano differenti anime ed era appoggiato dall’intero spettro dei partiti libanesi, il nuovo governo appare sbilanciato sul Partito di Dio e i suoi alleati.

Il Governo Diab appare quindi strutturalmente fragile alla luce delle crescenti tensioni regionali che contrappongono l’Iran, principale alleato di Hezbollah, alle monarchie sunnite del Golfo e agli Stati Uniti. In particolare, la sovraesposizione del Partito di Dio nell’esecutivo potrebbe essere addotta da Washington come ragione per limitare gli investimenti e gli aiuti economici al Paese, rendendo così difficilmente sostenibile la posizione del partito-movimento sciita.

Libia: risultati e limiti della conferenza di Berlino

Domenica 19 gennaio si è tenuta a Berlino una conferenza internazionale sulla Libia che ha messo attorno allo stesso tavolo gli attori internazionali coinvolti nel conflitto libico. Presenti, ma non protagonisti di negoziati diretti, i due esponenti delle fazioni libiche, Fayez al-Serraj, guida del Governo di Unità Nazionale (GUN) di stanza a Tripoli, e il Generale Khalifa Haftar, capo dell’Esercito Nazionale Libico (ENL) con base nell’Est del Paese. Si tratta del primo summit sulla Libia dall’aprile 2019, quando si è riaccesa la guerra civile con l’offensiva di Haftar su Tripoli.

Il frutto dell’incontro è stato un documento di 55 punti in cui si chiede alle parti coinvolte di smantellare le milizie e osservare l’embargo ONU sulle armi, riprendere il dialogo politico per riunificare le istituzioni e rinnovare in senso più inclusivo il GUN, ma soprattutto di rispettare il cessate il fuoco in vigore dal 12 gennaio. A monitorare la tregua è chiamato un comitato militare congiunto appena formato, con 5 membri nominati da al-Serraj e altrettanti da Haftar.

L’efficacia del documento sarà valutata nella prossima conferenza, seguito di Berlino, prevista già a febbraio. Ad oggi tuttavia non è stato predisposto alcun meccanismo sanzionatorio per chi violerà il cessate il fuoco o l’embargo. Di fatto, le potenze esterne continuano a essere libere di fornire truppe e armi ai rispettivi alleati, perseguendo interessi che travalicano i confini libici e richiamano equilibri geopolitici macroregionali.

In questo senso, il risultato più evidente della conferenza è la definitiva legittimazione di un attore come Haftar che, nel contesto libico, ha usato in modo spregiudicato la forza per avvicinarsi ai suoi obiettivi politici. Un precedente potenzialmente pericoloso, che può indebolire strutturalmente gli sforzi diplomatici e portare a una riaccensione del conflitto in tempi brevi. Non stupisce quindi che il cessate il fuoco sia già stato violato più volte negli ultimi giorni e che Haftar continui a bloccare quattro quinti dei giacimenti di petrolio del Paese, sottolineando l’attuale assenza di una volontà comune per una soluzione politica della crisi.

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