ATLAS Myanmar: Il parlamento boccia le proposte di riforma costituzionale
Turchia, il nuovo partito Deva sfida la leadership di Erdogan
Mercoledì 11 marzo Ali Babacan, ex Ministro dell’Economia, ha presentato ad Ankara il nuovo partito Demokrasi ve Atılım Partisi (Deva, Partito democratico e progressista), di stampo liberale. Deva, sigla che in turco significa “rimedio”, mira a promuovere maggiori libertà civili e presenta un orientamento filoccidentale. Ali Babacan era stato tra i fondatori dell’AKP (Partito Giustizia e Sviluppo), il partito al governo dal 2002 che, sotto la leadership dell’attuale Presidente Recep Tayyip Erdogan, ha accentuato l’impostazione conservatrice e di matrice islamista presente già dalle origini. Una parabola che ha allontanato l’AKP da quella sintesi tra democrazia compiuta e Islam che rappresentava la promessa originaria del partito, e che ha suscitato negli anni malumori interni crescenti.
Su questo sfondo, la nascita di un nuovo partito, fondato da ex esponenti dell’AKP, rappresenta una possibile minaccia per il mantenimento dell’ampia maggioranza da parte di Erdogan e manifesta anche l’esigenza di un cambio di passo di una parte del Paese.
Infatti, l’obiettivo principale annunciato dal leader di Deva è riformare profondamente la Turchia. In particolare, Babacan ha indicato di voler mettere in discussione tutte le principali politiche portate avanti da Erdogan, a partire dalla forma di governo del Paese e delle libertà civili. Dopo la riforma del 2017, Ankara si presenta come una Repubblica presidenziale, mentre Babacan intende rimettere al centro del sistema il Parlamento, ridurre i poteri di governo e capo dello Stato, e dare più garanzie per la libertà di espressione e l’indipendenza del sistema giudiziario. A rimarcare la distanza dalle politiche di Erdogan figura anche la posizione di Babacan verso la minoranza curda, che l’ex Ministro non ha esitato a definire come eccessivamente discriminata.
Arabia Saudita, nuovi arresti tra i membri della famiglia reale
Il 6 febbraio 2020 a Riyadh sono stati arrestati alcuni membri della famiglia reale dei Saud. L’accusa è di complotto contro l’anziano e malato Re Salman e contro suo figlio, il 34enne Principe ereditario Mohammed bin Salman, che de facto detiene il potere nel Paese.
Tra gli arrestati figurano due rivali di bin Salman nella successione al trono. Il primo è il 78enne Principe Ahmed bin Abdulaziz, fratello del Re, nonché il più giovane tra i tre figli tuttora in vita del fondatore della moderna Arabia Saudita, Abdulaziz ibn Saud. Il secondo è il Principe Mohammed Bin Nayef, 60enne ex Ministro dell’Interno, partner prediletto dell’intelligence statunitense nel Paese e, fino all’ascesa del cugino bin Salman nel 2017, erede designato al trono di Riyadh. Il figlio del Re non è nuovo a questo tipo di azioni. Già nel 2017 aveva arbitrariamente detenuto, all’intero del Ritz – Carlton hotel di Riyadh, diversi Principi, Ministri e uomini d’affari con l’accusa di corruzione. Come quello del 2017, il recente giro di vite evidenzia ancor una volta la volontà di bin Salman di estromettere, anche con la forza, i suoi rivali e oppositori dalla corsa al trono.
Con quest’azione, l’erede al trono ha ribadito la sua volontà di gestire il processo di successione con larghissima autonomia e di non voler cercare il consenso di altri rami della famiglia. Neanche dei cosiddetti “sette Sudairi”, eredi diretti di ibn Saud accomunati dalla stessa madre, che negli ultimi decenni hanno agito in modo organizzato per orientare a loro favore la successione. Inoltre, a oggi l’Arabia Saudita ha conosciuto solo successioni al trono tra fratelli. Il passaggio Salman-bin Salman romperebbe questa consuetudine, configurandosi come un salto generazionale che escluderebbe dalla successione l’ultimo dei Sudairi, ovvero Ahmed, e il principale candidato del clan della generazione successiva, vale a dire bin Nayef.
Ad ogni modo, l’evoluzione della lotta per la successione dipenderà anche dalla salute di Re Salman. Se il Re dovesse rimanere in carica nei prossimi anni, allora non si possono escludere nuove azioni di questo tipo da parte di bin Salman, volte ridurre lo spazio di manovra dei Sudairi e di altri rivali, in attesa del passaggio di potere.
Myanmar: Il parlamento boccia le proposte di riforma costituzionale
Questa settimana il parlamento birmano ha avviato le votazioni agli emendamenti costituzionali proposti dal Comitato per la Revisione della Carta, organo formato nel febbraio 2019 e incaricato di valutare possibili modifiche alla Costituzione del 2008 per ridurre l’influenza delle Forze Armate (Tatmandaw) sul sistema politico-istituzionale del Paese. Nei primi giorni di votazione, che proseguirà fino al 20 marzo, sono stati bocciati 12 dei 14 emendamenti proposti. Tra questi, non hanno passato l’approvazione del parlamento le due proposte fortemente supportate dalla National League for Democracy (NLD). Il primo proponeva di ridurre nell’arco di 15 anni i seggi in Parlamento riservati ai militari e di eliminare la definizione del capo di Stato Maggiore della Deifesa come Comandante Supremo di tutte le Forze Armate. Il secondo riguardava la possibilità di accedere alle elezioni per la presidenza anche dei cittadini con parenti di nazionalità straniera. Questo divieto, previsto dall’articolo 59(f) della Costituzione, impedisce alla leader della National League for Democracy, Aung San Suu Kyi, di diventare Presidente a causa della cittadinanza straniera dei suoi figli (in questo caso, soltanto 393 parlamentari hanno votato a favore).
Nonostante i due emendamenti avessero ottenuto la maggioranza numerica dei voti a favore (rispettivamente 404 e 393 “sì” su un totale di 633 parlamentari) entrambi non hanno raggiunto la soglia del 75% prevista dalla procedura di revisione costituzionale. A pesare sul voto è stata proprio a componente militare dell’organo legislativo, che detiene il 25% dei seggi e può esercitare un potere di veto de facto e l’alleanza con l’Union Solidarity and Development Party (USDP), principale partito d’opposizione e con forti legami con i vertici militari.
USDP e militari, fuoriusciti anzitempo dal Comitato per l’Emendamento, hanno in questi mesi tentato di arrecare un danno di immagine alla NLD, denunciandola come gruppo troppo intransigente e refrattario al compromesso. L’avvicinamento delle elezioni generali previste per novembre è alla base di queste schermaglie. L’apparato militare, infatti, sembra voler arrivare all’appuntamento elettorale ancora con un forte grip sul Paese. Cinque anni fa, la NLD si era assicurata circa l’80% dei seggi in palio. Il partito resta l’attuale favorito, ma ha incontrato numerose criticità nella corrente legislatura, soprattutto nella gestione del rapporto con i vertici del Tatmandaw. Ai vertici dell’agenda era stato posto il processo di pace interno con i gruppi armati su base etnica presenti nel Paese, ma la trattativa basata sulla Union Peace Conference è ancora lontana dal fornire un accordo multilaterale inclusivo fra le numerose etnie. Il processo, tuttavia, è stato messo in dubbio dall’autonomia con cui i militari, che di fatto controllano la politica di sicurezza, hanno continuato le operazioni militari contro i gruppi di insorgenza, ma i piccoli successi riportati dalla NLD potrebbero anche non pagare sul piano elettorale, in quanto non considerati prioritari dalla maggioranza della popolazione. Un eventuale ridimensionamento dei consensi potrebbe complicare ulteriormente la gestione dello Stato da parte del prossimo governo civile, lasciando la porta aperta per un rafforzamento del potere dell’influenza dei militari all’interno del sistema.
Nigeria: destituito uno dei più importanti leader tradizionali del nord
Il 9 marzo 2020, Muhammad Sanusi II, Emiro dello Stato federale di Kano, nel nord del Paese, è stato sollevato dal suo incarico con l’accusa d’insubordinazione nei confronti delle autorità centrali. In seguito, seguendo un’antica legge coloniale, Sanusi è stato costretto a lasciare la regione.
La sua destituzione giunge al termine di un lungo scontro politico con il Governatore di Kano, Abdullahi Ganduje. La presenza simultanea di queste due figure è prevista dalla costituzione nigeriana e spesso i due leader entrano in conflitto.
Infatti, sebbene non abbia alcun potere formale, l’Emiro di Kano ricopre il ruolo di custode della tradizione locale ed è la seconda autorità religiosa islamica nel Paese, subordinata solo al Sultano di Sokoto. Questi aspetti, quindi, fanno dell’Emiro una figura molto influente e capace di orientare il consenso della popolazione.
In quest’ottica, la scelta di Sanusi II di schierarsi contro la ricandidatura di Ganduje nel 2020 , unita alle sue idee riformiste in materia economica e religiosa, ne hanno causato la rimozione dal suo prestigioso ruolo. La nomina del suo successore, Ado Bayero II, figlio dell’Emiro che aveva preceduto Sanusi, è avvenuta rapidamente, ma non senza tensioni interne al clan Sullubawa di etnia Fulani, che fin dal lontano XIX secolo esprime l’Emiro di Kano.
Lo scontro tra Senusi e Ganduje rischia di peggiorare ulteriormente i già fragili equilibri etnici e politici nel nord della Nigeria, dove le autorità tradizionali e quelle costituzionali spesso rivaleggiano per il controllo effettivo della sfera pubblica e dove i diversi popoli vivono relazioni conflittuali a causa della competizione per le risorse. Nello specifico, particolare preoccupazione desta l’agitazione della componente semi-nomadica della popolazione Fulani, composta da pastori in crescente conflitto sia con gli agricoltori di altre etnie per l’uso di suolo ed acqua sia con i confratelli sedentari. Questi ultimi sono spesso accusati dai pastori di agire in maniera autoreferenziale ed egoistica, tralasciando i bisogni e le agende politiche di tutto il popolo Fulani.