Alle origini dello Stato Islamico in Congo
Africa

Alle origini dello Stato Islamico in Congo

Di Emanuele Oddi
04.03.2020

Nella Repubblica Democratica del Congo (RDC) operano, da oltre vent’anni, numerosi gruppi armati non statali, a oggi circa 130, attivi in differenti provincie del Paese il Katanga, il Tanganyika, il Kasai ed il sud Kivu. Tra queste milizie, il gruppo jihadista Allied Democratic Forces (ADF), attivo nelle provincie orientali del nord Kivu e dell’Ituri e riconosciuto dallo Stato Islamico come una sua wilaya, ha dimostrato negli ultimi mesi un’elevata resilienza. Difatti, da ottobre 2017 ad ottobre 2019, le ADF avevano realizzato 174 attacchi, causando 704 morti, mentre negli ultimi tre mesi, la milizia ha compiuto ben 51 attacchi, incrementando il numero delle vittime del 50%. Un notevole aumento sia del numero delle offensive sia del numero delle vittime, in parte giustificabile come reazione all’offensiva lanciata contro le ADF dalle Forze Armate della Repubblica Democratica del Congo (FARDC) il 30 ottobre. Tuttavia, questo fattore da solo non è sufficiente a spiegare, né come le ADF siano giunte a un livello capacitivo così elevato come quello attuale, né come una milizia con un’identità molto fluida sia oggi il punto di riferimento del jihadismo nella regione dei Grandi Laghi. Perciò, per comprendere a pieno il processo di radicalizzazione di questo gruppo armato è necessario analizzarne il percorso evolutivo dalle origini. Tale percorso può essere diviso in tre fasi storiche, utili per individuare differenti modelli operativi e ideologici.

La prima fase di questo processo va dalla nascita della milizia al 2003. Le ADF sono un gruppo armato d’ispirazione salafita nato nel 1995 in Uganda, grazie all’azione di Jamil Mukulu, ugandese di etnia Soga, convertito all’Islam e membro della Tabligh ugandese. La tabligh è un’organizzazione musulmana, sunnita, nata in India negli anni venti, il cui obiettivo è rinvigorire il credo e le pratiche dell’Islam sunnita tramite un’opera missionaria. Quest’organizzazione giunse in Uganda negli anni Settanta, sviluppandosi anche grazie a fondi provenienti dal Sudan. A Kampala, la Tabligh creò una stretta interconnessione con la comunità salafita, sponsorizzando borse di studio per viaggi in Paesi sunniti, di cui approfittò lo stesso Mukulu, che viaggiò in Arabia Saudita, Pakistan e Sudan, concretizzando il suo processo di radicalizzazione. Nel 1991, in occasione delle elezioni per il Supremo Consiglio Islamico ugandese, il futuro leader delle ADF guidò una manifestazione violenta del Tabligh contro il Consiglio Islamico e il presidente ugandese Yoweri Museveni, accusati di aver boicottato l’elezione del candidato del Tabligh. Negli scontri morirono diversi poliziotti e Mukulu, che guidava la fazione armata della manifestazione, fu arrestato per poi essere rilasciato nel 1994. In seguito ad un’operazione dell’Esercito ugandese contro la frangia armata del Tabligh, Mukulu ed i suoi sostenitori, quasi tutti di etnica Soga, scelsero di associarsi a un’altra milizia, l’Esercito Nazionale per la Liberazione dell’Uganda (NALU), di etnia Konjo ed erede dei movimenti per l’indipendenza del Ruwenzori, dal nome delle catena montuosa che costituisce il naturale confine tra la RDC orientale e l’Uganda occidentale. La base operativa di questa nuova milizia fu stabilita in territorio congolese ed alla morte del leader del NALU, nel 1995, Mukulu divenne il leader del gruppo armato, composto da ex membri di NALU e dalla frangia armata della Tabligh fedele a lui fedele segnando la nascita delle ADF, il cui obiettivo, fin dagli albori, è stata la rimozione di Museveni. Tra il 1996 e il 2003, durante le Guerre del Congo che videro contrapporsi la RDC e gli altri Paesi dei Grandi Laghi, le ADF furono finanziate e armate dal dittatore congolese Mobutu Sese Seko e dal Presidente Laurent – Desiree Kabila per contrastare il comune nemico Museveni. In questa fase, soprattutto grazie al supporto congolese, il gruppo armato acquisì una forza tale per operare attacchi su entrambe le sponde del confine, agendo come un vero e proprio attore parastatale nelle aree di Beni, Eringite (nord Kivu) e Bunia (Ituri). In queste piccole enclavi controllate, le ADF iniziarono a fornire quei servizi quali istruzione, sanità, giustizia e riscossione delle tasse, cui lo Stato non era in grado di provvedere per mancanza di risorse, volontà e interesse. Quest’elemento, unito ai proventi dei traffici illegali di legname, oro e diamanti, ha permesso al gruppo armato sia di acquisire maggiore legittimità agli occhi della popolazione locale sia di rafforzarsi come entità militare, creando le fondamenta per una presenza stabile e duratura nella regione.

La seconda fase di vita del gruppo armato, 2003 – 2015, coincide con gli anni in cui è stato registrato il più basso livello di attività delle ADF, che può essere spiegato con la sovrapposizione di almeno tre fattori. Innanzitutto, col termine delle Guerre del Congo, da un lato Uganda e RDC iniziarono un’azione militare di contrasto alle ADF, dall’altro cessò bruscamente il flusso di finanziamenti e armamenti da parte dei molteplici attori esterni che avevano partecipato al conflitto dei Grandi Laghi. Inoltre, Museveni scelse, almeno fino al 2012, di concedere l’amnistia a chi avesse abbandonato le ADF, favorendo la fuoriuscita di molti membri ancora legati all’ex NALU, disillusi dal progetto di Mukulu. Durante questa fase di crisi, le ADF furono private d’importanti fonti di sostentamento e videro notevolmente ridotto il loro spazio di manovra, come testimonia il numero delle incursioni che in alcuni anni, come nel 2008, è stato prossimo o pari a 0.

Questi due stadi di vita dell’ADF furono caratterizzati da una certa continuità sia per la tipologia di azioni compiute sia per la latenza di una chiara ideologia jihadista. Difatti, gli attacchi furono indirizzati soprattutto contro obiettivi militari, in particolare truppe delle FARDC e militari dell’Esercito ugandese. Se nella prima fase, essendo uno dei tanti attori che partecipavano al conflitto regionale, le ADF erano molto attive nel compiere attacchi ai danni dell’Esercito ugandese, nella seconda le operazioni del gruppo armato perseguivano fini prettamente difensivi, senza rinunciare a sporadiche incursioni contro obiettivi militari. Inoltre, è importante sottolineare che, dal punto di vista ideologico, fino al 2015 il gruppo armato ha mostrato un’identità poco definita ed eterogenea, in cui l’ideologia jihadista, pur essendo presente, era solo uno dei molteplici fattori di aggregazione dei militanti. Perciò, la formazione che oggi possiamo definire jihadista, ha avuto, per circa vent’anni, un’identità fluida, fondata su una mescolanza di richieste politiche, indipendentiste, fattori etnici ed anche religiosi.

Di contro, dal 2015 a oggi, le ADF hanno subito una netta evoluzione in chiave jihadista, grazie ad una decisa accelerazione nel processo di radicalizzazione dovuta in particolar modo al cambio di leadership, a seguito all’arresto dell’ex leader e fondatore Mukulu, oggi detenuto in Uganda. Al suo posto, come guida delle ADF è stato nominato, non senza tensioni, Musa Baluku, che si è attribuito il titolo di Sheikh. Il nuovo leader è un ugandese del distretto di Kasese, nell’ovest del Paese, d’etnia Konjo, noto per essere stato uno dei più fedeli collaboratori di Mukulu fin dalla prima sommossa di Kampala e per aver ricoperto nella milizia le cariche più importanti, da luogotenente a capo della corte di giustizia. L’ascesa di Baluku, marito di due figlie del precedente capo dell’organizzazione, dimostra che l’iniziale dualità ADF – NALU / Soga – Konjo, nel corso degli anni è stata superata, in favore di una più proficua omogeneizzazione etnica della milizia e dei suoi obiettivi. Probabilmente, è anche in virtù dell’assenza di tensioni tra le due principali etnie delle ADF che il nuovo leader ha potuto attuare una ristrutturazione dell’organizzazione in un’ottica jihadista, attingendo alla retorica salafita delle origini che fino a quel momento era stata strumentale per veicolare o giustificare operazioni di carattere politico e militare. Dalla sua ascesa Baluku, ad esempio, ha imposto nei campi di addestramento la sua interpretazione della sharia, che deve essere rigorosamente seguita dai miliziani e dalle loro famiglie, i cui figli, indistintamente se maschi o femmine, sono addestrati per combattere. In questa terza fase gli altri fattori che costruivano la complessa identità del gruppo armato sono stati soppiantati dall’elemento jihadista, anche dal punto di vista simbolico. Difatti, la nuova bandiera che Baluku ha deciso di adottare, dal punto di vista grafico è molto simile a quella dello Stato Islamico e riporta in caratteri arabi la frase “La Città del Monoteismo e dei Guerrieri Sacri”. L’opera di riorganizzazione del nuovo leader non ha solo riguardato aspetti simbolici o di gestione interna, anzi, si è incentrata maggiormente sulla proiezione e la promozione esterna dell’immagine delle ADF, tramite l’utilizzo dei social network, in particolare Telegram. Le scelte del nuovo leader rientrano in un progetto d’internazionalizzazione del gruppo armato, la cui capacità di attrazione è notevolmente incrementata, calamitando jihadisti ugandesi, tanzaniani, mozambicani, somali e rafforzando legami con altri gruppi terroristici come al – Qaeda, lo Stato Islamico (IS) e al – Shabaab. Con ogni probabilità, alcuni militanti di al – Shabaab erano presenti tra le file delle ADF da molto più tempo, come combattenti e, soprattutto, come addestratori nell’utilizzo di ordigni esplosivi improvvisati. La prolungata presenza di jihadisti somali potrebbe essere stata un fattore che, da un lato ha favorito la ripresa delle attività militari delle ADF dal 2013 in poi, e, dall’altro, ne ha velocizzato la radicalizzazione, connettendo le ADF alla rete jihadista internazionale.

Tuttavia, in seguito all’affermazione dello Stato Islamico come l’organizzazione jihadista alternativa ad al – Qaeda, Baluku ha computo una scelta di campo, dichiarando la propria fedeltà all’ex Califfo Abu Bakr Al – Baghdadi. Nonostante le ADF non abbiano ricevuto nell’immediato alcun riscontro ufficiale da parte di IS, Baluku ha portato avanti, per almeno tre anni, una propaganda in favore del Califfato, grazie anche alle risorse economiche e al supporto mediatico che pare sia stato fornito da Daesh. Il riconoscimento ufficiale delle ADF da parte di IS è infine giunto il 29 aprile 2019, quando tramite Amaq, l’agenzia di stampa del Califfo, la milizia di Baluku ha rivendicato un suo attacco a una stazione militare nel nord Kivu. In seguito a questa rivendicazione, i media di IS hanno più volte proclamato la nascita della Provincia dello Stato Islamico dell’Africa Centrale, che comprenderebbe differenti gruppi jihadisti della regione oltre alle ADF. Ad oggi, però, è difficile ricostruire con precisione quale sia la reale portata del legame tra le ADF e l’IS o definire quale sia il supporto in termini di risorse umane ed economiche che il Califfato fornisce alla milizia di Baluku.

In quest’ottica, l’incremento di attacchi negli ultimi tre mesi, che ha causato quasi 400 vittime, è probabilmente una risposta all’offensiva lanciata dalle FARDC, ma potrebbe essere anche sintomo di un incremento nei flussi di risorse di chi sostiene le ADF dall’esterno. In questo scontro con l’Esercito congolese, il gruppo jihadista attua delle tattiche di guerriglia, cosciente di non poter sostenere uno scontro diretto e, infatti, le operazioni sono sempre più spesso incursioni notturne in piccoli villaggi, i cui abitanti sono eliminati con i machete. L’obiettivo è di diffondere il terrore tra la popolazione affinché questa si rivolti contro le FARDC e i Caschi Blu della MONUSCO (Missione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per la stabilizzazione nella Repubblica Democratica del Congo), come già successo a Beni, teatro di sommosse popolari dirette proprio contro i militari delle Nazioni Unite. Questa tattica, però, potrebbe non essere sostenibile sul medio-lungo termine, poiché le ADF rischiano di alienarsi la popolazione a loro fedele, il cui appoggio è fondamentale per garantire la mobilità dei miliziani.

Alla luce di quanto detto, quindi, possiamo affermare che il percorso di radicalizzazione delle ADF è stato estremamente dinamico nel corso degli anni, alternando momenti in cui l’ideologia jihadista è stata strumentale, ad altri in cui è stata il fulcro attorno al quale è stata strutturata l’organizzazione e la sua propaganda. Il jihadismo nelle ADF è stato a lungo un elemento latente, che ha iniziato ad emergere nella fase di maggiore crisi, attorno al 2013. Perciò, il riconoscimento delle ADF come provincia dello Stato Islamico, nell’Aprile 2019, è il culmine di un processo di radicalizzazione i cui prodromi erano presenti già nel 1995, che è stato influenzato sia da fattori esterni, sia dalla forte leadership di Musa Baluku.

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