Algeria, le proteste contro il quinto mandato Bouteflika scuotono l'immobilismo del pouvoir
Medio Oriente e Nord Africa

Algeria, le proteste contro il quinto mandato Bouteflika scuotono l'immobilismo del pouvoir

Di Lorenzo Marinone
25.02.2019

Le grandi manifestazioni popolari iniziate lo scorso 22 febbraio nelle principali città algerine segnalano un’insofferenza crescente verso le rigidità di un sistema di potere percepito sempre più come autoreferenziale e incapace di riformarsi. Le proteste si sono indirizzate fin dal principio contro la ricandidatura dell’attuale Presidente Abdelaziz Bouteflika alle elezioni del prossimo 18 aprile. Infatti, lo stato di salute del Capo dello Stato appare gravemente compromesso da anni, tanto da costringerlo a spostarsi su una sedia a rotelle, a limitare al minimo le apparizioni pubbliche, e a lasciare di fatto la gestione del Paese nelle mani della ristretta cerchia dei suoi consiglieri più fidati. Agli occhi dei manifestanti, così come di buona parte degli algerini, la figura di Bouteflika sembra quasi riassumere e incarnare l’inadeguatezza dell’attuale classe dirigente nell’affrontare con energie e soluzioni nuove le sfide sociali ed economiche del Paese.

Al di là di questi aspetti contingenti, le proteste sembrano indirizzarsi sia contro il modo in cui è maturata la scelta di ricandidare Bouteflika sia che verso la figura in quanto tale del Presidente. Infatti, fin dall’indipendenza del Paese nel 1962, le consultazioni per stabilire il candidato al vertice dello Stato costituiscono la cartina di tornasole degli equilibri di potere tra i molteplici potentati dell’apparato istituzionale e burocratico ed escludono totalmente forme di partecipazione popolari e della società civile. Tali equilibri sono tradizionalmente frutto di un compromesso tra le istanze dei tre pilastri su cui si regge il sistema algerino. Quest’ultimo è dominato da una componente civile, ovvero il Fronte di Liberazione Nazionale (FLN) e altri partiti politici “di governo” come il Raggruppamento Nazionale Democratico (RND); da una componente militare espressa dalle Forze Armate; e da una componente securitaria, rappresentata dagli apparati di intelligence e sicurezza nazionali.

Su questo sfondo, la riconferma di Bouteflika come candidato dell’establishment al potere è tutto fuorché indice di consenso ampio e trasversale all’interno del pouvoir, termine con cui viene indicato nel complesso il sistema algerino. Piuttosto, ciò rappresenta l’incapacità di incardinare la politica nazionale su binari nuovi e segnala il mancato raggiungimento di un nuovo equilibro interno. Con l’avvicinarsi dell’appuntamento elettorale, la conflittualità strisciante tra le componenti del pouvoir era già emersa con l’allontanamento del Premier Abdelmadjid Tebboune nell’agosto 2017, appena due mesi dopo il suo insediamento, a causa della presentazione di un disegno di legge che avrebbe svantaggiato alcuni importanti imprenditori vicini a Bouteflika e soprattutto al fratello del Presidente, Said. Tra la primavera e l’estate del 2018 uno scandalo legato al traffico di stupefacenti presso il porto di Orano aveva poi portato a una lunga serie di dimissioni tra i vertici delle forze di sicurezza, dove personalità vicine a Bouteflika erano state sostituite con figure fedeli al Capo di Stato Maggiore Ahmed Gaid Salah. Lo stallo che è risultato da queste lotte ha impedito di trovare una soluzione al problema della successione a Bouteflika, tanto che tra le ipotesi circolate negli ultimi mesi figurava addirittura una soluzione del tutto inedita, ossia la proroga del mandato dell’attuale Presidente e il conseguente rinvio della tornata elettorale.

In buona sostanza, la sua ricandidatura ha rappresentato l’unico compromesso possibile sulla base degli attuali equilibri di potere dell’establishment algerino: nessuna delle tre componenti è in una posizione di forza tale da imporre alle altre un candidato proprio, né è stato possibile convogliare un consenso minimo verso una figura di compromesso che, per quanto transitoria, desse alcune garanzie di stabilità e continuità in più rispetto all’anziano e malato Bouteflika. Infatti, alla luce delle tensioni interne al pouvoir, va notato che la ricandidatura di quest’ultimo costituisce una extrema ratio assai rischiosa, poiché una sua eventuale scomparsa lascerebbe un vuoto politico e istituzionale difficile da colmare senza scossoni per la tenuta del sistema algerino nel suo complesso.

È questa scelta, giudicata alla stregua di uno sconsiderato azzardo, il punto focale delle proteste che negli ultimi giorni si sono svolte nella capitale Algeri (tra i 60 e i 100mila manifestanti stimati), ma anche in altri centri urbani come Orano, Sidi Bel Abbes, Batna e Costantina, che secondo alcune fonti avrebbero portato in strada complessivamente fino a 1 milione di persone. Benché siano state organizzate da un partito di opposizione di modesta entità come Jil Jadid, le proteste hanno catalizzato immediatamente un malcontento più trasversale, oltre ad acquisire subito un’incontrovertibile connotazione politica. Infatti, malgrado un recente e timido miglioramento della congiuntura economica, la condizione del Paese appare piuttosto fragile e attraversata da un malumore piuttosto diffuso. Se la scelta di ricandidare Bouteflika sembra voler ribadire la correttezza delle politiche perseguite nel corso degli ultimi anni, va sottolineato che queste hanno permesso al Paese, classica monocultura energetica, di superare solo con estrema fatica e non pochi sacrifici il crollo dei prezzi del petrolio del 2013-14. Di fatto, i successivi governi algerini non hanno fatto altro che tamponare l’aggravamento delle condizioni economiche di larghe fasce della popolazione tramite politiche di espansione del debito, aumento dell’entità e della platea di beneficiari dei sussidi, e addirittura il ricorso all’emissione massiccia di nuova valuta. Inoltre, tutte queste misure sono state messe in campo in alternativa, e non in parallelo, a un più generale tentativo di riforma e svecchiamento della struttura economica dello Stato, tale da diminuire la dipendenza dal comparto idrocarburico e rilanciare l’economia nel suo complesso con un serio piano di investimenti.

Dunque, le proteste in corso in questi giorni in Algeria rappresentano un campanello d’allarme che la classe politica nazionale non può permettersi di ignorare. Per il momento il decorso delle manifestazioni e la necessaria reazione dell’establishment presentano contorni ancora incerti. Ad ogni modo, tra i diversi scenari possibili, allo stato attuale quello dell’avvio di una spirale di caos, violenza e marasma politico, e il conseguente riaffacciarsi degli spettri del decennio di guerra civile negli Anni ’90, appare assolutamente il meno probabile. Solo una gestione totalmente sconsiderata delle manifestazioni di piazza da parte degli apparati di sicurezza potrebbe rendere violente delle proteste che, finora, sono state assolutamente pacifiche e non hanno visto scontri tra i cortei e le forze dell’ordine, né atti vandalici o una qualsiasi altra caratteristica che possa giustificare approcci più repressivi. Inoltre, non va dimenticato che è proprio la lezione appresa del “decennio nero” a costituire per le autorità un fattore frenante nel ricorso all’uso della forza su ampia scala. Tuttavia, esiste la possibilità che il protrarsi delle manifestazioni e una loro diffusione più capillare sul territorio, soprattutto se con numeri massicci, possano distogliere parzialmente gli apparati di sicurezza dalle attività di contrasto alla criminalità organizzata e in particolare al terrorismo di matrice jihadista. Quest’ultimo potrebbe cercare di sfruttare le tensioni politiche e sociali del Paese a proprio vantaggio, anche compiendo attentati e attacchi più sofisticati e di alto livello, allo scopo di aumentare in modo decisivo l’instabilità del Paese.

Non si può invece escludere che l’establishment algerino legga nella contestazione frontale da parte della piazza la necessità inderogabile di trovare una soluzione di compromesso per il dopo-Bouteflika, e di superare così l’attuale fase di stallo. D’altronde, la salvaguardia della tenuta del sistema rappresenta proprio quell’interesse trasversale a tutte le componenti del pouvoir che, finora, è mancato per individuare un nuovo assetto e una figura per la successione al Presidente. In questo senso, il timore di una moltiplicazione delle manifestazioni di protesta e di patire un’ulteriore delegittimazione potrebbe indurre la classe dirigente algerina a individuare una figura di compromesso cui sarebbe affidato il compito di traghettare il Paese verso un assetto post-Bouteflika. Ad ogni modo, sono poche le personalità che possono godere di un prestigio e di un grado di fiducia così alto nel panorama politico algerino. Tra queste, si segnalano certamente l’ex Ministro degli Esteri Ramtane Lamamra, di recente tornato in patria con l’incarico di Consigliere Diplomatico del Presidente dopo l’incarico di Alto Rappresentante dell’Unione Africana, così come l’attuale Premier Ahmed Ouyahia, esponente del RND.

Tuttavia, il raggiungimento di un simile consenso potrebbe risultare più complicato all’indomani delle elezioni di aprile. Infatti, consapevole del rischio rappresentato dall’eventuale scomparsa di Bouteflika nel corso del suo mandato, recentemente la cerchia ristretta di consiglieri del Presidente ha usato lo strumento delle nomine, anche in modo piuttosto spregiudicato, per poter pilotare in sicurezza e nel rispetto del dettato costituzionale il processo di designazione del suo successore ad interim. In questo senso va letta la scelta di far eleggere, con un colpo di mano consumatosi lo scorso ottobre, un fedelissimo di Bouteflika e del suo entourage come Mouad Bouchareb alla presidenza dell’Assemblea Parlamentare algerina. Allo stesso Bouchareb, appena un mese più tardi, è stata poi affidata la gestione dell’Istanza Dirigente, organismo esecutivo supremo del FLN sorto dalla dissoluzione di tutte le strutture di dirigenza del partito. In più, lo scorso 10 febbraio, in concomitanza con l’annuncio ufficiale della sua ricandidatura, il Presidente ha nominato uno dei suoi consiglieri, l’ex Ministro della Giustizia Tayeb Belaiz, a capo della Corte Costituzionale. Di fatto, con queste mosse i consiglieri di Bouteflika hanno voluto blindare il loro controllo su quegli organismi politici che avrebbero un ruolo preminente nel gestire un improvviso vuoto di potere. Il suggello di questa linea di condotta potrebbe essere rappresentato dall’eventuale introduzione, all’indomani del voto, di una figura di vice-Presidente, inedita nella politica algerina, che assumerebbe immediatamente i contorni di successore designato.

Ad ogni modo, se l’ondata di proteste dovesse iniziare a essere strumentalizzata da alcune componenti del pouvoir ostili al clan Bouteflika, l’attuale Presidente potrebbe preferire una soluzione intermedia e più consensuale allo scopo di allontanare il rischio di una pericolosa destabilizzazione dello Stato. In quest’ottica, l’ipotesi di affiancare alla Presidenza una sorta di “consiglio di saggi”, in cui trovino adeguata rappresentanza le diverse anime del sistema di potere nazionale, potrebbe costituire un compromesso ritenuto accettabile. Infatti, una simile soluzione potrebbe dare adeguate garanzie di continuità all’establishment, mostrare alla popolazione che la richiesta di cambiamento è stata recepita (almeno in linea di principio, se non nella sostanza), e consegnare alle componenti del pouvoir un’utile camera di compensazione dove ricomporre le reciproche divergenze in un tornante così delicato nella vita del Paese.

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