La Tunisia ci rigurda
Radio Beckwith

La Tunisia ci rigurda

09.17.2019

Il primo turno delle presidenziali nel Paese nordafricano, che vive da anni una complessa transizione, ha premiato candidati indipendenti e penalizzato i partiti. L’analisi di Lorenzo Marinone (Ce.Si)

Domenica 15 settembre si è votato in Tunisia per l’elezione del nuovo presidente, in sostituzione di Beji Caid Essebsi, morto a luglio all’età di 92 anni. Le elezioni, previste in origine per novembre, erano state anticipate di due mesi proprio a causa della morte del presidente, che aveva comunque deciso di non ricandidarsi.

Dal voto di domenica è emersa nel Paese una situazione politica differente da quella del passato, dominata storicamente da due partiti conservatori, ovvero Ennahda e Nidaa Tunes: la commissione elettorale, infatti, ha confermato che i due candidati che andranno al ballottaggio – che si svolgerà il 29 settembre – sono Kais Saied e Nabil Karoui, due indipendenti con una storia che non si incrocia con quella dei partiti che costituiscono l’arco parlamentare. Ma perché la Tunisia, un Paese piccolo e considerato spesso l’unico esempio di successo delle primavere arabe del 2011, dovrebbe interessare? Lorenzo Marinone, ricercatore per Medio Oriente e Nordafrica al Ce.Si, spiega che «per l’Italia e per tutta quanta l’Europa, la Tunisia ha un’importanza fondamentale per diversi motivi, prima di tutto quello di costruire un partenariato che riesca a proiettare stabilità e promuovere sviluppo non solo economico ma anche umano e sociale e per far sì che “Mediterraneo allargato” e Mediterraneo come spazio comune non siano soltanto frasi retoriche».

La Tunisia è un Paese di cui spesso si riesce a parlare in termini più “normali” rispetto ad altre aree della regione. Si riesce a parlare di politica senza necessariamente ricondurre tutto alle categorie tipiche dell’orientalismo. È un segno di maturità del Paese?

«La Tunisia è certamente uno di quei Paesi che negli ultimi dieci anni ha mostrato di voler intraprendere un percorso in modo estremamente determinato e con una maturità della classe politica che in altri paesi della sponda Sud non si è vista. Inevitabilmente, sostenere quella che normalmente viene definita transizione democratica in Tunisia è fondamentale per riuscire a cercare di portare stabilità a tutta quanta l’area, considerando che da un lato abbiamo un Paese come la Libia che è di nuovo sprofondato in un pericolosissimo conflitto civile, dall’altro lato c’è un paese come l’Algeria che sta subendo una fase estremamente travagliata dopo l’addio di Bouteflika».

Per una certa parte della politica italiana, la Tunisia è sinonimo di migrazioni verso l’Italia. Ma è davvero così?

«Nessuna persona al mondo desidera a cuor leggero lasciare la propria casa la propria famiglia la propria terra; se lo fa lo fa perché deve essere costretto o da una guerra o da una situazione economica estremamente peggiorata. La Tunisia in questo momento non ha queste caratteristiche, non ha un conflitto e ha una situazione economica che, per quanto pesante in certe aree, non è paragonabile a quella di altri Paesi che sono i Paesi forti di origine dei flussi migratori. Tradizionalmente i tunisini sono quelli che nel contesto africano emigrano meno verso l’Europa. È anche vero che in quest’ultimo periodo c’è stato un leggero aumento della percentuale di tunisini, ma ci dovrebbe essere un vero e proprio tracollo economico per vedere dei veri flussi. Inoltre non dobbiamo dimenticare che andare verso l’Europa è una scelta che può essere dettata da ricerca di condizioni economiche migliori perché si presume che nei Paesi europei ci siano più possibilità di migliorare la propria vita, ma nella scelta individuale del migrante le difficoltà, la distanza geografica, le difficoltà del viaggio contano moltissimo, quindi non è assolutamente scontato che la direzione sia quella attraverso il Mediterraneo verso l’Europa; può tranquillamente essere quella di una migrazione verso altri Paesi della regione».

Veniamo ai risultati e proviamo a contestualizzarli. Sono due i candidati che andranno al ballottaggio, ovvero il costituzionalista Kais Saied e l’imprenditore Nabil Karoui. Che figure sono?

«In qualche modo sono degli outsider della politica: Karoui è un personaggio che ha costruito la sua fortuna attraverso un impero mediatico e attraverso altre attività imprenditoriali, peraltro non bisogna dimenticare che gran parte della campagna elettorale l’ha fatta dalla prigione perché deve scontare delle accuse per cui il processo non è ancora concluso, e questo è già un primo elemento destabilizzante in una campagna elettorale così importante come le presidenziali; l’altro candidato, Saied, è invece una figura molto peculiare e ha posizioni estremamente conservatrici, su alcuni punti addirittura più conservatrici di tanti esponenti di Ennahda, il partito di centrodestra di ispirazione islamica, ed è una figura aliena alla vita partitica ma non a quella istituzionale. Non aderisce a nessun partito, ma da costituzionalista ha contribuito a scrivere materialmente la costituzione tunisina che poi è stata approvata nel 2014. Sono quindi due figure che sono state premiate a dispetto di altre decine di candidati affiliati invece a varie forze politiche. Ecco, è un voto probabilmente contro i partiti: non contro delle idee, non contro delle posizioni, ma proprio contro il sistema dei partiti. Il fatto che un costituzionalista sia riuscito a raccogliere una quantità di voti elevata, oltre 600.000, lascia intuire che la protesta non è rivolta contro il sistema tout court, ma contro una certa gestione del sistema e una certa parte di questo sistema che sono appunto i partiti».

Una crisi dei partiti abbastanza chiara, quindi. Ma significa anche crisi della politica?

«La Tunisia è un Paese che ha una società civile estremamente forte, attiva e vibrante. È un paese dove le cose della politica vengono seguite in modo massiccio e costante da larghi strati della popolazione. Quindi è un paese dove un qualche tipo di fermento c’è, anche quando magari può apparire più sopito. Queste energie, inevitabilmente devono essere incanalate in qualche modo. Finora, a parte la primissima fase nel 2011 in cui c’erano proteste di piazza, sono stati i partiti a incanalare queste forze. Tuttavia l’offerta politica tunisina ha subito rovesci incredibili anche solo nell’ultimo anno e mezzo e si è disgregata. Il principale partito uscito dalle scorse elezioni parlamentari, Nidaa Tunes, ha avuto decine di scissioni e controscissioni, si è completamente frammentato e il suo leader, che era poi l’ex presidente, cioè Essebsi, morto a luglio, non è riuscito a mantenere unito quel suo veicolo che si era creato. Anche moltissimi altri partiti hanno subito la stessa sorte, e l’unico partito che sembrava aver retto un po’ la burrasca era Ennahda».

Eppure anche Ennahda non ha avuto risultati all’altezza. Come si spiega?

«Il voto delle presidenziali ovviamente non va letto solo nel contesto dell’elezione del Capo dello Stato, ma va letto anche con l’occhio rivolto alle elezioni legislative per il rinnovo del Parlamento, fra qualche settimana. Per la prima volta Ennahda ha proposto un proprio candidato, ma ha preso pochissimi voti: un partito che normalmente raccoglie circa il 30 per cento dei suffragi è riuscito solo a raccogliere fra il 10 e il 13 per cento. Ci sono diverse motivazioni possibili: una che potrebbe rendere particolarmente complicato riuscire a trovare un nuovo equilibrio con i prossimi assetti istituzionali è il fatto che fino ad ora, dal 2011 fino ad ora, la Tunisia di fatto si è retta su grandi coalizioni: da un lato Nidaa Tunes, dall’altro proprio Ennahdha, che hanno governato insieme per cercare di dare un po’ di stabilità al Paese e procedere con delle riforme. Le riforme sono state poche, si è proceduto con passo lentissimo e spesso e volentieri le liti interne ai vari partiti e alla maggioranza hanno reso completamente sterile l’azione di governo. Questo ovviamente è qualcosa che tutti i tunisini hanno potuto notare a prescindere dal loro orientamento politico. In questo momento, con dei partiti deboli, riuscire a ricostruire una sorta di unità tale per cui si riesce a dare una maggioranza più o meno stabile e procedere speditamente con un’azione di governo appare piuttosto difficile. Se prima il compromesso poteva essere fatto fra due partiti, adesso probabilmente bisognerà cercare un perimetro più ampio della maggioranza con tutto ciò che ne consegue. È normale che sia più facile mettere d’accordo due teste, anche se la pensano in modo opposto, piuttosto che dieci o quindici, per cui soprattutto i piccoli partiti potranno cercare di strappare accordi più vantaggiosi per se stessi, bloccando in questo modo di nuovo l’azione di governo».

Fonte: Radio Beckwith

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