Ramaphosa e l’ANC all’indomani delle elezioni: la sfida della disuguaglianza e la crisi della legittimità
L’8 maggio scorso si sono tenute le elezioni legislative in Sudafrica per rinnovare il Parlamento e nove assemblee provinciali. Il vincitore è stato l’African National Congress (ANC), guidato da Ciryl Ramaphosa, ex sindacalista e imprenditore. Ramaphosa è Presidente del Sudafrica dal febbraio 2018, in seguito alle dimissioni di Jacob Zuma, costretto a dimettersi dallo stesso ANC a causa delle numerose accuse di corruzione a lui rivolte.
Il partito, deteniene la maggioranza dei seggi parlamentari dalla caduta dell’apartheid nel 1994, ha fronteggiato altre due forze politiche: la Democratic Alliance (DA), partito centrista figlio del Progressive Party fondato dall’ala più moderata dell’elettorato bianco e capeggiato oggi da Mmusi Maimane, e gli Economic Freedom Fighters (EFF), partito populista guidato da Julius Malema, espulso dall’ANC nel 2013.
Tuttavia, il 57% dei voti ottenuto dall’ANC rappresenta il minimo storico per il partito, che non era mai sceso al di sotto del 60%, mentre le principali forze di opposizione si sono attestate una al 21% (la DA) e l’altra al 10% (gli EFF), in aumento rispetto alla tornata precedente. Entro il 25 maggio, il nuovo Parlamento eleggerà il nuovo Presidente, presumibilmente rinnovando il mandato a Ramaphosa.
Nel corso della sua campagna elettorale, Ramaphosa ha cercato di riconquistare l’elettorato dell’ANC, molto sfiduciato dalle accuse di corruzione contro il suo predecessore e dalla crescente disillusione politica dovuta alle condizioni economiche in cui versa il Sudafrica. Per questo motivo, da quando ha sostituito Zuma l’anno scorso, Ramaphosa si è presentato come un riformatore, pronto a combattere aspramente la corruzione e a rilanciare l’economia. In particolare, ha promosso diverse iniziative economiche di stampo neo-liberista volte a creare occupazione e stimolare la crescita. Infatti, il Sudafrica presenta un tasso di disoccupazione al 27,1%, che sale intorno al 50% per quanto riguarda la popolazione giovanile. Inoltre, il tasso di povertà (PIL pro capite inferiore a 1,90 dollari al giorno) è passato dal 16.8% nel 2011 al 18% nel 2015, una differenza equivalente a circa tre milioni di poveri in più. Questo rappresenta una preoccupante inversione di rotta di un trend che aveva visto una costante diminuzione della povertà dagli anni ’90 in poi.
Oltre che scagliarsi contro la povertà, Ramaphosa, si è concentrato sul delicatissimo tema della discriminazione razziale, cogliendo un punto importante del malcontento dell’elettorato: a 25 anni dalla caduta dell’apartheid, il Sudafrica vive ancora una condizione di profonda disparità razziale in termini economici. Questo è dimostrato dal fatto che il 20% delle famiglie nere vive in condizioni di povertà estrema, contro il 2.9% delle famiglie bianche. Allo stesso modo, la popolazione di colore, che costituisce il 79% del totale, controlla l’1.2% delle terre coltivabili, mentre la popolazione bianca, corrispondente al 9% del totale, ne possiede oltre 2/3. All’inizio del suo mandato, Ramaphosa aveva proposto un emendamento della Costituzione per avviare una riforma agraria che prevedeva l’esproprio senza indennizzo delle terre dei bianchi. La mossa aveva sia lo scopo di fare un primo passo verso l’eliminazione della disparità razziale sia quello di ingraziarsi l’elettorato meno abbiente, privando della base di supporto l’EFF, che aveva fatto della nazionalizzazione delle terre il suo cavallo di battaglia. Tuttavia, la proposta è stata ampiamente contestata dalla Democratic Alliance, poiché avrebbe minato i diritti di proprietà e avrebbe allontanato i grandi investitori dal Paese.
Sebbene si sia occupato più di questioni di redistribuzione e occupazione, Ramaphosa ha accennato in campagna elettorale anche al problema dei reati sessuali, per cui il Sudafrica detiene un primato mondiale (132 ogni 100.000 abitanti). Per quanto questo sia un tema che può far presa sull’elettorato, esso va inserito all’interno di un contesto di criminalità più ampio. Il Sudafrica ha infatti uno dei tassi di criminalità più alti al mondo, con 34 omicidi ogni 100.000 persone e un elevato numero di reati contro la proprietà. Questo fenomeno, che si verifica soprattutto nelle metropoli, genera un’enorme senso di insicurezza. La causa di questa criminalità diffusa non sembra avere matrice razziale ma piuttosto socio-economica. Ad aggravare la situazione c’è una polizia tradizionalmente addestrata a combattere i reati politici ma non quelli comuni. Perciò, nonostante negli ultimi anni si sia registrato un aumento nel numero delle Forze dell’ordine, esse risultano spesso poco efficaci.
Fortemente legata alla questione della disuguaglianza è anche l’elevata incidenza di persone affette dal virus dell’HIV (5.700.000 persone, più del 10% della popolazione). Ciò che influisce sulla mancata prevenzione dell’HIV e sulla scarsa copertura sanitaria della popolazione in generale è l’alta regressività del sistema sanitario sudafricano. Infatti, nonostante sia spesa una cifra considerevole per la sanità (3,67% del PIL), circa la metà del bilancio dello Stato finanzia strutture private, che coprono solo il 16% della popolazione. La sanità pubblica, a cui spetta il budget rimanente, dovrebbe invece raggiungere 42 milioni di persone, con scarse risorse e gravi problemi di corruzione a complicare ulteriormente il quadro.
I fattori che determinano queste profonde disuguaglianze nella società non sono solamente fattori razziali, nonostante questi giochino un ruolo fondamentale. Secondo la Banca Mondiale, a incidere sono anche il luogo di nascita, l’occupazione del padre, l’istruzione dei genitori, l’età e il sesso di un individuo. Questi fattori influiscono specialmente sulla disparità di opportunità, e di conseguenza sulla disparità di salario e di ricchezza. Il Sudafrica è uno dei Paesi con la maggiore disparità salariale al mondo, con i salari più alti prossimi a quelli occidentali e quelli più bassi accostabili ai Paesi in via di sviluppo. Inoltre, nonostante i bianchi rappresentino solo il 10% della forza lavoro, essi guadagnano il triplo dello stipendio medio dei lavoratori neri. Per ridurre il gap salariale servirebbero non solo politiche anti-discriminatorie, ma anche la facilitazione dell’accesso all’istruzione professionale per tutte le fasce della popolazione. Quest’ultimo punto è particolarmente importante, data la bassissima mobilità intergenerazionale in Sudafrica.
Infatti, numerose indagini del governo sudafricano dimostrano che mobilità intergenerazionale e disuguaglianza sono negativamente correlate, perciò ancora una volta viene ribadita la necessità di lavorare sulla diminuzione delle disparità, in particolare quelle relative alla razza. Considerando che la mobilità intergenerazionale di un individuo dipende in parte dal reddito della sua famiglia d’origine, e avendo notato che le famiglie nere sono statisticamente più povere di quelle bianche, è evidente che andando ad affrontare la disparità razziale si andrebbe ad aumentare la mobilità intergenerazionale. Ramaphosa, nei suoi tentativi di riforma, dovrà tener conto anche di tutti questi elementi.
Resta da chiedersi quale margine di manovra avrà Ramaphosa per implementare le sue proposte in Parlamento. Bisogna infatti considerare che i due maggiori partiti di opposizione hanno una forza elettorale senza precedenti e non sarà facile per l’ANC trovare nuova linfa che gli permetta di fronteggiare la loro ascesa e portare coerentemente avanti i suoi programmi.
Riuscire ad attuare delle riforme contro la disparità e per rilanciare l’economia è fondamentale non solo per il Paese, dove l’1% della popolazione detiene il 70.9% della ricchezza, ma anche per la sopravvivenza dello stesso ANC. Infatti il consenso al partito è stato fortemente minato dall’operato di Zuma e dalla corruzione dilagante. Inoltre, ampie fasce della popolazione hanno potuto facilmente identificarsi nelle altre due forze principali. Coloro che desideravano un ritorno più radicale alla questione razziale si sono identificati nell’EFF, basato sul suprematismo nero e sulla retorica populista, e fortemente critico nei confronti dell’ANC, accusato di aver tradito l’eredità politica di Nelson Mandela. Dall’altro lato, alcuni dei born free, coloro che non hanno conosciuto la segregazione razziale, hanno forse potuto trovare un riferimento nella DA, guidata oggi da un nero sposato con una bianca, quindi espressione lampante dello spirito multietnico del Sudafrica post-apartheid.
L’ANC si trova quindi in una posizione di equilibrio precario tra la necessità di rafforzare il suo ruolo-guida nel Paese in un contesto fortemente aleatorio, nel quale la stagnazione economica (crescita di appena 0,8% nel 2018) contribuisce nell’esacerbare la sfiducia dell’elettorato. La pura della classe dirigente dell’ANC è palpabile, come emerso dal fatto che il risultato elettorale sia stato accolto con soddisfazione, nonostante si tratti del minimo storico. Questo perché i sondaggi lasciavano presagire addirittura un calo sotto il 50%, a testimonianza di un Paese che, oltre ad aver esaurito il credito di riconoscenza per le battaglie anti-segregazioniste, comincia a guardare con crescente interesse a nuove alternative politiche.