Le Primavere Arabe, dieci anni dopo: sfide e opportunità di un processo in divenire
Il 2010-2011 è stato un momento spartiacque nella storia recente dell’area MENA. Un decennio fa, infatti, alcune rivolte popolari spontanee, guidate per lo più da motivazioni di carattere socio-economico, hanno attraversato in profondità l’intero Medio Oriente, rovesciando un certo numero di leadership ultradecennali erroneamente considerate impermeabili al cambiamento. Eppure quelle rivolte del 2011 non hanno rappresentato una novità assoluta nella storia della regione, già percorsa in passato da altre proteste di carattere socio-economico, tanto che – almeno inizialmente – più di qualche longevo leader dell’area non ebbe a temere delle manifestazioni anche vibranti, pensando che quelle allora in corso potessero essere derubricate come una nuova stagione delle cosiddette “rivolte del pane”. Una percezione che si dimostrò presto sbagliata, tanto che lo straordinario shock emotivo prodotto dalle proteste galvanizzò soprattutto quelle masse a lungo vessate, convinte di avere gli strumenti necessari per preparare il terreno ad un vero cambiamento. Quelle stesse proteste però si trasformarono ben presto in rivolte incomplete, rovesciate dalla restaurazione o trasformatesi in conflitti civili. Sebbene il bilancio venga considerato per lo più negativo e colmo di insuccessi, gli stessi germi di instabilità presenti un decennio fa sono ancora vivi oggi in molti degli stessi contesti di protesta, con la prospettiva di riaprire un nuovo spazio per il diffondersi, sotto altre forme e modi, di un fenomeno ancora in divenire.
Infatti, le contraddizioni e le debolezze del sistema statale in Medio Oriente hanno radici antiche e strutturalmente profonde. Non sono il risultato di un singolo momento, né sono questioni imputabili alle sole presidenze di Hosni Mubarak in Egitto, Zine el-Abidine Ben Ali in Tunisia, Muammar Gheddafi in Libia o Ali Abdullah Saleh in Yemen. Per comprenderne le origini dobbiamo andare a ritroso fino agli anni Cinquanta, quando Gamal Abdel Nasser, il secondo Presidente dell’Egitto, gettò le basi del “vecchio contratto sociale”, che prevedeva la costituzione di un ordine statale basato su un mix di clientelarismo e dispotismo. Quel modello si è poi diffuso e sviluppato secondo peculiarità differenti in tutto il Medio Oriente. Ad esempio, nella Penisola arabica, le monarchie arabe hanno costruito un meccanismo basato sulla dualità religione-petrolio come forma di reciproca legittimazione sociale e politica. Negli Stati del Mashreq, in particolare in Libano e Giordania, settarismo e tribalismo hanno posto le condizioni per un particolare modello di fragile state. In Nord Africa, invece, Egitto e Tunisia hanno favorito la costruzione di un sistema autocratico e autoreferenziale, mentre Algeria e Libia si sono ben presto classificate sotto la più classica etichetta di Stati rentier. Nonostante le variazioni sul modello, tutti i Paesi hanno promosso lo sviluppo di un governo basato su un ampio controllo dell’opinione pubblica, su un uso reiterato della repressione e su potenti apparati di sicurezza e intelligence. Queste caratteristiche hanno definito il modello di legittimità politica delle élites nel sistema di potere statale arabo.
In questo percorso, se la seconda metà degli anni Ottanta e i primi Novanta rappresentarono una prima stagione di contestazione di quel “patto autoritario”, l’insorgere delle Primavere Arabe nel 2011 ha di fatto favorito una implosione del vecchio contratto sociale. Un processo irreversibile che è continuato anche pochi anni dopo, nonostante i tentativi controrivoluzionari sorti in Egitto. Contestualmente, questo vulnus ha creato le condizioni per la deflagrazione del sistema anche nell’ordine regionale, producendo risultati differenti a seconda dei casi: ad esempio, in Libia, Yemen o Siria, si sono poste le basi per una guerra civile lunga e incerta, mentre in Bahrain e Iraq si è accentuato il conflitto settario in maniera profonda. Solo la Tunisia sembrerebbe aver definito un processo di transizione, comunque non esente da contraddizioni e da numerose incognite rimaste stagnanti sotto la cenere della rivolta popolare.
Anche alla luce di ciò, sarebbe difficile presentare un bilancio asettico delle Primavere arabe in Medio Oriente, viziato com’è da una narrazione dominante che ha presentato per decenni il quadrante come un conglomerato di realtà monolitiche e impermeabili a qualsiasi sorta di cambiamento. Del resto, questa rappresentazione rischia di mostrarsi fallace e troppo semplicistica, incapace inoltre di cogliere quelle innumerevoli sfumature emerse nel macro-fenomeno noto come Primavere Arabe. Infatti, se considerassimo come veritiera questa impostazione, le proteste popolari non sarebbero mai sorte, nonostante il perdurare delle condizioni di indigenza e difficoltà. Allo stesso modo, il risultato avrebbe dovuto esser calibrato come un episodio casuale della storia e non come un importante spartiacque. A maggior ragione questo tipo di ragionamento perderebbe di evidenza se non considerassimo la stagione di proteste del biennio 2019-2020 come un naturale proseguimento del decennio precedente. Il 2019-2020, infatti, ha visto l’insorgere di nuove proteste popolari – più continuative nel tempo rispetto al 2010-2011 – di carattere sociale, economico e civile, che hanno portato in Algeria e Sudan all’avvio di travagliati processi di transizione, mentre in Libano e Iraq si è assistito ad un aggravamento dei rispettivi contesti nazionali. Sia nel 2011, sia nel 2019, è emerso chiaramente un primo elemento comune legato alla mancata volontà politica delle é__lites di comprendere i mutamenti nel loro complesso, preferendo piuttosto perpetuare meccanismi usurati e ormai logori. Tale riflesso è divenuto tanto più vero quando, nel 2019, i Paesi rentier della regione, che in passato avevano beneficiato degli alti prezzi del petrolio e degli investimenti esteri per mantenere la pace sociale, non avevano più la forza necessaria per sopire la protesta. Questo elemento introduce quindi un secondo fattore di continuità tra le proteste del 2010-2011 e quelle del 2019-2020, ossia la disuguaglianza come moltiplicatore di instabilità.
Ciò è divenuto sempre più rilevante nel 2020 anche a seguito della pandemia da Covid-19 e dalle conseguenti misure adottate dalle autorità centrali per combattere la diffusione del virus e tentare di rilanciare l’economia duramente colpita. La rigidità di determinate misure (autoisolamento, divieto di assembramenti in luoghi pubblici e religiosi, adozione di legislazioni di emergenza, coprifuoco notturno, blocco di tutte le attività – in maniera estremamente discrezionale – non ritenute di primaria importanza) ha esasperato le disuguaglianze, fomentando nuova rabbia sociale e contribuendo ad accentuare i gap esistenti. Di converso, i regimi hanno potuto soltanto inasprire le consuete forme di autoritarismo come strumento necessario a contenere il diffuso malcontento e a sostenere il sistema. In questo contesto, quindi, l’impatto del virus, oltre ad aggravare i problemi economici, si è presentato come un’arma a doppio taglio per i governi della regione, in quanto ha sì concesso loro lo spiraglio per reprimere la protesta, ma allo stesso tempo la chiusura degli spazi di contestazione da loro imposti ha approfondito la rivolta sociale, dando nuova forza ai movimenti che chiedevano riforme strutturali e urgenti. Quel che è accaduto nei mesi passati in Algeria, Libano e Iraq, e oggi nuovamente in Tunisia, dimostra esattamente questa mutazione e il salto di qualità nella protesta.
Di fatto, le Primavere Arabe hanno lasciato un’eredità molto più complessa di quella che non è stata raccontata, sollevando al contempo numerose riflessioni. Una prima, ad esempio, è quella relativa alla non sostenibilità dello status quo e alla ricerca di una nuova via alla partecipazione sociale e politica più inclusiva da parte dei cittadini, i quali non si rivedono più come sudditi ma come soggetti attivi di una determinata questione. A lungo, infatti, i regimi arabi hanno fatto ricorso all’autoritarismo come forza di prevenzione contro qualsiasi spinta al cambiamento proveniente dall’alto o dal basso. Proponendosi come fornitori di beni e servizi, nonché come elementi unici dedicati a garantire dignità sociale e diritti, le autorità centrali hanno cercato di portare avanti una logora pratica legata alla tradizionale concezione del contratto sociale mediorientale, nella quale il cittadino accettava passivamente le concessioni fornite dal governante, in qualità di unico detentore del potere legittimo.
Direttamente collegato a questo fattore è l’elemento relativo al sistema regionale in via di ridefinizione. Infatti, sono state diverse le forze endogene al Medio Oriente che negli anni hanno spinto per la conservazione/restaurazione degli equilibri in favore del mantenimento del vecchio sistema regionale. I regimi di Egitto, Libia, Tunisia, Siria o Yemen, rappresentavano elementi in grado di garantire omogeneità al sistema mediorientale, pur nella loro peculiarità, in quanto presentavano delle é__lites nazionali indisponibili al cambiamento e/o a garantire trasformazioni interne ed esterne alla regione allargata. In particolar modo queste forze, anche su spinte conservative che giungevano dal Golfo (e con un beneplacito occidentale), non hanno mostrato alcun desiderio o volontà di riformarsi, credendo di poter utilizzare, anche attraverso la forza, metodi di sicurezza e autoritari per perpetuare la stabilità e impedire la costruzione di nuove istituzioni forti, il rispetto del pluralismo, la decriptazione di sistemi di separazione e di equilibrio dei poteri, nonché la creazione di un vero e proprio stato di diritto nel suo complesso.
Questa spinta (dal basso) al cambiamento non ha portato a erigere nuove e moderne forme di Stato nella concezione più tipicamente eurocentrica, in virtù di un’effettiva assenza di tempo non solo per metabolizzare queste trasformazioni, ma anche per definire quelle forze sociali, politiche e civili più adatte a guidare questo cambiamento. L’effettiva assenza di meccanismi ad hoc non ha contribuito a trasformare le proteste in alternative reali e adeguate per le masse popolari, lasciando invece presto spazio alle contingenze e alle necessità primarie del grande pubblico, attanagliato sempre più dall’urgenza di trovare risorse e risposte all’assenza di lavoro. Nella maggior parte dei casi, quindi, i manifestanti si sono trovati impreparati ad affrontare i grandi problemi derivanti da queste trasformazioni presentando più delle doglianze che un’agenda coerente di lungo periodo. Ciononostante, le popolazioni della regione hanno continuano a scendere nelle piazze portando avanti proprio quelle istanze socio-economiche intese come leva necessaria a cambiare lo Stato nel suo complesso.
Pertanto, è importante individuare una serie di elementi per definire un percorso dal quale ripartire per la costruzione di un nuovo sistema statale in Medio Oriente. Tra questi vi sono almeno cinque elementi cardinali che potrebbero essere utili per sviluppare un’agenda nella regione: nuovo contratto sociale; processo di democratizzazione; riforme socio-economiche; rispetto dei diritti civili e umani; fine dello stato di polizia e delle politiche sovrastanti di securitarizzazione. Nel far ciò è necessario superare la vecchia nozione di “patto sociale” e introdurre un nuovo modello che accolga le istanze popolari in materia di giustizia, stato di diritto, rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali, legittimità, separazione dei poteri, privatizzazioni, riforme costituzionali, dialogo nazionale e risoluzione dei conflitti. Allo stesso tempo, tale patto dovrà andare oltre il vecchio paradigma “prima l’economia, poi le riforme (politiche)”, poiché entrambe le dimensioni dovranno agire parallelamente per rafforzare e alimentare un processo riformista più completo. Altrettanto importante è garantire una piena partecipazione democratica di tutti gli attori, compresi quelli non statali, al fine di sostenere un processo di ricostruzione delle istituzioni nazionali fin dalle fondamenta. Infine, per favorire questa piena trasformazione del sistema sarà importante coinvolgere anche gli attori esterni (come Stati Uniti e Unione Europea) e le istituzioni internazionali liberali, impegnati nel sostenere e promuovere quei meccanismi multifattoriali di nuovo ordine politico statale e regionale.
Senza progressi significativi in tale direzione, il sistema statale (e mediorientale) così come lo conosciamo rischia di condannarsi ad un rapporto di antinomia e di avviluppamento su se stesso. Per questi motivi, oggi come dieci anni fa, il superamento del vecchio contratto sociale rappresenta la principale sfida per un presente e un futuro di stabilità e legittimità dell’intero Medio Oriente.