Le incognite delle elezioni in Iraq
Il prossimo 12 maggio, l’Iraq è chiamato alle urne per il rinnovo del Parlamento nelle prime elezioni legislative dopo la sconfitta territoriale di Daesh, che dalla fine del 2017 ha perso il controllo anche degli ultimi centri urbani nella sua tradizionale roccaforte dell’Anbar. Benché negli ultimi 4 anni abbia rappresentato senza dubbio un obiettivo comune per tutte le componenti del Paese, proprio le conseguenze della lotta all’organizzazione di Abu Bakr al-Baghdadi costituiscono il principale fattore alla base della frammentazione crescente del panorama politico iracheno.
Dopo il fallimento del referendum per l’indipendenza (settembre 2017), voluto dal Partito Democratico del Kurdistan (PDK) per capitalizzare al massimo sul piano politico i crediti acquisiti con la lotta a Daesh, i partiti minori (Gorran, Komal e Coalizione per la Democrazia e la Giustizia) si sono coalizzati nell’alleanza Nishtiman (Patria) per interrompere il duopolio PDK-Unione Patriottica del Kurdistan (UPK). Per quanto riguarda le componenti sunnite, l’aumento delle tensioni settarie e delle fratture tribali e generazionali causate dal Califfato le ha rese ancora più disilluse rispetto alla partecipazione politica e restie a riconoscersi in una leadership unitaria.
Questa frammentazione ha manifestato però la sua espressione più evidente all’interno del campo sciita con la disgregazione della coalizione Dawlat al-Qanun (Stato di Diritto), perno dei governi iracheni fin dal 2010. Inoltre, è aggravata dalla spaccatura interna al principale partito sciita, il Dawa, alimentata dalla rivalità tra il Primo Ministro uscente Haider al-Abadi e l’ex Premier Nouri al-Maliki. Il dualismo tra Abadi e Maliki affonda le sue radici nella convulsa fase seguita alle scorse elezioni legislative, quando lo stallo nella formazione del nuovo esecutivo era stato superato soltanto grazie alle pressioni della Comunità Internazionale, motivate dall’urgenza di contrastare l’avanzata di Daesh nel Paese, che avevano costretto un intransigente Maliki a rinunciare alla guida del governo in favore di Abadi. Nel corso del suo mandato, quest’ultimo non ha esitato a rimarcare la distanza dal suo predecessore con l’obiettivo ultimo di delegittimarlo e imporsi come punto di riferimento indiscusso nel campo sciita. A tal fine, Abadi ha innanzitutto abbandonato il marcato settarismo espresso dalla retorica e dalle politiche di Maliki, che aveva svolto un ruolo non secondario nell’agevolare la riorganizzazione del qaedismo iracheno nell’Anbar e, di conseguenza, l’emergere di Daesh. Inoltre, il Premier uscente si è intestato una battaglia dai chiari accenti populisti come quella contro la corruzione negli apparati statali e nell’Esercito. In questo modo, Abadi non ha soltanto dato risposta a un’esigenza particolarmente sentita da larga parte della popolazione, ma ha anche disinnescato la virulenta offensiva politica portata avanti ai suoi danni dall’influente chierico sciita Moqtada al-Sadr, che proprio sulla denuncia del malaffare aveva saputo mobilitare il suo largo seguito nella capitale con imponenti proteste di piazza. Infine, Abadi ha tentato di massimizzare il suo consenso presentandosi sia come il difensore dell’unità nazionale (impedendo la scissione del Kurdistan iracheno dopo il referendum), sia soprattutto come il principale artefice della vittoria militare contro Daesh.
Il tentativo di rendere marginale Maliki si è poi concretizzato ulteriormente lo scorso gennaio all’atto della presentazione delle coalizioni elettorali, che ha sancito la profonda spaccatura all’interno del partito Dawa. Infatti, Abadi si è presentato alla guida di un nuovo movimento, il blocco al-Nasr (Vittoria), che è stato immediatamente sostenuto dalla maggior parte degli attuali deputati del Dawa e, di conseguenza, ha avuto l’effetto di svuotare dall’interno la coalizione Dawlat al-Qanun con cui si ripresenta Maliki. In più, Abadi ha provato a trasformare al-Nasr in una sorta di nuovo polo aggregatore di tutto il campo sciita ad esclusione dei sostenitori dell’ex Premier, cercando un’alleanza elettorale sia con Sadr e con il movimento al-Hikma di Ammar al-Hakim, sia con il cartello elettorale al-Fatah di Hadi al-Ameri, figura di spicco dell’Organizzazione Badr. Questo tentativo è però naufragato nel giro di pochi giorni, sicché tutti questi partiti si presentano alle elezioni di maggio da soli o in coalizioni evidentemente eterogenee (si pensi all’alleanza tattica tra i sadristi e il Partito Comunista Iracheno, uniti nell’Alleanza dei Rivoluzionari per la Riforma). Tuttavia, ciò sembra essere dipeso più da meri calcoli elettorali che dall’esistenza di veti incrociati davvero insormontabili, lasciando così aperta la possibilità di nuovi apparentamenti e una rimodulazione anche sostanziale delle coalizioni all’indomani del voto, secondo quella che, a tutti gli effetti, è ormai una prassi consolidata nella politica irachena.
Sulla performance elettorale dei vari partiti del campo sciita inciderà inoltre la capacità di attingere all’enorme bacino di voti che gravita attorno alle Forze di Mobilitazione Popolare (Hashd al-Shaabi, FMP). Si tratta dell’insieme di milizie in maggioranza sciite, nate a metà 2014 per sopperire alla dissoluzione di parte dell’Esercito iracheno sotto l’avanzata di Daesh. Tutt’altro che unitarie e dipendenti da Baghdad, queste formazioni paramilitari possono essere divise in tre grandi blocchi che ricadono sotto l’influenza iraniana, dell’Ayatollah al-Sistani e di Sadr. Nel complesso, le FMP hanno raccolto negli anni un consenso popolare così ampio da poter rivestire un ruolo politico di assoluto primo piano, sia direttamente, ovvero tramite la creazione di un ramo politico a fianco della rispettiva milizia, sia attraverso l’appoggio garantito a determinate formazioni politiche.
In questo quadro si inserisce la creazione della già citata coalizione al-Fatah, che è costituita dalle branche politiche, formate negli ultimi mesi, di tutte le principali milizie delle FMP che condividono l’ideologia khomeinista del velayat-e faqih e intrattengono intensi legami operativi con la Forza Qods dei Pasdaran iraniani. A ben vedere, Fatah rappresenta un chiaro tentativo da parte dell’Iran di potenziare e ampliare un canale di influenza sulla politica irachena già utilizzato in passato, garantendosi al contempo un adeguato spazio di manovra grazie all’ambiguità della doppia natura politico-militare delle sue componenti. Infatti, questa coalizione è costruita attorno all’Organizzazione Badr di Ameri, l’unica che vanta un percorso consolidato di “istituzionalizzazione” essendo nata come braccio armato del Consiglio Supremo per la Rivoluzione Islamica in Iraq nel 1982, ma presente come realtà politica già dal 2003, cui si aggiungono poi le ali politiche di Asaib Ahl al-Haq di Qais al-Khazali, Kataib Hezbollah di Abu Mahdi al-Muhandis e Kataib al-Imam Ali di Shibl al-Zaidi.
Alla luce del loro potenziale peso politico, le FMP sono diventate inevitabilmente un terreno di scontro tra Abadi, Maliki e Sadr, che ha visto il Premier uscente nella posizione migliore per lanciare una serrata opera di “corteggiamento” politico e tentare di garantirsi un secondo mandato. Infatti, benché si sia espresso più volte a favore di un’integrazione delle FMP negli apparati di sicurezza regolari (che di fatto le avrebbe sciolte), in realtà Abadi già nel novembre 2016 le ha legalizzate, dichiarate indipendenti e poste sotto il controllo nominale del Premier. Così, Abadi ha evitato di irreggimentarle all’interno del Ministero della Difesa o dell’Interno e di modificarne la catena di comando interna, andando incontro a precise richieste dei vertici delle FMP. Inoltre, con un decreto dello scorso 9 marzo, Abadi le ha parificate alle Forze Armate in termini di salari e privilegi e ha delegato parte delle sue prerogative a un Consiglio ristretto, ai cui vertici sono stati riconfermati Faleh al-Fayadh (già Consigliere per la Sicurezza Nazionale e membro del Dawa) e Abu Mahdi al-Muhandis, vero anello di congiunzione tra le FMP e Teheran. Quest’ultimo può quindi esercitare, ora anche de jure, un controllo capillare sulle milizie e, soprattutto, del loro budget (1,63 miliardi di dollari nel 2017). Il progressivo consolidamento delle FMP all’interno del panorama istituzionale iracheno, sia sotto il profilo securitario che politico, le rende quindi non solo il principale ago della bilancia nelle elezioni di maggio, ma anche un attore che in prospettiva può influire in profondità nelle dinamiche irachene dei prossimi anni.
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