L’Africa diventa un’area di libero scambio: pro e contro dell’accordo di Niamey
Il 7 luglio 2019 a Niamey, capitale della Niger, 54 su 55 Stati africani hanno ratificato l’accordo continentale di libero scambio (African Continental Free Trade Area, AfCFTA), volto alla progressiva eliminazione dei dazi doganali tra essi, alla facilitazione della libera circolazione di beni e, in forma più limitata, di servizi all’interno del continente. L’accordo, la cui implementazione creerebbe un mercato unico di 1,3 miliardi di persone e un blocco economico di 3.4 trilioni di dollari, è il risultato di quattro anni di intense negoziazioni. L’ultima di esse si era svolta a Kigali, in Ruanda, nel marzo 2018, dove già una maggioranza dei Paesi africani aveva firmato almeno uno dei tre strumenti di ratifica. L’incontro di Niamey ha definitivamente coinvolto i Paesi più riluttanti, tra cui c’era la Nigeria, ovvero la maggiore economia africana, lasciando fuori per il momento solo l’Eritrea.
L’obiettivo primario dell’AfCFTA è quello di fornire dinamicità all’economia e, soprattutto, al commercio continentale africano, tradizionalmente stagnante, e, seguendo l’esempio europeo, di favorire una maggiore collaborazione politica tra gli Stati, dovuta a un più voluminoso scambio di beni e servizi e alla necessità di armonizzare regole e standard. Questo progetto è in linea con gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile fissati dalle Nazioni Unite per il 2030, ma è anche un processo verso il raggiungimento degli obiettivi dell’Agenda Africana 2063, che prevedono il miglioramento della qualità della vita, la stabilizzazione economica e l’integrazione politica del continente. La tesi del beneficio economico dell’AfCFTA è comprovata dalle ultime previsioni effettuate dalla Banca dello Sviluppo Africano e dalla Conferenza delle Nazioni Unite sul Commercio e lo Sviluppo (UN Conference on Trade And Development, UNCTAD). Secondo tali dati, infatti, con l’area di libero scambio si avrebbe un incremento del commercio tra l’Africa e il resto del mondo del 2,8% rispetto alle previsioni effettuate per il 2022 in assenza dell’accordo. Allo stesso modo, il peso del commercio intra-africano sugli scambi commerciali totali del continente passerebbe dal 10,2% al 15,5%, con un aumento del 52,3% rispetto alle proiezioni per il 2022. A beneficiare maggiormente di questo incremento dell’attività commerciale africana sarebbero il settore agricolo e quello industriale. La diminuzione degli introiti derivanti dalle tasse doganali verrebbe compensata da un aumento del reddito e del salario reale, come conseguenza possibile di un aumento degli export.
Inoltre, una delle conseguenze principali dell’implementazione dell’AfCFTA sarebbe la riduzione del tempo trascorso alla dogana per far sì che il passaggio delle merci venga approvato. La procedura è infatti estremamente lunga e costosa, poiché richiede un numero elevato di documenti non sempre facilmente reperibili, e poiché solitamente gli Stati africani applicano le tasse doganali più alte proprio agli Stati confinanti. La riduzione delle tasse doganali al livello della “Most Favoured Nation” (MFN), che in altre parole corrisponde alla normalizzazione dei rapporti commerciali tra gli Stati africani tramite l’applicazione a ognuno di essi del dazio più basso applicato da ciascun Paese, ovvero quello applicato nei confronti dello Stato con cui ha i migliori rapporti diplomatici, insieme allo snellimento delle procedure burocratiche alla dogana risulterebbe in un risparmio cospicuo di tempo e di denaro.
Un ultimo vantaggio dell’incentivazione del commercio interno al continente africano sarebbe la possibilità di assorbire più facilmente i prodotti manifatturieri. Infatti, essi sono poco richiesti sul mercato internazionale extra-continentale, ovvero negli scambi commerciali con l’Europa, l’America e l’Asia, che favoriscono invece l’importazione dall’Africa di materie prime. Una rivitalizzazione del mercato artigianale africano potrebbe contribuire ulteriormente a rendere l’economia del continente più dinamica, portando a compimento l’obiettivo dell’AfCFTA.
Tuttavia, gli ostacoli a un’implementazione effettiva dell’area di libero scambio sono numerosi, nonostante la volontà politica dei 54 governi dimostrata a Niamey.
Innanzitutto, il commercio intra-africano rappresenta una percentuale molto bassa degli scambi commerciali totali dell’Africa. La percentuale di commercio interno in Africa sub-sahariana si aggira intorno al 10%, mentre i maggiori partner commerciali dei Paesi africani sono Unione Europea e Stati Uniti. La carenza di commercio interno non è dovuta solamente alla condizione disastrosa delle infrastrutture africane, ai costi dei trasporti e alle pratiche burocratiche da sbrigare alla dogana. Gli Stati africani sono anche poco incoraggiati a commerciare tra loro dal fatto che i Paesi occidentali spesso si offrono di commerciare con l’Africa a tasso zero, come forma di aiuto allo sviluppo. Pertanto, i Paesi africani sono più incentivati a commerciare con l’estero che tra di loro. Se da una parte è vero che la riduzione dei dazi doganali prevista dall’AfCFTA allevierebbe tale problema, il commercio inter-africano rimane a livelli talmente bassi che difficilmente l’incremento previsto dall’accordo potrebbe essere in grado di rilanciare le economie africane.
Un’altra questione da non sottovalutare è la scarsa differenziazione del mercato africano. Questo ha due conseguenze fondamentali: per prima cosa, i Paesi africani tendono a importare dall’estero piuttosto che dai loro vicini, poiché hanno tutti capacità e necessità simili e perciò non sono complementari. In secondo luogo, un’area di libero scambio che abbia l’ambizione, anche remota, di diventare un mercato unico, deve essere capace di creare al suo interno le cosiddette catene di valore globale. Ciò significa che all’interno dell’area devono essere presenti alcuni Paesi che esercitano un’economia centrale, ovvero ospitano le sedi delle grandi aziende e multinazionali, mentre gli altri Paesi dovrebbero costituire invece le cosiddette economie “di fabbrica”, ovvero quelle economie che forniscono forza-lavoro e prodotti intermedi. In Europa, questa distinzione è in atto tra i Paesi nord-occidentali e quelli orientali (di solito quelli con accesso all’Unione successivo al 2004). In Africa tutte le economie sono “di fabbrica”, mentre mancano delle economie centrali che rendano la catena operativa.
Il problema non risiede soltanto nella struttura economica africana e, come è stato detto, nella mancanza di infrastrutture che rende gli spostamenti di merci costosi e difficili, ma anche nella formulazione dell’accordo. Infatti il libero movimento di beni e servizi non può prescindere dal libero movimento delle persone, che invece è ancora fortemente soggetto a impedimenti nel contesto africano, dove ottenere un visto per un Paese confinante può essere molto difficoltoso. A questo bisogna poi aggiungere la scarsa sicurezza della maggior parte dei confini africani, dove la corruzione dilagante e la debolezza delle istituzioni rende il libero passaggio delle merci rischioso ed esposto ad attività illegali.
In ultimo, è opportuno fare ancora un paragone con l’Unione Europea, a cui questo progetto si ispira esplicitamente: l’accesso al mercato unico europeo, nonché alle istituzioni dell’Unione, è limitato dai cosiddetti “criteri di Copenaghen”, ovvero dei prerequisiti economici, politici e sociali che devono essere soddisfatti al fine di accedere. Questo serve a tutelare sia i Paesi già membri sia i candidati, nel caso le loro economie o i loro assetti istituzionali non siano ancora abbastanza maturi. Al contrario, l’accesso all’area di libero scambio africana (sebbene sia opportuno precisare che non è propriamente un mercato unico) è stata aperta a tutti gli Stati africani, indipendentemente dalle loro condizioni economiche, politiche e sociali. Questo rischia, nella migliore delle ipotesi, di rendere l’accordo inefficace in alcuni Paesi; nello scenario peggiore, potrebbe danneggiarli con progetti troppo onerosi o con la ulteriore proliferazione di attività illegali alle frontiere non contrastabili dalle autorità.
In conclusione, il progetto di un’area africana di libero scambio di beni e servizi è un passo storico, vista la volontà politica di Paesi spesso politicamente turbolenti di cooperare per la prosperità economica. La speranza è quella che l’integrazione economica porti a un’integrazione politica, ancora una volta richiamandosi al progetto europeo. Tuttavia, l’ispirazione all’Europa ha prodotto un modello estremamente ambizioso, che per essere applicato necessita di requisiti economici e politici che al momento non sono presenti o non sono presenti a sufficienza sul territorio africano. Pertanto, perché esso si realizzi efficacemente e senza incidenti, sarà necessario il supporto di organizzazioni internazionali come l’UNCTAD o il Fondo Monetario Internazionale. Questo aiuto dovrebbe però essere gestito in modo tale da mantenere un equilibrio tra la necessità dell’Africa di appoggiarsi alle istituzioni multilaterali internazionali e il rispetto dell’autodeterminazione africana, con le opportunità e i rischi che ciò comporta.