La Tunisia secondo Saied: ritornare al passato per guardare al futuro?
Middle East & North Africa

La Tunisia secondo Saied: ritornare al passato per guardare al futuro?

By Angela Ziccardi
03.18.2022

Nell’ultimo periodo la Tunisia sembrerebbe avviarsi verso una nuova torsione autoritaria, specie dopo i cambiamenti istituzionali progressivamente introdotti dal Presidente Kais Saied. Tra questi, l’ultima decisione assunta dal Capo di Stato di dissolvere il Consiglio Superiore di Magistratura (CSM) del 6 febbraio 2022 sembrerebbe testimoniare una preoccupante deriva accentratrice che rischia di compromettere l’assetto democratico raggiunto dal Paese nel post-2011. È da qui, dunque, che bisogna partire per analizzare l’evoluzione e la portata degli eventi, nonché le prospettive future.

La dissoluzione del CSM, infatti, risulta essere l’ultimo step per la totale presa di controllo dei poteri dello Stato da parte del Presidente. Un procedimento graduale iniziato, appunto, lo scorso 25 luglio 2021, quando con l’invocazione dell’art. 80 della Costituzione Kais Saied ha sospeso la Carta fondamentale del 2014 e avocato a sé i pieni poteri dell’esecutivo, imponendo le dimissioni all’allora Primo Ministro Hichem Mechichi e iniziando a governare attraverso decreti presidenziali. Nella stessa occasione Saied ha poi sferrato un ulteriore colpo al potere legislativo con la sospensione dell’Assemblea dei Rappresentanti del Popolo, il Parlamento tunisino, i cui lavori, ad oggi, risultano essere ancora bloccati. Per arrivare infine al potere giudiziario, con il dissolvimento del CSM nella notte del 6 febbraio. A questo è susseguita la pubblicazione del decreto n°11, con cui è stata annunciata l’istituzione di un nuovo CSM provvisorio, ridotto a 21 membri – invece dei 45 del precedente – di cui 9 nominati direttamente dal Presidente. Secondo tale decreto, il Capo di Stato può anche rifiutare la nomina degli altri magistrati non insigniti personalmente da lui, detenendo un potere decisionale diretto o indiretto su tutti i componenti del nuovo organo istituzionale.

Per capire meglio il corso degli eventi, già lo scorso 25 luglio il Presidente aveva annunciato la sua volontà di assumere la Presidenza della procura, licenziando il giorno dopo il Ministro della Giustizia ad interim, Hasna Ben Slimane. Tuttavia, a inasprire ulteriormente le sue posizioni ha contribuito una nota della Commissione Internazionale dei Giuristi (CIG) di dicembre 2021, che proponeva di rafforzare le prerogative del Consiglio Superiore della Magistratura tunisino. Un rischio che ha spinto il Presidente ad agire contro l’apparato giudiziario, abolendo, con un decreto presidenziale lo scorso 19 gennaio 2022, bonus e benefici dei membri del CSM. Al contempo, Saied ha moltiplicato le accuse di corruzione e mancata trasparenza dei magistrati, facendo spesso riferimento alle vicende giudiziarie riguardanti Taïeb Rached, ex Presidente della Corte di Cassazione accusato di arricchimento illegale, e Béchir Akermi, pubblico ministero di Tunisi nonché ex giudice istruttore nel caso dell’assassinio di Chokri Belaïd, evento che ha largamente scosso l’opinione pubblica tunisina. Non è infatti un caso che l’annuncio di dissoluzione del CSM sia arrivato proprio il 6 febbraio, vigilia della commemorazione del nono anniversario della morte di Belaïd. Nella stessa occasione, Saied ha poi insistito sulla necessità di una riforma della giustizia. Tuttavia, per avere luogo, questa necessiterebbe dell’intervento del CSM, che dovrebbe “proporre le riforme ed esprimere il suo parere sulle proposte e sui progetti di legge relativi alla giustizia” ai sensi dell’articolo 114 della Costituzione. Un intervento che, ad oggi, risulterebbe condizionato e non indipendente, visto il peso che il Presidente assumerà nel nuovo organo giudiziario. Senza dimenticare che né la Costituzione del 2014 né la legge sul Consiglio Supremo della Magistratura prevedono un suo eventuale scioglimento. Tuttavia, si tratta di obblighi legali che non sembrano intaccare l’operato di Saied, perché l’assenza di una Corte Costituzionale che si pronunci sulla legalità di queste misure lascia al Presidente un ampio potere discrezionale in tutti i rami dello Stato. Difatti, lo scorso 7 marzo si è arrivati alla finalizzazione del preannunciato nuovo Organo di Controllo Giudiziario “temporaneo”, i cui membri hanno prestato giuramento durante una cerimonia all’interno del palazzo presidenziale. Il Capo di Stato ha definito tale sostituzione un “momento storico che segna la vera indipendenza della magistratura”, ma a ben vedere quest’ultima non fa che diventare meno autonoma, visto che il Presidente detiene ora la liceità di licenziare/revocare “qualsiasi giudice che non adempie ai doveri professionali”, proibendo loro di entrare in sciopero o “tenere qualsiasi azione collettiva organizzata che possa disturbare o ritardare il normale funzionamento dei tribunali”.

Tali modifiche istituzionali non lasciano dubbi sulla deriva accentratrice a cui sta andando incontro Tunisi, la quale tuttavia sembrerebbe cozzare con il progetto di “democrazia consultiva” annunciata dal Presidente fin dal suo arrivo al palazzo di Cartagine nel 2019. Saied ha infatti costruito la sua popolarità personale e la sua candidatura presidenziale sulla contrapposizione all’élite politica tunisina, presentandosi come un outsider pronto a servire il popolo e a rispondere solo ad esso. Per fare ciò, si è fatto portavoce di un sistema di democrazia diretta, teso a dare maggior potere alle autorità locali attraverso la creazione di consigli municipali. Una volontà di decentralizzazione che è sempre stata accompagnata dal secondo grande obiettivo di Saied: far rivivere la Rivoluzione, da lui ritenuta “usurpata”. Il Presidente ha spesso fatto riferimento agli slogan del 2011 per giustificare le sue azioni politiche, ricorrendo in particolar modo al celebre “el shab iurid” (“il popolo vuole”). È in tale ottica simbolista che rientrano molte delle sue azioni, come gli incontri con i “martiri” della Rivoluzione del 2011 – ossia i feriti o le famiglie di coloro che hanno subito perdite durante le azioni attuate con la forza dalle forze di sicurezza nel tentativo di ripristinare l’ordine e la stabilità in quel convulso periodo – e con alcune delle persone maggiormente colpite dalle precedenti politiche socio-economiche, tra cui i lavoratori del bacino minerario di Gafsa, nel sud del Paese. Di analoga interpretazione può essere vista anche la decisione di spostare la data di commemorazione della Rivoluzione dal 14 gennaio al 17 dicembre, giorno in cui Mohammed Bouazizi si diede fuoco a Sidi Bouzid nel 2010 e diede inizio alle proteste, nonché termine elettorale simbolicamente scelto da Saied per indire le prossime consultazioni nazionali. Tuttavia, tali mosse non sono nient’altro che esempi di un cambiamento simbolico, sorretto strumentalmente dalla retorica populista del Presidente e che, nei fatti, hanno portato a un accentramento delle sue prerogative piuttosto che al decentramento di poteri da lui promesso.

Ad esempio, la sua decisione dello scorso novembre di esautorare il Ministero degli Affari Locali per assegnare molte delle medesime mansioni al Dicastero dell’Interno sembra invertire i suoi tentativi di decentramento. Simili argomentazioni possono essere fatte anche in merito alle cosiddette “consultazioni nazionali online”, parte della roadmap di azioni per il 2022 e annunciate da Saied lo scorso 14 dicembre. Tale iniziativa chiama il popolo ad esprimersi direttamente sugli emendamenti costituzionali ed elettorali da sottoporre al referendum previsto il prossimo 25 luglio, tramite una piattaforma online che dovrebbe rappresentare praticamente il concetto di democrazia diretta. Tuttavia, per partecipare bisogna essere maggiorenni, ma soprattutto avere accesso ad Internet e un numero di cellulare registrato a proprio nome. Due aspetti non irrilevanti nel contesto tunisino, dove molti giovani possiedono una SIM a carico di un genitore e, secondo le stime del Forum Tunisino dei Diritti Economici e Sociali (FTDES), i cittadini privi di una connessione rappresentano il 45% della popolazione. Senza dimenticare i tunisini residenti all’estero, per i quali non esiste una procedura che permetta la loro partecipazione.

Di fronte a questi provvedimenti, non è di certo passata inosservata la mancata reazione di corpi intermedi e di alcune organizzazioni civili. Contrariamente alle attese, una buona parte della società civile tunisina, cuore pulsante della rivoluzione e della transizione democratica fino ad oggi, è sorprendentemente rimasta in silenzio di fronte alle misure di Saied. In particolare, i principali sindacati del Paese, l’Unione Generale del Lavoro Tunisino (UGTT) e l’Unione Tunisina dell’Industria, Commercio e Agricoltura (UTICA), hanno assunto un atteggiamento attendista e cauto, limitandosi a pochi comunicati stampa e dichiarazioni mediatiche per esprimere “preoccupazioni” verso la sterzata autoritaria del Paese. I sindacati svolgono un ruolo cruciale in Tunisia, in quanto primo punto di contatto tra lavoratori e governo. Sono stati proprio UGTT e UTICA, insieme all’Ordine Nazionale Tunisino degli Avvocati e la Lega Tunisina dei Diritti Umani (LTDH), a dar vita nel 2013 al dialogo nazionale che ha portato alla stesura della Costituzione, un ruolo che gli ha permesso di ottenere il premio Nobel per la pace nel 2015. Proprio per questo ha colpito soprattutto l’atteggiamento dell’UGTT, che solo lo scorso 4 dicembre ha rilasciato una dichiarazione in cui prendeva le distanze dal Presidente e denunciava i rischi per la protezione delle libertà individuali e collettive. Tale approccio passivo è stato soggetto a diverse interpretazioni: alcuni vi hanno visto un’implicita approvazione delle misure del Presidente, piuttosto dovuta, però, all’operato fallimentare dei precedenti governi. Infatti, molti leader dell’UGTT giudicavano insostenibili le decisioni del governo Mechichi e dei precedenti esecutivi generalmente sostenuti da Ennahda, un non-consenso esasperato a tal punto da portare forse il sindacato a preferire le mosse di Saied al vecchio sistema. Al contempo, la debole reazione dei corpi intermedi potrebbe, secondo altri, essere dovuta all’incapacità di questi a reagire in modo proattivo ai cambiamenti post-25 luglio, non riuscendo a compattarsi da subito per far fronte ai rischi di tali misure per la transizione democratica del Paese, oppure sottovalutandone la portata. Infine, non è da scartare l’ipotesi di possibili ritorsioni politiche o un timore di azioni di repressione e violenza per mano governativa. Con la graduale presa dei poteri del Presidente, vi sono stati diversi casi di violenza da parte delle forze di polizia nei confronti di media o oppositori al regime, accompagnati da arresti di deputati ed esponenti politici. Inoltre, nei palazzi di governo sembrerebbe circolare la bozza di un possibile progetto di legge per regolamentare l’organizzazione delle associazioni, limitandone le prerogative e le libertà. Un modus operandi che potrebbe mettere in guardia i sindacati ed altri corpi intermedi nell’esprimersi chiaramente contro Saied, così da non finire nel gruppo dei dissidenti da silenziare.

L’approccio wait and see di questi esponenti non riflette tuttavia la totalità della società civile. Infatti, dallo scorso 25 luglio, la domenica a Tunisi è caratterizzata da proteste popolari, divise tra coloro che esprimono malcontento per le misure di Saied e coloro che invece supportano il suo operato. Nonostante ciò, colpisce vedere come a riempire le fila delle mobilitazioni a favore del Presidente vi sono molti giovani, che si dicono disillusi dalla vecchia classe politica. Questa componente delle proteste mette in luce una forte spaccatura all’interno della società, confermata anche dal fatto che, ad oggi, il 76% della popolazione si dice favorevole all’operato di Saied e, soprattutto, il 69% dei giovani afferma di non fidarsi dei partiti politici (dati: Arab Reform Initiative). Uno scollamento dovuto essenzialmente alle condizioni socioeconomiche in cui si ritrova la società tunisina, stanca dell’incapacità di governi corrotti nel gestire la politica nazionale e della mancanza di accesso al mondo del lavoro da parte dei giovani, i quali rimangono la componente più colpita dalla crisi. Secondo l’opinione pubblica giovanile, la precedente classe politica si è rivelata del tutto disinteressata a far fronte ai problemi legati alla disoccupazione giovanile – come lo skill-mismatch o la necessità di deregolamentazione del mercato del lavoro – promettendo di affrontare le questioni ma lasciando inalterato il tutto in dibattiti parlamentari senza via d’uscita. Motivo per cui molti hanno piuttosto “giustificato” il congelamento del Parlamento da parte di Saied come conferma fattuale della sua “lotta contro il vecchio sistema”, riponendo fiducia nelle sue mosse e sperando di vedere un cambiamento tangibile dietro il suo operato, che possa apportare davvero a dei miglioramenti nel tessuto economico-sociale.

Infatti, è la situazione economica a complicare ulteriormente il quadro del Paese. Secondo le ultime stime della Banca Mondiale, la Tunisia si ritrova in un contesto di grave instabilità, con un debito pubblico ad oltre il 100% del prodotto interno lordo (PIL), a sua volta sceso di un quinto dalla rivoluzione. Poco confortanti sono anche i dati sul tasso di disoccupazione – aumentato dal 15,1% al 18,4% e particolarmente elevato nelle fasce giovanili e tra le donne – e sul tasso di inflazione, che ha sfiorato il 6,6% nel 2021 e che ha portato il deficit al 7,6% nello stesso anno, corrodendo il potere di acquisto della popolazione. Senza dimenticare il lascito della pandemia da Covid-19, che ha causato il fallimento di oltre 80.000 imprese e ha rallentato ancor più la crescita economica del Paese, ferma al 3% nel 2021. Tutte queste criticità hanno costretto il governo a richiedere nuovi aiuti finanziari al Fondo Monetario Internazionale (FMI) e alla Banca Mondiale – la quale ha già promesso un prestito di 400 miliardi di dollari – per far fronte alle profonde riforme strutturali di cui necessiterebbe il Paese. Tuttavia, è quasi certo che l’erogazione di questi fondi sarà condizionata all’implementazione di politiche di austerità e tagli alla spesa pubblica e salariale, aspetti considerevoli in un Paese dalla struttura economica iper-centralizzata e con una spesa pubblica tra le più alte al mondo rispetto alle dimensioni dell’economia. Di tutto ciò, sarà nuovamente la popolazione a farne le spese, soprattutto le fasce più deboli.

In conclusione, gli eventi susseguitisi al discorso presidenziale del 25 luglio – e in particolare quelli avvenuti dopo il 6 febbraio – dimostrano come la Tunisia stia conoscendo una nuova fase di introversione autoritaria, guidata da un Presidente che punta a ridefinire il concetto di “democrazia diretta” al fine di promuovere un accentramento di poteri. Un processo in fieri che potrebbe continuare senza grandi impedimenti, soprattutto se si guarda alle difficoltà delle altre forze politiche nel farvi fronte comune. Oltre alla risposta di condanna da parte dei partiti tradizionali come Ennahda, il colpo di mano del 25 luglio ha dato vita anche a nuovi gruppi di opposizione, tra cui spicca il collettivo “Cittadini contro il colpo di Stato” (Citizens Against The Coup). Questa nuova coalizione si propone di ripristinare l’ordine costituzionale partendo dalla ripresa delle attività parlamentari e potrebbe dare man forte agli altri piccoli partiti politici di opposizione – tra cui al-Tayyar, Afek Tounes, Ettakatol e Joumhouri – nel fronteggiare la deriva autoritaria del Presidente. Tuttavia, diverse dichiarazioni rilasciate dal collettivo negli ultimi mesi – in particolar modo in merito alla volontà di non soffermarsi su divisioni ideologiche per ripristinare l’azione parlamentare nel Paese – hanno destato sospetti su una sua possibile vicinanza ad Ennahda, debole e diviso al suo interno, ma ancor di più inviso agli altri partiti di opposizione, non lasciando al momento intravedere qualche possibilità di coalizione. Questa assenza di alternative non può che giocare a favore del Presidente, con possibili scenari negativi per l’assetto democratico del Paese.

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