La risoluzione ONU su Gaza e lo strappo tra Israele e Stati Uniti
Dopo cinque mesi e mezzo di conflitto a Gaza, il 25 marzo si è verificato alle Nazioni Unite uno sviluppo importante – e per certi versi inatteso – che potrebbe avere impatti ben più profondi della semplice dinamica di guerra in corso oggi nell’enclave palestinese e in altre aree della regione mediorientale.
Il Consiglio di Sicurezza ha approvato a larga maggioranza una mozione del Mozambico – membro non permanente del consesso – per un cessate il fuoco a Gaza per tutto il periodo rimanente di Ramadan e il rilascio immediato e incondizionato di tutti gli ostaggi. Il documento onusiano prevede anche la garanzia di un accesso umanitario e medico per far fronte alle esigenze più urgenti. A far rumore però è stata la decisione statunitense. A differenza dei tre casi successivi al 7 ottobre, nei quali gli USA hanno posto un veto, questa volta Washington ha deciso di astenersi dalla votazione perché la risoluzione, pur non facendo espressa condanna alle azioni condotte da Hamas, presentava elementi in linea con la posizione della Casa Bianca, mandando così su tutte le furie Israele.
Di fatto, quanto andato in scena alle Nazioni Unite dopo il passaggio a larga maggioranza della risoluzione 2728 del Consiglio di Sicurezza rappresenta un rilevante banco di prova per lo storico asse israelo-statunitense. La decisione assunta dall’Ambasciatrice statunitense Linda Thomas-Greenfield ha innegabilmente mandato un segnale forte e inequivocabile a Tel Aviv, segnalando ancor di più la forte frizione emersa negli ultimi tre mesi e palesata sia dalle dichiarazioni della Vice Presidente Kamala Harris durante il viaggio non autorizzato dal gabinetto di guerra israeliano di Benny Gantz – figura di rilievo nell’esecutivo in questione –, sia dalle parole altrettanto forti usate dal leader della maggioranza democratica al Senato, Chuck Schumer.
La posizione assunta da Washington, quindi, certifica una volta di più l’esistenza di un formale divario tra le visioni statunitensi e quelle israeliane, nonché una certa insofferenza e frustrazione di Washington nell’assecondare la postura militare e politica di Tel Aviv nel conflitto a Gaza. Un discorso in realtà molto più ampio che si estende, nel complesso, all’approccio politico tenuto dall’esecutivo Netanyahu in quasi tutti i dossier di rilevanza strategica di caratura regionale, nel quale gli storici partner si vedono di fatto divisi su numerosi elementi. Una distanza che si è aggravata ancor di più sulla scia delle profonde critiche emerse anche sul fronte europeo, dove il fronte unito di appoggio incondizionato a Israele delle prime settimane dopo i fatti del 7 ottobre 2023 è venuto meno con il deterioramento costante del piano umanitario a Gaza. Una situazione difficile da districare che vede oggi Tel Aviv apparentemente isolata a livello internazionale; al contempo, dati gli sviluppi recenti, è verosimile immaginare un’assenza di quella solida copertura diplomatica di cui ha goduto il Paese dal fronte occidentale, pur nella sua eterogeneità di posizioni.
Tutto questo però non deve portare a facili quanto improvvide considerazioni. Più che lo strappo al Palazzo di Vetro, che è pur sempre un atto formale molto forte e di impatto simbolico e politico, a decretare una possibile rottura tra i partner potrebbe intervenire una scelta americana di condizionamento degli aiuti militari. In quel caso ci troveremmo dinanzi ad un punto di non ritorno dal quale difficilmente si potrebbe tornare indietro. Tuttavia questa ipotesi oggi non è sul tavolo e non vuole essere neanche ipotizzata dall’Amministrazione Biden. Infatti, nonostante lo strappo, non sembrerebbe emergere una chiara volontà di rottura. Per Washington, la necessità di coltivare un rapporto stabile con Israele si lega non solo ai meri motivi di carattere elettorale dovuti alle note esigenze delle presidenziali di novembre. Il discorso è decisamente più intricato e guarda alla profondità, alla valenza simbolica e all’importanza politica, militare e strategica che un rapporto ultra-settantennale ha significato per l’alleanza bilaterale e per la capacità di azione statunitense nell’intero Medio Oriente. Una rottura avrebbe effetti imprevedibili e sicuramente di non poco conto anche per tutti gli altri attori regionali vicini alla Casa Bianca, i quali non necessariamente potrebbero godere di un vantaggio da una situazione simile. Viceversa, è più plausibile immaginare che a beneficiare maggiormente dalla condizione siano quei player come l’Iran e il suo arco di proxies ricadenti nel cosiddetto “asse di resistenza”, i quali si troverebbero a gestire un vantaggio strategico di lungo periodo.
Di converso, e al netto della dura retorica utilizzata, anche da Tel Aviv l’ipotesi di una rottura non è da tenere in considerazione. Per motivazioni speculari a quelle statunitensi, tale passo non sarebbe né conveniente né opportuno in virtù della natura stessa del legame tra i due Paesi: l’alleanza strategica è l’architrave della sicurezza nazionale israeliana e rappresenta un qualcosa di difficilmente replicabile con qualsiasi altro attore globale. La situazione vigente, infatti, pone già Israele in una condizione di difficoltà soprattutto per quel che riguarda la credibilità internazionale e le possibili ripercussioni che un contrasto così netto potrebbe arrecare alla sicurezza del Paese, specie in un momento così delicato per via del conflitto a Gaza, delle inarrestabili tensioni in Cisgiordania e del fronte sempre in bilico con Hezbollah lungo la Blue Line. Anche a questo proposito, è bene ricordare che le tensioni esistenti tra alleati sono dovute, soprattutto, alla contrarietà statunitense nei confronti della condotta della leadership politica oggi al governo in Israele. Questo è elemento è ben noto a tutti i livelli istituzionali e di governance del Paese. Non a caso la missione di Gantz a Washington fa voleva essere un tentativo di ricucire i rapporti e di mostrare un’alternativa credibile e affidabile al partner d’oltreoceano. Al contempo, non si deve sovrastimare la capacità di azione di Netanyahu, la quale oggi vede il Premier muoversi con estrema difficoltà anche a causa delle tensioni interne alla sua maggioranza (riconducibili alle posizioni divisive della destra radicale religiosa e nazionalista) e dell’ostilità aperta di una buona parte della società civile nazionale, oltre che di istituzioni (magistratura e militari) e opposizioni politiche.
In questa prospettiva, sarà importante giocare d’attesa in modo da comprendere il significato complessivo delle azioni simmetriche prodotte dall’una e dall’altra parte. In gioco non vi è soltanto un possibile cambio di approccio politico e/o militare israeliano nella logica del conflitto, ma la storia dei rapporti bilaterali e la capacità israeliana di avere chance di interazione e dialogo nel presente e nel futuro del Medio Oriente, anche al di là dell’Amministrazione Biden.