Israele-Iran: oltre la guerra ombra
Cinque giorni dopo l’operazione iraniana “True Promise” lanciata sui cieli di Israele, il 19 aprile, Tel Aviv ha risposto ai fatti con una contro-rappresaglia che ha colpito per la prima volta il suolo della Repubblica Islamica. Obiettivo dell’attacco sono state le infrastrutture militari della provincia di Isfahan, un’area che ospita anche importanti siti strategici, come Natanz, associati al programma nucleare del Paese. Contemporaneamente, altre esplosioni sarebbero state registrate in Siria – nei governatorati di as-Suwayda e Daraa, in basi dove gli iraniani condividono le difese aeree con le forze locali – e nei pressi di Baghdad e nella provincia di Babil. Nonostante questi attacchi costituiscano un attacco diretto e palese al territorio iraniano, l’azione israeliana sembrerebbe essere stata finora limitata nelle modalità e nel tempo, in maniera simmetrica rispetto a quanto fatto da Teheran pochi giorni prima.
Infatti, al netto della penuria di informazioni e delle diverse versioni riportate dal campo, rimangono aperti numerosi quesiti e scenari relativi a quale potrebbe essere ora il passo successivo nel confronto (sempre meno) ombra che ha segnato l’ultimo decennio tra Israele e Iran. Seppur con toni e distinguo differenti, l’intera comunità internazionale continua a chiedere moderazione a entrambe le parti, in quanto tutti temono un’ulteriore escalation nello scenario mediorientale. Il rischio inevaso è quello di un conflitto diretto tra Israele e Iran, con conseguente deflagrazione del sistema regionale.
Se quella di Tel Aviv, quindi, potrebbe essere stata un’azione volta a rimarcare un chiaro e inequivocabile messaggio a Teheran che può essere colpito in profondità, allo stesso modo, la rappresaglia di quest’ultimo ha mostrato forza e credibilità nel dare seguito alle minacce, al netto di tutti i caveat legati all’attacco annunciato. Il quesito che si pone ora è comprendere se il tutto finirà qui o vi sarà un nuovo seguito. Gli ultimi sviluppi farebbero propendere per una scelta de-escalatoria da parte dei contendenti, sebbene molti altri attacchi israeliani siano avvenuti sui territori dove operano i proxies iraniani tra Iraq, Siria e Libano. In tale dinamica, quindi, non è improbabile ipotizzare che, anche a breve, possano ripetersi nuove e più compiute azioni israeliane contro Hezbollah in Libano o le milizie iraniane in Siria e Iraq. Ad essere attenzionato, però, è soprattutto il Paese dei Cedri, che vive una condizione sistemica difficilissima, con i fantasmi di una guerra civile mai realmente estinti – specie dopo l’omicidio politico di Pascal Sleiman (9 aprile), esponente cristiano-maronita delle Forze Libanesi vicino al leader Samir Geagea – e con un Hezbollah in difficoltà e alle prese con le diverse anime al suo interno che spingono in direzioni opposte tra il sostegno massiccio ad Hamas e Iran e la ricerca (più per opportunità che per volontà) di una “neutralità strategica”, seppur sui generis.
Al contempo, si assiste ad una certa pressione minacciosa nel quadrante del Mar Rosso da parte delle milizie yemenite degli Houthi e ad un interessamento diretto iraniano verso quanto avviene nello Stretto di Hormuz. Non a caso, nelle ore precedenti la rappresaglia del 13 aprile, il Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica (IRGC) aveva assaltato e sequestrato nello Stretto di Hormuz – più precisamente all’uscita dal Golfo Persico – il mercantile MSC Aries battente bandiera portoghese, ma legato a un armatore israeliano. È la seconda volta che accade negli ultimi mesi e con le stesse modalità, il che farebbe presagire un aumento dei rischi alla navigazione nell’intero quadrante indo-mediterraneo, con l’alta probabilità che Hormuz possa rientrare nell’escalation di tensioni regionali tra Israele e Iran, influenzando direttamente le dinamiche lungo la direttrice tra il Canale di Suez e Bab al-Mandeb. Infatti, una possibile chiusura da parte iraniana del terzo collo di bottiglia dell’area mediorientale e secondo per valori assoluti dopo lo Stretto di Malacca – dove ogni giorno transitano più di 20 milioni di barili e circa un terzo del commercio mondiale – rappresenterebbe un grave problema enorme non solo per gli attori rivieraschi.
Di fatto, prevale un clima di generale incertezza, alimentato anche dalla posizione assunta dai due contendenti, i quali non hanno allontanato in maniera definitiva il rischio di una possibile riproposizione della dinamica nel breve-medio periodo. Infatti, ambo le parti sembrerebbero in una fase di attesa, con la consapevolezza e la sicurezza di avere reciprocamente a disposizione più strumenti e informazioni per colpire l’avversario.
In questa prospettiva emerge una nuova e più preoccupante fase di insicurezza e instabilità nello scontro in corso in Medio Oriente e negli equilibri sempre più controversi della regione allargata. A preoccupare, è la condizione generalizzata di fragilità che attraversa l’intera arena, a cui si aggiungono le posizioni sfumate e ambigue dei singoli player regionali, interessati a “galleggiare” tra le rispettive necessità di sicurezza nazionale e l’esigenza (e volontà) di non schierarsi apertamente nella crisi fra Israele e Iran, in modo da poter continuare quella pratica da battitori liberi che ha permesso loro di agire su più livelli e dimensioni nelle dinamiche politiche, economiche, strategiche e di sicurezza mediorientali.
Una condizione che ha accomunato, in particolar modo, Arabia Saudita e Giordania, i quali sono stati immediatamente individuati dai commentatori internazionali come attori desiderosi di aiutare Israele perché mossi dal forte ardore anti-iraniano. Benché sia innegabile che esistano numerosi aspetti critici, anche e soprattutto legati alla sfera religiosa, che pongono molti popoli arabi in una contrapposizione anti-iranica, è altrettanto vero che la percezione di USA e Israele non necessariamente collima con le priorità degli Stati della regione. In altre parole, è importante non confondere il supporto logistico a scopo difensivo fornito da Arabia Saudita e Giordania nelle azioni del 13 aprile a Israele contro l’Iran come l’inizio, sotto nuove forme, di un’era diversa di cooperazione aperta tra i Paesi arabi e Tel Aviv. Anzi, specie nel Golfo, la necessità di preservare quella forma di distensione inaugurata oltre un anno fa con Teheran (marzo 2023), spinge ancora molte monarchie ad assumere posizioni ambivalenti nel tentativo di non farsi stritolare dalle logiche passate già vissute con l’Iraq nel 2003. Di fatto, a Riyadh, ad Amman, così come nel resto della regione mediorientale, i decisori politici sono soprattutto interessati a evitare che il conflitto tra Israele e Iran possa coinvolgerli in maniera diretta o indiretta. La parola chiave per tutti rimane stabilità, domestica e mediorientale. Pertanto, anche intervenire come hanno fatto questi Paesi il 13 aprile e ribadire subito dopo di non voler fornire alcun adito a USA e Israele per azioni contro Teheran, risponde a esigenze squisitamente di interesse nazionale e regionale. Infatti, non si può negare che i maggiori constraints ad una deflagrazione regionale siano giunti soprattutto dalla diplomazia e, in particolar modo, dal ruolo deciso assunto da tutti gli attori regionali e internazionali nell’impedire che prendesse piede lo scenario peggiore possibile tra quelli in essere, a testimonianza, quindi, di quanto fosse alta la posta in palio non solo per Iran e Israele.
Altresì, è pur vero, che nell’ultimo decennio Washington ha spinto notevolmente su tutti gli attori regionali vicini per costruire un’architettura di sicurezza sistemica che mirasse a definire un più stretto coordinamento in materia di intelligence, difesa aerea e industria militare. In questa prospettiva, può essere letta la decisione del Pentagono (gennaio 2021) di trasferire Israele dallo US European Command (EUCOM) al US Central Command (CENTCOM). Una scelta volta a dare fiducia e sicurezza ai partner di area senza avere ricadute sull’impianto politico ed economico degli Accordi di Abramo, né intaccare le prospettive/retoriche di un disengagement americano dalla regione. Di fatto, un’iniziativa volta a costruire una cooperazione più stretta, che, nel 2022, ha portato alla luce la rete regionale di difesa aerea nota come Middle East Air Defense Alliance (MEAD). Ora è difficile affermare che questo meccanismo sia intervenuto negli eventi dei giorni scorsi, così come è altrettanto complesso poter asserire che il passaggio in questione sia propedeutico e mirato a rafforzare il processo politico ancora esistente sotto il cappello degli Accordi di Abramo.
Tutto ciò, però, dimostra che, al netto dei distinguo degli attori arabi e delle iniziative militari svolte dagli interessati, qualcosa è accaduto nella regione e solo il tempo dirà se quanto accaduto sarà uno spartiacque verso una nuova era di collaborazione tra Paesi arabi e Israele, nel quale l’Iran rimarrà sì centrale, ma presumibilmente come target e non come soggetto coinvolto nel processo.
Ecco, perché, alla luce delle evoluzioni occorse e dei primi impatti già definiti sulla regione mediorientale, se il pericolo di una escalation è per ora congelato è anche vero che bisognerà attendere le prossime mosse del gabinetto di guerra israeliano per capire fin dove voglia o possa spingersi nella dinamica specifica nei confronti di Teheran e nella guerra ancora in corso a Gaza. È plausibile pensare che questi sviluppi diranno molto del futuro prossimo dell’area. Preparare un’offensiva terrestre su Rafah, scommettere su altri teatri di confronto indiretto come il Libano o, addirittura, preparare una nuova rappresaglia futura contro l’Iran. In tutti i casi, il minimo comune denominatore per Israele è che queste opzioni aiutino a ricompattare il fronte interno, fornendo, soprattutto nel caso libanese e iraniano, l’opportunità per una maggiore coesione e godere di un pieno supporto occidentale contro Teheran. Le scelte dovranno, dunque, essere oculate in quanto potranno definire un concreto sviluppo da uno scenario bellico importante ma limitato dal punto di vista spaziale (come Gaza) ad una guerra potenzialmente totale, che pur usando un teatro proxy, come il Libano per l’appunto, potrebbe però travalicare facilmente i confini politici e geografici del Medio Oriente.