Israele-Hezbollah: alta tensione lungo il confine con il Libano
Middle East & North Africa

Israele-Hezbollah: alta tensione lungo il confine con il Libano

By Giuseppe Dentice
03.08.2024

In un contesto regionale sempre più esteso, interconnesso e deteriorato, il rischio di una improvvisa fiammata non rappresenterebbe una evoluzione inaspettata. Sebbene le attenzioni mondiali siano focalizzate su quanto va in scena tra la Striscia di Gaza e il Mar Rosso, a destare crescenti preoccupazioni è soprattutto la faticosa condizione di controllo dell’escalation delle violenze lungo il confine tra Israele e Libano.

Infatti, il 5 marzo, un attacco aereo delle Israeli Defence Forces (IDF) ha colpito il sud del Libano, causando 4 vittime tra le fila di Hezbollah. Il raid è avvenuto poche ore dopo che un attacco missilistico attribuito ai militanti sciiti aveva ucciso un lavoratore straniero nel nord di Israele. Un botta e risposta immediato che avveniva mentre l’Inviato Speciale statunitense Amos Hochstein si trovava in missione a Beirut per negoziare su un cessate il fuoco duraturo al confine.

Sin dall’inizio del conflitto il 7 ottobre scorso, gli scontri a fuoco tra Israele ed Hezbollah sono avvenuti in maniera sistematica e quasi giornaliera, producendo vittime da ambo i lati (più di 215 combattenti di Hezbollah e quasi i 40 civili caduti sul lato libanese mentre sono 9 i soldati e 10 civili israeliani rimasti uccisi negli attacchi) e migliaia di sfollati (circa 60.000 persone evacuate) nelle aree settentrionali israeliane prossime al confine.

Nonostante, l’episodio rappresenti solo l’ultimo di una sequela interminabile di eventi violenti, l’attacco del 5 marzo, seppur grave, non disegnerebbe ancora un punto di non ritorno nella dinamica bilaterale. Una condizione che forse non si accenderebbe neanche dinanzi l’avvio dell’attesa operazione israeliana su Rafah. Al netto dell’intensificarsi delle violenze e dei toni verbosi e sempre più retorici, i combattimenti tra Hezbollah e IDF sono rimasti confinati nelle aree prossime alla Blue Line e sembrerebbero ancora lontani dal raggiungere un apice tale da far precipitare la tensione in un inevitabile, progressivo e preoccupante allargamento del conflitto su scala regionale. Ne è una chiara dimostrazione di questo schema la “contenuta” reazione del cosiddetto Partito di Dio all’uccisione di Salah al-Arouri, un importante leader di Hamas a Beirut, il 2 gennaio scorso.

Le azioni di Hezbollah, quindi, evidenziano che né il partito-milizia né il suo protettore, l’Iran, sono alla ricerca di una guerra su vasta scala contro Israele. In generale, il gruppo libanese si pone in una modalità reattiva, nella quale all’intensificazione o meno della sua operatività corrisponde un’azione eguale e contraria da parte dell’attaccante israeliano. In altre parole, la possibilità che sia Hezbollah a fare il primo passo verso un’offensiva su larga scala non appare l’opzione principalmente perseguita dal Partito di Dio.

Tale valutazione è basata su un doppio livello di considerazioni. Innanzitutto, la necessità da parte di Hezbollah di farsi percepire come vittima e aggredito da un eventuale attacco israeliano. Un siffatto scenario favorirebbe una maggiore coesione domestica e una più compatta reazione anche fuori i confini del Libano. In quel caso, il confronto diretto di Hezbollah con Israele sarebbe inevitabile e riceverebbe il pieno sostegno delle milizie sciite in Siria e Iraq. Inoltre, in maniera quasi naturale, anche l’Iran sarebbe chiamato a dover supportare il proxy alleato contro Israele e gli Stati Uniti, definendo quindi quello scenario catastrofico che invece tutti sembrerebbero rifuggire. In secondo luogo, Hezbollah non sembra disposto a farsi trascinare in un conflitto che coinvolgerebbe l’intero Paese alle prese con una delle peggiori crisi politico-economico-sociale-istituzionale della sua storia, mettendo a rischio la sopravvivenza del gruppo stesso. Questo, però, non significa che la milizia sciita libanese possa o voglia rimanere a guardare troppo a lungo. È altresì possibile che il gruppo possa sentire l’esigenza di lanciare un attacco nel momento in cui lo scenario in costante evoluzione presentasse un’occasione per ridefinire obiettivi e strategie.

Viceversa, in tale contesto, non è da sottovalutare la volontà di Tel Aviv nel voler spingere sull’acceleratore e ricercare una frizione che possa sfuggire presto di mano, in modo da essere usata come pretesto per un’offensiva contro Hezbollah. Ciò darebbe il via a quell’allargamento del conflitto che da un lato permetterebbe a Tel Aviv di degradare le capacità operative della milizia sciita, dall’altro allenterebbe le attenzioni (e le critiche) internazionali nei suoi confronti su Gaza. Inoltre, uno sviluppo del genere aiuterebbe il governo israeliano a ricompattare il fronte interno – specie se dovesse avverarsi un’aggressione dal Libano – e, presumibilmente, anche quello esterno, nonostante gli alleati occidentali abbiamo mostrato insoddisfazione nei confronti della condotta del partner nella campagna militare (e reputazionale) lanciata sull’enclave palestinese e in Cisgiordania.

Infatti, le autorità politiche israeliane in numerose dichiarazioni pubbliche hanno ammesso di essere pronte a sostenere uno sforzo militare su due fronti (Gaza e Libano), nel caso in cui la via diplomatica statunitense si mostrasse inconcludente o non garantisse la percezione di sicurezza di Tel Aviv. Più che un’opzione concreta sul terreno, questa rimane un’ipotesi cavalcata solo da una parte del gabinetto di guerra – verosimilmente quella che fa capo al Premier Benjamin Netanyahu e a Sionismo Ebraico –, mentre verrebbe ostacolata dalle Forze Armate israeliane – le quali hanno ritenuto tale scenario come uno sforzo eccessivo da non perseguire – e soprattutto dagli Stati Uniti.

Un’operazione di questo tipo contro Hezbollah non farebbe altro che approfondire le differenze notevoli emerse tra Tel Aviv e Washington, con il primo che si troverebbe a dover gestire un difficile isolamento internazionale e con un alleato non interessato ad una guerra regionale in un anno elettorale scomodo come quello a cui va incontro l’attuale Amministrazione Biden. Senza dimenticare che a differenza di Gaza, gli USA rischierebbero di trovarsi impantanati e maggiormente coinvolti in un conflitto contro un nemico decisamente peggiore di Hamas, con una capacità militare offensiva superiore (è molto probabile che Hezbollah abbia la facoltà di colpire Tel Aviv e altri luoghi critici, come la città portuale di Haifa, grazie all’importante stock missilistico a sua disposizione) e un’esperienza consolidata anche dalla guerra in Siria.

Pertanto, uno scontro su vasta scala tra Israele e Hezbollah provocherebbe effetti multipli non solo verso una conflagrazione regionale, ma avrebbe impatti notevoli anche sulla sicurezza internazionale, sui mercati energetici, sulla sicurezza marittima e sugli sforzi umanitari. Tale evoluzione allontanerebbe, quindi, qualsiasi opzione diplomatica sul tappeto in merito alla questione precipua della Blue Line libanese, rendendo, di converso, ingestibile gli scenari cardine di Gaza e (presumibilmente anche) della Cisgiordania.

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