In Myanmar le piazze sfidano il governo golpista
La possibilità di consolidare l’esperimento democratico in Myanmar si è rivelata velleitaria di fronte al colpo di Stato che, agli inizi del febbraio 2021, ha consegnato nuovamente il Paese nelle mani di una giunta militare guidata dal generale Min Aung Hlaing, capo di Stato Maggiore dell’onnipotente esercito birmano (Tatmadaw). A poche ore dall’inaugurazione del nuovo parlamento, numerosi esponenti del partito National League for Democracy (NLD) sono stati arrestati, tra loro anche la leader Aung San Suu Kyi. Nelle settimane precedenti gli alti gradi militari avevano denunciato l’irregolarità delle ultime elezioni paventando la possibilità di un’azione golpista qualora il governo non avesse verificato la validità del voto. Agli arresti è seguita la chiusura e l’isolamento del paese con il blocco di Internet, dei social-media e la dichiarazione dello Stato di emergenza a norma degli articoli 417 e 418 della Costituzione birmana del 2008. Aung San Suu Kyi, insieme ad alcuni suoi collaboratori, è stata accusata di importazione illegale di tecnologie di comunicazione (walkie-talkie), imputazioni presto estese al mancato rispetto di protocolli anti-covid e alla corruzione. Tuttavia la popolazione non ha accettato l’ennesimo colpo di Stato ed è scesa in piazza per protestare, chiedere il rispetto del risultato elettorale dello scorso marzo e la liberazione dei detenuti politici. Quello che avrebbe dovuto essere l’ennesimo colpo di Stato della storia birmana si è trasformato, in poco più di un mese, in uno scontro aperto tra giunta militare e popolazione civile.
Partita dagli studenti, la rivolta ha ben prresto conosciuto un’adesione trasversale alla società civile e alle diverse minoranze, sia etniche sia religios, che si sono unite in un’unanime condanna della destitutione delle istituzioni civili e dell’inizio del governo della giunta militare. La giunta ha reagito dispiegando le forze armate nelle strade ed in poche settimane l’escalation di violenza ha portato alla morte di un centinaio di manifestanti, quasi tutti colpiti a morte da cecchini o proiettili sparati ad altezza d’uomo. Il regime ha altresì inasprito gli arresti, inviato mezzi blindati e schierato la 33° Divisione di Fanteria Leggera, unità d’élite responsabile dei massacri della minoranza musulmana Rohingya nel 2017. La repressione ha finito tuttavia per rafforzare il fronte del dissenso al punto che, dopo aver proclamato uno sciopero generale, i principali gruppi di protesta si sono uniti sotto le insegne dei numeri 22222 (22 febbraio 2021), chiaro riferimento simbolico alle rivolte dell’8 agosto 1988 (divenute in seguito famose come 8888) contro il Partito del Programma Socialista all’epoca al potere. La generazione ’88, quella che partecipò in prima persona alle dimostrazioni contro la dittatura, è divenuta il modello della disobbedienza civile odierna e potrebbe essere la premessa ad una resistenza civile maggiormente organizzata. D’altra parte, i manifestanti hanno inserito il proprio movimento all’interno di quell’onda lunga di dissenso democratico che sta attraversando l’Asia ormai da un anno a questa parte e che unisce idealmente le piazze dalla Thailandia ad Hong-Kong fino a Taiwan sotto lo slogan della “Milk Tea Alliance”.
Sebbene il Myanmar sia al centro di diversi interessi stranieri, le origini del golpe è probabile vadano ricercate nel complesso panorama politico del Paese e nei suoi precari equilibri. La Costituzione disegna per il Tatmadaw un ruolo centrale nel controllo della vita politica, sociale ed economica, tanto da assegnare di diritto al partito espressione dei militari (l’Unione della Solidarietà dello Sviluppo/USDP) una quota fissa di seggi parlamentari (25%) e i dicasteri-chiave di Interno, Difesa e Affari di Confine. Membri dello Stato Maggiore siedono inoltre permanentemente nel Consiglio per la difesa e la sicurezza nazionale, organo di controllo e veto su qualunque legge considerata nociva per l’unità del Myanmar e la sua sicurezza. Il potere dei militari si è rafforzato nel tempo grazie alla predominanza dei dossier di sicurezza all’interno dell’agenda nazionale, in primis rispetto alla conflittualità con i gruppi di insorgenza organizzati su base etnica e attivi soprattutto nelle aree di confine. Il mantenimento di un costante stato di allerta e di tensione con queste realtà, inoltre, sembrerebbe aver consentito agli alti quadri dell’esercito di mantenere un controllo informale, o quanto meno di lucrare, su una parte dei traffici illeciti che attraversano il Paese e che avrebbero oliato gli ingranaggi di un articolato sistema di patronato e clientele, interno allo stesso Tatmadaw.
In tal senso, il golpe di febbraio è appare come il tentativo delle gerarchie militari di forzare la mano per mettere in discussione il cammino politico avviato nel 2011 e la collaborazione con l’NLD di Aung San Suu Kyi per riprendere le redini del Paese. I principali fattori che potrebbero aver contribuito a tale scelta sembrerebbero essere attribuibili alla schiacciante vittoria dell’NLD nelle elezioni di novembre, alla crisi economica e del coronavirus e allo stallo nelle trattative di pace con i ribelli. La combinazione di questi eventi, infatti, ha rappresentato una potenziale minaccia al sistema di potere dei militari. Con l’83% di consensi acquisiti nelle ultime consultazioni, il partito della Suu Kyi si sarebbe assicurata una schiacciante maggioranza sul partito di opposizione, USDP (Union Solidarity and Development Party), da sempre formazione politica di riferimento e di espressione degli interessi dell’establishment militare È altresì probabile che, sulla lettura che i militari hanno dato delle dinamiche suddette, abbiano influito in modo preponderante gli interessi personali dello stesso Hlaing e dei suoi fedelissimi. In quanto capo di Stato Maggiore dell’esercito, egli detiene il controllo dei due principali conglomerati economici del Paese: la Myanmar Economic Corporation e la holding Myanmar Economic Limited. Il mandato del generale sarebbe scaduto nel luglio prossimo e questo avrebbe messo a repentaglio il sistema di patronato, che coinvolge anche membri della sua famiglia e su cui si basa, di fatto, la sua capacità di influenza interna al Paese.
In un momento in cui l’escalation di violenze negli scontri tra manifestanti e Forze Armate sta provocando una rapida degenerazione della situazione all’interno del Paese, il futuro sviluppo degli eventi potrebbe essere legato alla reazione della Comunità Internazionale. Ad oggi, infatti, il fronte internazionale continua ad essere diviso rispetto alla postura da assumerne nei confronti della giunta. Gli Stati Uniti hanno disposto nuove sanzioni nei confronti dei leader del colpo di Stato esecutori e di alcune aziende coinvolte nel settore dell’estrazione di materiali preziosi, mentre da parte europea nuove misure sanzionatorie sarebbero in fase di approvazione a Bruxelles. Più cauta, invece è stata fino ad ora la posizione dei Paesi asiatici e dell’Associazione dei Paesi del Sudest Asiatico (ASEAN), di cui il Myanmar fa parte. Nonostante l’iniziativa presa dall’Indonesia per cercare di mediare la crisi, il gruppo fino ad ora sembra ha mantenuto un atteggiamento piuttosto cauto rispetto agli eventi e si è limitata ad invocare una risoluzione pacifica della questione. Allo stesso modo, anche la Cina sta assumendo una posizione decisamente attendista rispetto agli sviluppi della crisi. Sebbene appaia alquanto improbabile che Pechino fosse a conoscenza delle intenzioni dei generali prima del colpo di Stato, rimane indubbio che il governo cinese abbia successivamente avviato un dialogo con il governo golpista per assicurarsi la tutela dei propri interessi anche a fronte del nuovo status quo. Gli interessi cinesi nel Paese guardano tanto alla posizione geografica del Myanmar quanto alle sue risorse naturali. Per il Partito Comunista Cinese (PCC) l’ex Birmania è la principale alternativa allo Stretto di Malacca per l’approvvigionamento energetico e commerciale. Il corridoio sino-birmano permetterebbe alla Cina di ridurre distanze, costi e dipendenze dalle rotte marine soggette potenzialmente ad azioni di esclusione da parte di potenze navali nemiche (Stati Uniti ed India). Uno dei progetti più importanti è quello del porto di Kyaukpyu, un hub per il rifornimento di petrolio collegato ad una rete di autostrade, gasdotti e oleodotti connessi direttamente con la città cinese di Kunming nello Yunnan. Parimenti, la Cina è interessata a sfruttare le potenzialità del mercato interno del Myanmar e della sua giovane popolazione ma la possibilità di massicci investimenti rimane legata alla stabilità interna del Paese ed alla sua legittimità internazionale. Se il regime militare venisse nuovamente sanzionato con conseguenze dirette sull’economia birmana, Pechino correrebbe il rischio di dover scegliere tra assumersi la responsabilità di non allinearsi apertamente alla posizione internazionale e perdere un profittevole mercato di sbocco. Da questo punto di vista, il golpe non favorisce certamente la posizione cinese ma il PCC non può condannare apertamente i militari senza contraddire uno dei principi cardine della sua politica estera, la non-ingerenza e il rispetto della sovranità. Un’eccezione nel caso del Myanmar, anche se allineata all’Occidente, sancirebbe un precedente. Benchè il supporto di Pechino potrebbe effettivamente ridimensionare l’efficacia di eventuali azioni sanzionatorie di Paesi terzi, non è da escludere che la Cina decida di fare un passo indietro nel dialogo con il governo golpista. I recenti attacchi da parte dei manifestanti contro attività economiche cinesi alla perfieria di Yangon, infatti, hanno allarmato Pechino al punto da chiedere ufficialmente alla giunta di riprendere il controllo della situazione. Ma se quest’ultima dovesse dimostrarsi così incapace da porre in pericolo gli interessi cinesi, Xi Jinping potrebbe anche pensare di scaricare Hlaing e i suoi fedelissimi.
Di fronte ad una situazione altamente volatile, inoltre, un indebolimento del vertice militare potrebbe portare ad una spaccatura all’interno del Tatmadaw lungo faglie di interessi politici e di potere. All’interno delle stesse Forze Armate, infatti, cominciano a serpeggiare malumori rispetto alla repressione e all’alto numero di morti e non è impensabile ipotizzare la nascita di una Fronda potenzialmente disposta ad allinearsi con i dimostranti per tirare la propria volata all’interno dell’establishment militare . Le fortune del regime rimangono comunque legate alla sorte di Aung San Suu Kyi e all’esito del processo a cui è sottoposta. Una condanna della leader potrebbe rappresentare il punto di non ritorno per la giunta che, di conseguenza, ha bisogno di guadagnare tempo e lo farà probabilmente allungando i tempi del procedimento. In tal modo, i generali sperano di poter riprendere il controllo della situazione nelle strade, rinsaldare il loro potere indebolendo i partiti e le associazioni pro-democrazia e riconvertirsi ad un governo civile o restituire il potere alle autorità civili ma sotto un giogo sempre più stretto.