Giunta contro giunta: La Guinea tra giustizia di transizione ed incertezza politica
Dal settembre scorso la Guinea si trova in una situazione politica a dir poco bizzarra. A tredici anni esatti dal massacro occorso presso lo stadio di calcio di Dixinn, distretto della capitale Conakry, si è finalmente aperto il processo a carico dei vertici della giunta militare al potere dal dicembre 2008 al gennaio 2010, tra cui Moussa Dadis Camara, noto ai più come Dadis, capitano della guardia presidenziale (i cosiddetti berretti rossi) ed ex capo di stato. Il tribolato paese dell’Africa occidentale non è purtroppo nuovo a colpi di stato, né sorprende più di tanto il ritardo accumulato nell’organizzazione del processo suddetto. L’unicità della situazione attuale è dovuta al fatto che il processo sia stato fortemente voluto ed organizzato non dal presidente Alpha Condé, democraticamente eletto nel dicembre 2010 e rimasto in carica per quasi undici anni, bensì dalla nuova giunta militare che lo ha rimosso dal potere nel settembre 2021. Ed è così che si è venuto a creare un apparente controsenso: giunta contro giunta; membri del medesimo corpo militare (i berretti rossi), l’uno contro l’altro. Invece di impedire o comunque ostacolare il procedimento penale a carico dei compagni d’armi, come ci si potrebbe attendere in simili circostanze, la nuova giunta militare guidata dal colonnello Mamady Doumbouya si è prodigata per superare gli impedimenti strutturali e di organico addotti dalla precedente amministrazione, giungendo infine alla fase dibattimentale.
Primo paese dell’Africa subsahariana ad ottenere l’indipendenza dalla Francia nell’ottobre del 1958, della Guinea si parla quasi esclusivamente a proposito dei ricchi giacimenti di bauxite che ne fanno il secondo paese produttore a livello globale. Nonostante tale ricchezza mineraria, la Guinea figura ancora tra i dieci paesi meno sviluppati secondo le Nazioni Unite (2022 Human Development Index - HDI). In prospettiva storica, le forze armate hanno sempre giocato un ruolo centrale, se non decisivo, nella vita politica del paese. Queste prima garantirono il proprio sostegno ad Ahmed Sekou Touré, leader nazionalista e primo presidente della Guinea indipendente dal giogo coloniale (1958-1984), e successivamente attuarono il colpo di stato che instaurò un militare di carriera, Lansana Conté, alla guida del paese per oltre un ventennio (1984-2008). La spesa militare, che nel 2008 ammontava al 12,65% del bilancio nazionale, crebbe vertiginosamente in seguito alla seconda presa del potere dei militari nel dicembre dello stesso anno, superando il 24% nel 2009 ed addirittura il 33,5% nel 2010.
La morsa dei militari sulla vita politica ed economica del paese non si allentò nemmeno dopo l’elezione di Alpha Condé alla presidenza nel 2010, come dimostrato dalla decisione di quest’ultimo di affidare due ministeri (quello per la lotta al crimine organizzato e quello per la sicurezza presidenziale) ad altrettanti membri di spicco della precedente giunta personalmente implicati nel massacro del 28 settembre 2009. Nonostante queste precauzioni istituzionali, per così dire, nel luglio 2011 Condé scampò fortunosamente ad un attentato contro la sua persona realizzato da membri dell’esercito e della guardia presidenziale. Nei dieci anni successivi, Condé tentò in tutti i modi di consolidare il proprio potere, riuscendo infine a farsi eleggere per un terzo e controverso mandato nell’autunno 2020 dopo aver fatto appositamente emendare la costituzione. Nel settembre 2021, quando i berretti rossi del colonnello Doumbouya posero fine al regime di Condé, la notizia fu accolta con sollievo, se non addirittura gioia, da tutte quelle forze di opposizione che temevano l’instaurarsi di una presidenza a vita e la conseguente deriva autoritaria del paese. Dopo mesi di estenuanti trattative con le forze politiche e sociali, nonché sotto la costante pressione della comunità internazionale, l’attuale giunta ha infine reso nota la tabella di marcia verso il ritorno alle urne: si voterà ad inizio 2025 con la promessa che né Doumbouya né altri membri della giunta o del governo di transizione correranno per la presidenza.
L’analisi che segue si basa su venticinque interviste condotte dallo scrivente a Conakry con leader politici, funzionari di governo, magistrati, avvocati e vittime tra la fine di maggio e metà giugno 2023 e mira a chiarire i motivi, innanzitutto politici, che hanno indotto l’attuale giunta a processare Dadis insieme ad altri dieci imputati, tutti membri delle forze armate. Un primo dato interessante riguarda il ruolo della comunità internazionale nel mettere pressione alle autorità guineane succedutesi nel tempo affinché si facesse giustizia. In particolare, ben diciassette intervistati (su venticinque) hanno riconosciuto e lodato il contributo fondamentale della Corte Penale Internazionale (CPI) e del suo costante monitoraggio della situazione politica e giudiziaria del paese africano. Senza la pressione istituzionale esercitata dalla CPI, in altre parole, non vi sarebbe mai stato alcun processo a carico di Dadis e dei vertici della giunta militare da lui guidata.
Sarebbe tuttavia errato pensare che il suddetto processo sia un risultato del tutto esogeno alla politica guineana. Nello specifico, l’attuale giunta trae un duplice beneficio dalla celebrazione del processo. In primo luogo, la giunta si è fatta garante del procedimento in corso ed in tal modo giustifica la propria permanenza al potere, almeno fino alle prossime elezioni presidenziali. La celebrazione del processo serve altresì a rimarcare la differenza col precedente governo che, pur favorevole a parole, di fatto l’ha sempre osteggiato e rimandato sine die. Non è dunque un caso che sia le associazioni delle vittime sia numerosi leader politici, all’opposizione durante il decennio di presidenza Condé, abbiano pubblicamente e privatamente espresso il proprio gradimento per quanto l’attuale giunta militare stia facendo.
Ma speranze e preoccupazioni tendono a compensarsi nelle opinioni degli intervistati. Per prima cosa, molti hanno notato fin da subito pericolose analogie col passato. Al pari di Doumbouya, infatti, anche Dadis nel 2009 promise di non avvantaggiarsi della propria posizione di capo della giunta militare per farsi eleggere presidente salvo poi cambiare idea, scatenando veementi proteste di piazza puntualmente represse nel sangue. La storia della Guinea indipendente è oltremodo chiara a tal proposito: ad oggi nessun capo di stato in carica ha mai rassegnato le proprie dimissioni, accettato una sconfitta elettorale o comunque acconsentito ad un pacifico trasferimento di poteri. Memori di tutto ciò, sette intervistati temono che la storia sia destinata a ripetersi ancora una volta in occasione delle prossime elezioni presidenziali.
Oltre a ciò, c’è il diffuso timore che un approccio giudiziario al fenomeno della violenza politica in Guinea possa distorcere la verità storica, creando così false dicotomie tra vittime e carnefici, buoni e cattivi. A tal proposito, quattro intervistati hanno espresso tutto il loro disappunto con riferimento alla scelta della CPI di concentrarsi esclusivamente sul massacro del settembre 2009. Secondo loro, l’avvio di un esame preliminare, deciso dall’allora procuratore capo della CPI Luis Moreno Ocampo già a metà ottobre del 2009, avrebbe indebitamente catalizzato l’attenzione della comunità internazionale su di un singolo evento, pur di eccezionale gravità, a scapito di altri massacri od episodi di violenza di massa occorsi sia prima che dopo di esso.
L’approccio giudiziario ha anche un secondo limite, più volte menzionato durante le interviste. Un procedimento penale mira infatti ad accertare la responsabilità personale degli imputati, ma così facendo si trascura la dimensione collettiva (o etnolinguistica, nel caso di specie) della questione. Nel dettaglio, Dadis è stato il primo capo di stato proveniente dalla Guinea forestale, la regione più remota ed economicamente arretrata del paese. A prescindere dalle sue colpe, Dadis gode ancora di ampio supporto da parte dei suoi corregionali, i quali sospettano che l’odierno processo sia in realtà una resa dei conti atta ad estromettere i rimanenti membri della loro comunità da posizioni di potere e ristabilire le ‘gerarchie etniche’ precedenti al colpo di stato del dicembre 2008.
Ben consci di questa dimensione collettiva, sette intervistati, tra cui alcuni leader politici, hanno avanzato l’ipotesi di concedere un’amnistia (od altra forma di perdono giudiziale) in caso di condanna di Dadis e coimputati. Una volta stabilità la verità processuale, a loro modo di vedere, un provvedimento di clemenza potrebbe facilitare la pacificazione della Guinea e fugare i timori di una comunità che, al pari del proprio leader, si sente sotto accusa. E non è un caso che i leader politici si facciano promotori di una simile iniziativa, visto che i voti della Guinea forestale fanno gola a tutti e potrebbero risultare decisivi nella corsa alla presidenza. In conclusione, preme ribadire come l’attuale processo sia visto positivamente da un’ampia maggioranza del campione intervistato. Per alcuni, il momento è addirittura storico: mai si sarebbero immaginati di vedere un ex capo di stato rispondere dei propri reati in tribunale, come un delinquente qualunque, in un paese in cui i ricchi ed i potenti hanno sempre goduto della piena impunità. È però chiaro a tutti che un verdetto di colpevolezza avrebbe immediate ricadute sociali e politiche, e la priorità rimane dunque quella di bilanciare le esigenze di giustizia con la pace sociale tra le varie comunità etnolinguistiche.