Geopolitical Weekly n.123
India-Pakistan
I primi ministri di Pakistan e India, Nawaz Sharif e Manmohan Singh, si sono incontrati il 29 settembre a margine dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Si è trattato del primo incontro fra Singh e il neo-eletto Sharif, entrambi leader estremamente favorevoli alla distensione fra i due storici rivali del Subcontinente. Tuttavia, le rinnovate tensioni lungo la LoC (Line of Control) in Kashmir e le consuete questioni afferenti ai gruppi militanti pakistani, hanno severamente pregiudicato il successo dell’incontro che si è concluso con sterili dichiarazioni sulla ripresa del cessate il fuoco. Seppur armati delle migliori intenzioni, per entrambi i leader il fronte interno presenta numerosi oppositori al dialogo, come dimostrato dalla recrudescenza di violenza in Kashmir che negli ultimi due mesi ha portato alla morte di almeno 18 soldati da ambedue i lati della LoC. Nell’incidente più grave, ad un giorno dall’incontro, un commando di militanti ha assaltato una stazione di Polizia e un campo militare nel Kashmir Indiano, uccidendo 10 persone, fra cui un Colonnello dell’Esercito. Altre considerazioni di carattere politico, a livello interno e regionale, limitano la capacità di Singh e Sharif di progredire nella difficile relazione bilaterale. Da parte pakistana, la politica della distensione di Sharif deve ancora passare al vaglio dell’Establishment militare, istituzione con cui il premier ha pessimi rapporti. Per Singh, invece, l’approssimarsi di elezioni (maggio 2014) che quasi certamente vedranno l’affermarsi degli induisti nazionalisti del BJP, rende ostico qualsiasi approccio nei confronti del Pakistan. A livello regionale, al ritiro NATO dall’Afghanistan nel 2014 potrebbe corrispondere un ritorno in massa dei militanti pakistani lì impegnati alla loro originaria occupazione di combattenti per il Kashmir, come recentemente annunciato da Syed Salahuddin, leader dell’influente gruppo kashmiro Hizbul Mujahideen (HM).
Libia
Il 30 settembre, un gruppo armato formato da miliziani Amazigh, tribù berbera del nord del Paese, ha attaccato l’infrastruttura gasifera di Mellitah, nei pressi di Nalut, cittadina nord-occidentale al confine con la Tunisia. In seguito all’irruzione, gli impianti della stazione di compressione, operata dall’italiana ENI, sono stati spenti. Mellitah è il punto di inizio del Greenstream, gasdotto che rifornisce l’Italia. Le ragioni che hanno portato all’attacco dell’infrastruttura energetica da parte dei miliziani Amazigh sono da ricercare nelle rivendicazioni politiche, economiche e sociali che la minoranza berbera continua a manifestare nei confronti del governo di Tripoli, prima fra tutte l’aumento dei salari e il riconoscimento del Tamazigh, la lingua degli Amazigh, come lingua ufficiale della Libia al pari dell’arabo. La prassi di attaccare le infrastrutture energetiche come forma di rappresaglia verso il governo centrale è diventata un modus operandi sempre più diffuso tra le milizie ribelli. Infatti, alcuni mesi fa, milizie di etnia Toubou avevano attaccato le strutture estrattive del bacino petrolifero Elefante, nella parte centro-occidentale del Paese, operato da una società consorziata con ENI. Oltre a rappresentare un rischio di natura politica e di sicurezza, tali ostilità da parte delle milizie pregiudicano la ripresa economica libica e mettono in pericolo l’approvvigionamento energetico dei suoi clienti, tra cui l’Italia. Basti pensare che, da quando è caduto il regime di Gheddafi, la produzione petrolifera libica è passata da 1,5 milioni di barili al giorno ad appena 100.000.
Mali
Il 28 settembre Timbouktou è stato oggetto di un attentato suicida contro un avamposto dell’Esercito maliano, nel quale sono rimasti uccisi due civili. Il giorno successivo invece, a Kidal, città a nord-est del Paese, alcuni ribelli tuareg appartenenti ad alcune formazioni antigovernative hanno avuto uno scontro a fuoco con le truppe regolari maliane, causando il ferimento di due soldati. Gli attacchi hanno una matrice differente: il primo è opera di Al-Qaeda nel Magreb Islamico (AQMI), mentre il secondo è stato perpetrato da alcuni gruppi tuareg del nord del Paese legati al HCUA (Alto Consiglio per l’Unità dell’Azawad), che rivendicano l’indipendenza dell’Azawad. Il secondo attacco è avvenuto in conseguenza del fallimento delle trattative di pace tra tuareg e governo maliano in corso da giugno nella capitale del Burkina Faso, Ouagadougou. I due attacchi evidenziano che, nonostante l’elezione del neopresidente Ibrahim Keita e gli sforzi profusi dall’ONU con la missione di pace MINUSMA, la situazione di sicurezza del Mali è ancora precaria. Infatti, nel Paese permangono sacche di resistenza antigovernative e continuano ad agire gruppi legati ad al-Qaeda e interessati alla destabilizzazione dell’intero Sahel.
Tunisia
Durante lo scorso fine settimana, il governo tunisino guidato da Ali Larayedh ha accettato di presentare le proprie dimissioni al termine di un lunghissimo braccio di ferro con le opposizioni. Dopo una serie di incontri tra gli esponenti dell’esecutivo uscente e i leader delle forze d’opposizione, sarà dunque varato un governo tecnico con il compito di preparare il terreno per le prossime elezioni politiche. La crisi, nata con l’uccisione del deputato dell’opposizione Mohamed Brahmi e accelerata dalle incessanti manifestazioni di protesta che hanno avuto luogo nelle ultime settimane, segna temporaneamente la fine della stagione di Ennahda al potere e mostra, ancora una volta, quanto impervio e tortuoso sia il percorso di ricostruzione democratica intrapreso dal Paese dopo la caduta del regime di Ben Ali.
Ennahda sembra aver pagato l’ambiguità del proprio rapporto con le realtà salafite attive nel Paese. Una di queste, il gruppo Ansar al-Sharia, è considerato dalle autorità responsabile sia della morte del leader dell’opposizione Chokri Belaid, ucciso nel febbraio scorso presso la propria abitazione, che di quella dello stesso Brahmi. Le proteste popolari scatenatesi per la morte di Belaid avevano portato a un rimpasto governativo volto a rendere più intransigente l’azione dell’esecutivo contro i gruppi legati all’Islam radicale. Quelle per l’omicidio di Brahmi, più costanti, hanno invece dato ulteriore dimostrazione di come il movimento Ennahda, in netto calo di consensi negli ultimi mesi, sia profondamente influenzabile dalle pressioni della popolazione.
I prossimi mesi appaiono decisivi per capire quale direzione intraprenderà ora il Paese. Soprattutto, importante è vedere quale percorso seguiranno le principali forze politiche, alle prese con sfide complesse e questioni irrisolte. All’opposizione occorrerà trovare un’inedita coesione, tale da permettere alle forze laiche dello spettro politico tunisino di presentare un fronte competitivo in occasione delle prossime elezioni. Ennahda potrebbe invece approfittare di un possibile periodo di stabilità per meglio definire la propria identità, rimasta negli ultimi mesi nascosta dietro un difficile gioco di equilibrismo politico.
Yemen
Un gruppo di militanti appartenenti al movimento qaedista Ansar al-Sharia, il 30 settembre, ha attaccato il quartier generale della Seconda Divisione delle Forze Armate yemenite a Mukalla, città portuale della regione dell’Hadramaut. Giunti a bordo di mezzi dell’Esercito, i militanti, che indossavano divise dell’apparato Centrale di sicurezza, hanno colto di sorpresa il personale della base e sono riusciti a prendere in ostaggio alcuni militari. Solo in seguito alla massiccia offensiva delle forze speciali di Sanaa, le Forze Armate hanno messo in sicurezza l’area e ripreso possesso della base. L’attacco a Mukalla è l’ultimo episodio di violenza compiuto da AQAP (al-Qaeda nella Penisola Arabica) contro le Forze di sicurezza nel Paese. Sarebbero riconducibili alla rete qaedista, infatti, anche i due attentanti, pressoché simultanei, che lo scorso 20 settembre hanno causato la morte di circa 40 soldati, nella regione meridionale di Shabwa.
A partire dalla rivolta del 2011, i territori nel sud del Paese, sono diventati una roccaforte per AQAP: in queste regioni, infatti, i membri delle cellule terroristiche spesso trovano rifugio e supporto all’interno di quei gruppi tribali che, fautori di rivendicazioni irredentiste nei confronti del governo centrale, vedono in essi l’opportunità per indebolire l’autorità di Sanaa. Fino ad ora, i successi delle Forze di sicurezza nel contrastare l’opera di destabilizzazione della rete qaedista non sono stati costanti: dopo l’offensiva del 2012, che aveva eradicato l’Emirato Islamico istituito nella provincia di Abyan, AQAP è ora particolarmente attivo nelle adiacenti regioni di Shabwah e Hadramaut.