Geopolitical Weekly n.116

Geopolitical Weekly n.116

By Francesca Manenti and Alessandra Virgili
06.13.2013

Afghanistan

Il comandante delle Forze ISAF in Afghanistan, il Generale americano Joseph Dunford, ha ammonito la Comunità Internazionale a non voltare le spalle all’Afghanistan dopo il ritiro dei contingenti NATO nel 2014. Nel dodicesimo anno di missione internazionale, la situazione della sicurezza nel Paese è ancora difficile, come dimostrato dall’attacco suicida a Kabul dello scorso 11 giugno che ha causato la morte di almeno 16 persone e il ferimento di altre 40 nei pressi della sede dalla Corte Suprema. L’attentato è stato rivendicato dai talebani. Ulteriore conferma della persistenza dell’insurrezione, anche nel settore ovest a guida italiana, è stato l’attentato dell’8 giugno a Farah che è costato la vita al capitano dei Bersaglieri Giuseppe La Rosa e ha provocato il ferimento di altri tre militari. Per quanto rimanga di vitale importanza la ricerca di un dialogo con i talebani, come ha sottolineato lo stesso Dunford, le prospettive per una riconciliazione tra governo e insorti non si stanno concretizzando a causa delle differenze fra le due parti. La questione è ancor più pressante se si pensa che nel 2014, in base all’accordo raggiunto nel corso del vertice di Chicago del maggio dell’anno scorso con il Presidente Hamid Karzai, avranno termine le operazioni combat degli alleati e si assisterà al ritiro delle truppe ISAF. La prossima settimana, la coalizione lascerà gli ultimi distretti del Paese al controllo del governo afghano, che da lì in poi ne avrà la totale responsabilità. Le truppe NATO, provenienti da meno paesi ed in numero decisamente inferiore rispetto a oggi, rimarranno in Afghanistan con mansioni di supporto e addestramento alle Forze locali.

Egitto

Il Presidente Morsi, parlando nelle scorse ore alla Popular Conference on Egypt’s Right to Nile Water, è tornato a difendere la posizione del proprio governo riguardo la disputa con l’Etiopia sulle acque del Nilo. Oggetto della contesa è l’annunciato inizio dei lavori, lo scorso 28 maggio, per la parziale deviazione del corso del Nilo Blu, necessaria per proseguire la costruzione della Great Ethiopian Renaissance Damn (GERD), la più grande diga idroelettrica del continente. Il progetto, che permetterebbe al governo di Addis Abeba di produrre annualmente all’incirca 15 mila GW di energia, è stato osteggiato dall’Egitto sin dal 2010: costruita nella regione etiope di Benishangul-Gumuz, le autorità del Cairo sostengono che la GERD devierebbe uno dei principali affluenti del Nilo, riducendo la disponibilità di acqua per la popolazione egiziana. Nonostante le rassicurazioni ricevute da un panel internazionale di esperti (l’IPoE), Morsi ha ribadito l’intenzione del governo di ricorrere a qualsiasi misura si rivelasse necessaria per preservare le attuali forniture d’acqua al proprio Paese (l’Egitto riceve dal Nilo attualmente 55 miliardi di metri cubi l’anno). Secondo il governo egiziano, una riduzione significativa della capacità idrica del Nilo potrebbe avere ripercussioni, in particolare, sull’attività agricola, aggravando le già precarie condizioni economiche che il Paese si trova ad affrontare.
Critiche alle parole del Presidente Morsi sono giunte dalle autorità di Addis Abeba, che hanno dichiarato la propria indisponibilità a interrompere i lavori. Il Ministro degli Esteri egiziano, Mohamed Kamel Amr, dovrebbe recarsi in Etiopia nella giornata di domenica per incontrare il suo omologo e cercare una soluzione condivisa sulla questione. Il Cairo considera il progetto una violazione alle disposizioni coloniali, che assegnavano all’Egitto e al Sudan il diritto di utilizzare il 90 per cento delle acque del fiume. L’Etiopia, da parte sua, non considera più in vigore tale disposizione: già nel 2010, infatti, aveva avviato trattative con Ruanda, Uganda, Kenya e Tanzania per regolare in modo più equo la distribuzione delle acque del Nilo, giungendo alla stipula dell’Entebbe Framework Agreement, che l’Egitto, lo scorso gennaio, si è rifiutato di firmare.

Libia

Un’auto dell’Ambasciata italiana è stata fatta esplodere a Tripoli, nel distretto di Zawiat al-Dahmanim nel pomeriggio dell’11 giugno. L’esplosione non ha causato vittime: il personale diplomatico, accortosi della possibile manomissione, aveva infatti abbandonato il veicolo e allertato le forze di polizia, facendo mettere in sicurezza l’area. L’episodio non è il primo attacco portato a termine contro le delegazioni occidentali. Lo scorso 23 aprile, un’autobomba era stata fatta esplodere davanti all’ambasciata francese, ferendo gravemente due persone; risale, invece a gennaio l’attentato - fallito - contro il Console Generale italiano a Bengasi, Guido de Sanctis, in seguito al quale l’Italia aveva deciso di chiudere la propria missione nella città della Cirenaica.
Il progressivo deterioramento delle condizioni di sicurezza rappresenta una questione di primo ordine per il governo libico che, a quasi un anno dalle prime elezioni del post-Gheddafi dello scorso luglio, non sembra essere ancora in grado di farsi garante della stabilità interna al Paese. La presenza di milizie e gruppi armati, che avevano partecipato alla Rivoluzione del 2011 contro l’ex Rais e sono rimasti tuttora operativi, aggrava ulteriormente la percezione di questa precarietà. Nonostante alcune di esse siano gruppi ben organizzati, spesso su base regionale o locale, le milizie rimangono un elemento di instabilità per la sicurezza della popolazione, soprattutto in mancanza di una Forza Armata nazionale più strutturata. In proposito, significativo è l’incidente dello scorso 8 giugno, quando la manifestazione a Bengasi contro la sede della Libya Shield Forces – brigata dipendente dal Ministero della Difesa - è degenerata in un violento scontro armato con i miliziani, che ha provocato la morte di 31 persone e le conseguenti dimissioni del capo di Stato Maggiore Youssef al-Mangoush. Il governo ha annunciato l’implementazione di un piano per lo smantellamento dei gruppi irregolari e l’integrazione nelle Forze di Sicurezza libiche delle milizie operative sotto l’egida del Ministero degli Interni e della Difesa, da realizzarsi entro la fine del 2013.

Sudan

Lo scorso 8 giugno il Presidente sudanese, Omar Hasan Ahmad al-Bashir, ha ordinato l’interruzione dei flussi dell’oleodotto che conduce il greggio dal Sudan del Sud fino a Port-Said, sulla costa del Mar Rosso, in Sudan. La condotta, secondo quanto stabilito dal governo sudanese, dovrebbe tornare in funzione tra 60 giorni. Il petrolio sud-sudanese aveva ricominciato a transitare dal Sudan ad aprile, dopo un’interruzione di più di un anno causata da un’escalation delle tensioni tra i due Paesi, dovute in particolare alla questione delle quote sui profitti della vendita del greggio e al costo del suo transito. 
Il 27 maggio, Bashir ha minacciato di fermare l’oleodotto se Juba avesse continuato a supportare i ribelli dell’SRF (Sudan Revolutionary Front), attivi in particolare nel Sud del Kordofan e nella regione del Nilo Azzurro con l’obiettivo di rovesciare il regime sudanese. Secondo il capo dell’intelligence sudanese, Mohammed Atta, i guerriglieri continuano ad essere riforniti da Juba con armi, munizioni, benzina, pezzi di ricambio per mezzi e cibo. Khartoum suppone inoltre che Juba utilizzi, o possa utilizzare, gli utili derivanti dal petrolio per sostenere la guerriglia.
A seguito degli accordi stretti tra le due parti nel 2011 – quando cioè il Sudan del Sud ha ottenuto l’indipendenza da Khartoum – Juba ha conservato il 75 per cento di quella che era la produzione petrolifera complessiva sudanese, ma continua tuttavia a dipendere dalle infrastrutture e dai porti del Sudan per le esportazioni. L’interruzione dei flussi in territorio sudanese causano dunque grossi danni economici al Sudan del Sud, che ricava dai suoi depositi di greggio il 98 per cento dei profitti statali ed è privo di sbocchi sul mare. Va rilevato, in ogni caso, come anche l’economia di Khartoum potrebbe risentire negativamente del blocco del traffico di petrolio, considerati gli ingenti utili delle esportazioni. Quella del Sudan potrebbe dunque essere nient’altro che un’ulteriore intimidazione nei confronti del vicino meridionale.

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