Geopolitical Weekly n. 304

Geopolitical Weekly n. 304

Di Luca Tarantino
04.10.2018

Iraq

A 5 mesi dalle elezioni di maggio, il 2 ottobre il Parlamento iracheno ha eletto Barham Salih Presidente dell’Iraq. Esponente dell’Unione Patriottica del Kurdistan (PUK), Salih è riuscito a prevalere con 219 voti sull’altro candidato alla Presidenza Fuad Hussein, appartenente al Partito Democratico del Kurdistan (KDP). Dal 2005 a oggi questi partiti avevano sempre onorato l’intesa informale secondo la quale la carica di Presidente federale, che per la Costituzione spetta ad un curdo, andasse ad un membro del PUK, mentre quella di Presidente del Kurdistan ad uno del KDP. Dunque, la decisione del KDP di presentare un proprio candidato conferma la spaccatura con il PUK sorta a seguito del referendum sull’indipendenza del Kurdistan iracheno del 25 settembre 2017, fortemente voluto dal KDP ma osteggiato dal PUK. Il tentativo di secessione ha indebolito nettamente Erbil nei confronti del governo centrale, in particolare per la perdita del controllo dei pozzi petroliferi di Kirkuk a causa di un tacito accordo tra Baghdad e parte del PUK.

Due ore dopo la sua elezione, il neo Presidente Salih ha poi dato l’incarico di Primo Ministro ad Adil Abdul Mahdi del Supremo Consiglio Islamico Iracheno. La nomina rappresenta un’importante novità per due ragioni. Innanzitutto, perché porrebbe per la prima volta a capo del governo iracheno un esponente non del Partito Dawa. D’altronde, questa formazione si era presentata divisa alle elezioni di maggio, favorendo così altre due formazioni sciite guidate da Moqtada al-Sadr e Hadi al-Amiri. In secondo luogo, la modalità con cui Mahdi è stato designato si distanzia dalla consuetudine seguita dal 2005 ad oggi. Infatti, l’incarico gli è stato affidato senza che venisse prima stabilito il blocco di partiti più ampio rappresentato in Parlamento, cui sarebbe in teoria spettato di indicare il Premier in pectore. In questo senso, per superare la lunga impasse che vede contrapposti proprio Sadr e Amiri, i due vincitori delle elezioni di maggio, è stato fondamentale il ruolo di mediazione che si è saputo ritagliare il Grand Ayatollah Sistani, massima autorità religiosa dell’Iraq.

Somalia

Il primo ottobre, a Mogadiscio, un’autobomba ha colpito un convoglio di EUTM (European Union Training Mission) Somalia composto da personale e mezzi delle Forze Armate Italiane. Nell’attentato è rimasto danneggiato un VTLM Lince e sono morti alcuni civili somali che si trovavano nelle vicinanze del luogo dell’esplosione. L’attentato è stato rivendicato dal gruppo jihadista, affiliato ad al-Qaeda, al-Shabaab.

L’attacco al convoglio rappresenta una novità nel contesto della strategia terroristica di al-Shabaab, solitamente focalizzata sul colpire la popolazione civile somala, le istituzioni governative e le truppe di AMISOM (African Union Mission in Somalia). La decisione di al-Shabaab di attaccare elementi dell’Unione Europea e obbiettivi occidentali potrebbe indicare la volontà di intensificare le attività terroristiche e di guerriglia contro personale straniero non –africano allo scopo di dimostrare la resilienza del gruppo jihadista e l’incremento delle sue capacità nella capitale, oltre a voler mandare un preciso messaggio politico ai governi europei, principali responsabili sia del finanziamento di AMISOM che del sostegno logistico e finanziario al processo di ricostruzione e stabilizzazione del Paese.

Inoltre, sul piano interno, al-Shabaab intende destabilizzare il governo del Presidente Mohamed Abdullahi Mohamed “Farmajo”, noto per i suoi programmi riformisti e per la dichiarata volontà di neutralizzare totalmente il movimento terroristico entro la fine del suo mandato, nel 2022. Tuttavia, parte dell’entourage politico del Presidente attribuisce la crescita della violenza jihadista a Mogadiscio ad un preciso piano di destabilizzazione ordito dai rivali di Farmajo, decisi ad ostacolare il suo progetto di ridimensionamento del potere dei clan all’interno della vita politica somala. A questo proposito, gli oltranzisti del sistema di potere clanico-centrico, dominati dal clan Haweye, potrebbero aver offerto supporto logistico e informativo a cellule di al-Shabaab per supportarne gli attacchi nella capitale.

Vietnam

Mercoledì 3 ottobre il Comitato Centrale del Partito comunista vietnamita ha deciso di proporre la candidatura del Segretario del Partito comunista vietnamita (PCV) Nguyen Phu Trong alla Presidenza del Vietnam, a seguito della scomparsa prematura del Presidente Tran Dai Quang lo scorso 21 settembre. La proposta passerà ora all’Assemblea Nazionale, l’organo legislativo della Repubblica Socialista a cui spetta il compito perlopiù formale di eleggere il nuovo Presidente.

Se confermata la candidatura, Phu Trong diverrà il primo leader vietnamita, dopo il fondatore della Repubblica Ho Chi Minh, a ricoprire contemporaneamente le cariche di Segretario del Partito e Presidente della Repubblica, accentrando, di fatto, il potere nelle sue mani. Nel sistema vietnamita, infatti, le cariche principali sono essenzialmente quattro: il Segretario del PCV, il Presidente, il Primo Ministro e il Presidente dell’Assemblea. Tale suddivisione è sempre stata motivata dalla volontà di garantire un equilibrio tra le parti ed evitare l’emersione di una sola figura autoritaria.

L’idea della sovrapposizione viene ora giustificata con il programma elaborato da Hanoi di riduzione del personale politico del 10% entro il 2021. In realtà negli ultimi anni Phu Trong e Quang hanno attivato una campagna anticorruzione che ha messo in prigione e allontanato molti membri di spicco del partito, come Dinh The Huynh, ex presidente della compagnia petrolifera statale considerato il secondo membro più influente nel PCV dopo Phu Trong. Tale grande iniziativa è stata accompagnata da una parallela opera di emarginazione di quegli esponenti che si oppongono al Segretario, appartenenti a delle correnti più giovani del partito favorevoli all’introduzione di riforme per avviare un processo di liberalizzazione del sistema economico e, marginalmente, politico del sistema vietnamita.

Diventando Presidente, Phu Trong potrebbe significativamente rallentare e persino bloccare le attività delle anime più riformiste interne.  La possibilità di indirizzare sia il Partito sia l’esecutivo, infatti, si assicurerebbe un netto ritorno al conservatorismo delle istituzioni e, di conseguenza, potrebbe agire con efficacia per ridurre ogni spazio di manovra a disposizione dei movimenti orientati al liberalismo aperti fino ad ora.

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