I 2 terrorismi del Pakistan
Asia e Pacifico

I 2 terrorismi del Pakistan

Di Francesca Manenti
02.07.2017

Lo scorso 27 febbraio, il Primo Ministro pakistano, Nawaz Sharif, ha annunciato l’inizio dell’Operazione RADD-UL-FASAAD (Eliminazione della Discordia) in risposta alla nuova ondata di attacchi terroristici che hanno colpito il Paese nei primi 2 mesi del 2017.

Il tentato assalto dello scorso 21 febbraio al tribunale locale di Charsadda (distretto nella provincia di Khyber Pakhtunkhwa), durante il quale sono rimaste uccise 5 persone, è stato solo l’ultimo di una serie di attacchi che hanno provocato la morte di più di cento persone. Oltre agli attacchi contro le Forze di sicurezza avvenuti sia nel Balocistan sia nel Khyber Pakhtunkhwa, le violenze a matrice estremista hanno colpito obiettivi e popolazione civile. Il 13 febbraio, a Lahore (capoluogo del Punjab), un attentatore suicida ha fatto esplodere il proprio ordigno durante una manifestazione di farmacisti davanti all’Assemblea Provinciale su una delle principali arterie stradali della città, la Lahore Mall, uccidendo 13 persone e ferendone 83.

Quattro giorni più tardi, un’esplosione al tempio sufi di Lal Shahbaz Qalandar, nella citta di Sehwan nel Sindh, ha provocato 70 vittime e 150 feriti.

Undicesima operazione di counter-insurgency su larga scala lanciata dalle autorità di Islamabad nell’ultimo decennio, RADD-UL-FASAAD, a differenza di quanto accaduto finora, non è circoscritta ad una specifica area geografica, ma si estende in tutte le 5 province del Paese, nei centri urbani e nelle aree di confine. Nata dalla volontà di mettere a sistema i risultati della campagna di contro-terrorismo ZARBE- AZB (giugno 2014-gennaio 2017), con la quale l’Esercito Pakistano ha sradicato la presenza dell’insorgenza dalle roccaforti delle Aree Tribali (Federally Administrative Tribal Area – FATA), la nuova operazione coniuga gli sforzi di tutti i corpi preposti alla sicurezza interna, sia militari sia civili, per cercare di porre termine una volta per tutte a quella lotta al terrorismo che fino ad ora ha avuto costi altissimi per il Pakistan, in termini umani (più di 14.000 vittime tra civili, forze di sicurezza e giornalisti uccisi) e finanziari (120 miliardi di dollari).

Le attività di contrasto alla militanza previste dall’operazione, infatti, comprendono sia la neutralizzazione di quelle ultime sacche di insorgenza ancora presenti sul territorio nazionale sia la messa in sicurezza delle frontiere, in particolare quella con l’Afghanistan, per arginare gli attacchi lanciati da oltreconfine. Un ruolo di particolare rilievo è stato affidato per la prima volta ai Ranger, corpo paramilitare generalmente preposto al controllo del confine orientale con l’India e con limitate competenze di law-enforcement nelle province del Punjab e del Sindh. Sotto il cappello di RADD-UL-FASAAD, infatti, sono circa 2.000 i Ranger dispiegati in tutta la provincia del Punjab che assolvono temporaneamente piene funzioni di polizia, per poter condurre in autonomia intelligence-based (IBO) e cordon and search operations, nonché attività di investigazione al fine di neutralizzare la minaccia terroristica su tutto il territorio.

La multidimensionalità dell’operazione e gli sforzi sistemici impiegati dalle autorità per massimizzare la tracciabilità dei network legati ai diversi gruppi militanti dimostrano che le autorità di Islamabad stanno cercando di cambiare passo nella propria strategia di contrasto al terrorismo mettendo in campo un approccio maggiormente integrato, inserito nel National Action Plan (NAP), ovvero il programma lanciato dal Governo nel dicembre 2014, sull’onda lunga dell’impatto avuto sull’opinione pubblica dall’attacco all’Army Public School di Peshawar, nel quale rimasero uccise 141 persone. Articolato in 20 punti, il NAP è stato pensato per dare una struttura organica alle politiche di contro-terrorismo, anti-terrorismo e de-radicalizzazione e per mettere a sistema gli sforzi delle diverse agenzie fino a quel momento impegnate in ordine sparso nella lotta all’insorgenza interna. A tal fine, il piano cerca di delineare una strategia multidimensionale in cui l’approccio muscolare sia integrato e vada di pari passo con una serie di misure politiche, giudiziarie e assistenziali che annullino la capacità d’azione dei gruppi terroristici sul territorio. Tra queste, un rafforzamento del monitoraggio delle madrasse, effettuato attraverso l’obbligo di registrazione presso le istituzioni provinciali; la censura di qualsiasi discorso o letteratura estremista che inciti alla violenza settaria, sia all’interno delle scuole religiose sia su giornali e mezzi di comunicazione di massa; l’istituzione di corti marziali e tribunali gestiti dall’Esercito per il giudizio di casi di sospetto terrorismo; il potenziamento della National Counter Terrorism Agency (NACTA), come punto di coordinamento dei diversi attori coinvolti nella lotta al terrorismo. A 2 anni dalla sua ufficializzazione, tuttavia, il NAP non sembra ancora sortire gli effetti desiderati. Nonostante l’effettivo incremento della capacità di controllo ed identificazione di individui o cellule sensibili e dell’efficacia degli interventi, il piano non ha ancora permesso alle autorità di risolvere il problema alle sue radici e di disinnescare quel processo di radicalizzazione della società che, di fatto, consente all’insorgenza di avere sempre nuovi bacini di reclutamento e di muoversi in un tessuto sociale nel quale trovare rifugio e supporto logistico-operativo.

Tali difficoltà trovano le proprie ragioni d’essere essenzialmente nella mancanza di volontà politica da parte del Governo di fare delle scelte che potrebbero risultare impopolari agli occhi dell’opinione pubblica, ma che consentirebbero di de-strutturare la retorica estremista e conseguentemente di ridurre la sensibilità di alcuni ambienti della popolazione al messaggio radicale. Questa tendenza è particolarmente lampante nell’ambito della riforma delle madrasse. La diversità delle procedure di registrazione e dei requisiti richiesti da provincia a provincia rende molto larghe le maglie di quella che dovrebbe essere una fitta rete di controllo, mentre la noncuranza del governo nel porre rimedio a queste lacune sembra rispondere alla volontà di non dare una stretta significativa ad una realtà che comunque svolge a titolo gratuito un ruolo sociale e assistenziale rivolto alle fasce meno abbienti della popolazione. Inoltre, nonostante sia stato presentato come il fiore all’occhiello delle autorità per contrastare la violenza di matrice radicale in tutto il Paese, in realtà le disposizioni previste dal piano sono rivolte esclusivamente ai gruppi in lotta contro le autorità pakistane (Teherik-e-Taliban Pakistan - TTP, Jamat-ul-Ahrar, Lashar-e-Jangvi- Lashkar-e-Islam, Lashkar-e-Toiba, ISIS nel Khorasan). Lo sforzo integrato previsto dal NAP, infatti, non prende in considerazione quelle realtà che trovano rifugio in Pakistan e che operano in territorio afghano, contro NATO, Americani e Governo di Kabul, quali i Talebani della Shura di Quetta e l’Haqqani network. Se, in passato, Islamabad ha sempre preferito dissimulare il proprio approccio alla questione della militanza afghana, negli ultimi anni il Governo pakistano ha iniziato a sostenere palesemente la necessità di riconoscere la leadership talebana come interlocutore politico. L’inclusione dei Talebani nelle istituzioni afghane, infatti, viene presentata da Islamabad come variabile fondamentale per ripristinare quell’equilibrio all’interno della compagine di governo a Kabul, adesso troppo sbilanciato a favore della componente tajika – erede di Massud e dell’Alleanza del Nord e tradizionalmente ostile al Pakistan – alleata con la diaspora pashtun rientrata in Afghanistan assieme agli Americani nel 2002.

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