Lo Yemen dopo Saleh tra incertezze e divisioni
Medio Oriente e Nord Africa

Lo Yemen dopo Saleh tra incertezze e divisioni

Di Maria Serra
08.02.2012

La crisi politica in Yemen, aperta in seguito dello scoppio delle manifestazioni contro il Presidente Alì Abdullah Saleh nello scorso mese di febbraio, potrebbe essere arrivata ad un punto di non ritorno: dopo gli scontri del 18 marzo a Sana’a in cui sono rimaste vittime 52 contestatori, numerosi esponenti del governo e della diplomazia yemenita hanno rassegnato le proprie dimissioni, ritirando il sostegno a Saleh e schierandosi dalla parte della “Rivoluzione della gioventù”. Si tratta dei Ministri del Turismo, dei Diritti Umani, degli Affari Religiosi, oltre che dell’Ambasciatore yemenita alle Nazioni Unite e di quello in Libano, del Governatore della regione di Aden, del Capo dell’Agenzia di Stampa di Stato e di 24 parlamentari appartenenti al partito di maggioranza. L’ipotesi di una caduta del Presidente, a questo punto sempre più isolato nella scena politica, si fa sempre più concreta. Saleh, infatti, che aveva inizialmente dichiarato che non si sarebbe dimesso, ma che avrebbe proseguito il proprio mandato fino alla sua scadenza naturale (2013), non si trova più solamente a far fronte ai malumori della popolazione, ma anche alle spaccature interne allo stesso potere. Questa situazione, di fatto, sta portando all’evoluzione di un conflitto civile protrattosi ed aggravatosi negli anni nonostante l’unificazione del Nord e del Sud del Paese nel 1990, se non anche ad una concreta possibilità di “fallimento dello Stato” ed, evidentemente, data la presenza di numerosi interessi in ballo da parte dell’Arabia Saudita e degli Stati Uniti – specialmente di counter-terrorism –, ad un mutamento degli equilibri regionali ed internazionali.

La società yemenita – la più povera del mondo arabo, molto conservatrice, con un alto tasso di analfabetizzazione e disoccupazione –, già dilaniata al suo interno dalle ribellioni dei gruppi zayditi del Nord (sciiti e sospettati di essere finanziati ed armati dall’Iran), dal movimento secessionista del Sud e dall’attività delle cellule terroristiche di AQAP (al-Qaeda in the Arabian Peninsula), non chiede solamente le dimissioni del Presidente (in carica dal 1978), ma anche un nuovo corso di riforme politiche e sociali che permetta al Paese di uscire dall’arretratezza in cui versa. Tuttavia, si tratta di manifestazioni in parte diverse rispetto a quelle che si sono verificate, e si stanno verificando, nel Nord Africa o nei Paesi dell’area del Golfo, in quanto ne sono parte attiva i membri delle principali tribù, che rivestono cariche all’interno delle forze di governo e negli apparati militari e di sicurezza. Tenendo ben presente questo quadro, la stabilità del potere di Saleh ha subito un duro colpo quando, all’inizio del mese di marzo, Hussein al-Ahmar, capo di una delle più importanti, se non la più importante, confederazione di tribù, Hashid, si è dimesso dai suoi incarichi dal partito del Presidente, il Congresso Generale del Popolo, e ha ritirato il proprio appoggio a Saleh. L’annuncio è stato seguito da ulteriori defezioni di altri rappresentanti d’importanti tribù, come quella dei Sanhan. Ma il vero punto di rottura si è avuto quando il Generale Ali Mohsen al-Ahmar, comandante della 1ª Divisione corazzata, uno dei gruppi di elite dell’esercito yemenita, e appartenete allo stesso clan del Presidente, nonché da sempre suo uomo di fiducia, che ha dichiarato di appoggiare i manifestanti e schierato i propri soldati per le strade di Sana’a, stando alle sue parole, per difendere la gente scesa in piazza. Quello del Generale sembra, tuttavia, essere stato, piuttosto, un vero e proprio tentativo di colpo di Stato nei confronti di Saleh, il quale è rimasto per il momento al proprio posto grazie all’intervento della Guardia Repubblicana, altro corpo di elite armato grazie ai finanziamenti americani per la lotta contro il terrorismo, comandato da Ahmed Saleh, figlio del Presidente, che ha schierato i propri uomini a difesa del palazzo presidenziale. La scelta del Generale al-Ahmar di appoggiare i manifestanti, più che da un reale intento riformista, sembra essere stata dettata da una vera e propria lotta interna al clan di Saleh per il potere. Il Generale, infatti, rimane uno storico rappresentante del potere che ormai governa sul Paese da più di trent’anni, sempre al fianco del Presidente e in prima linea sia nella lotta contro gli Houthi (tribù sciita dello Yemen del nord che periodicamente combatte il governo centrale) sia nell’impegno (non si sa fino a che punto reale o di pura facciata) contro il network qaedista nel Paese.

Secondo i media yemeniti il 60% dell’esercito starebbe dalla parte dei manifestanti e, quindi, con ogni probabilità è destinato a crescere anche il numero dei militari schierati contro le forze di sicurezza che appoggiano il governo. Un vero e proprio clima da guerra civile (le ultime notizie parlano di tre soldati del fronte pro-Saleh uccisi dagli uomini di al-Ahmar), aggravato dal fatto che il clan di al-Ahmar starebbe, inoltre, cercando di aumentare il numero dei propri sostenitori, reclutandoli anche tra i membri dell’altra tribù più influente nel Paese, quella dei Baqil, e, soprattutto, tra le tribù presenti nella provincia del Ma’rib, regione ad est di Sana’a e in cui sono presenti alcuni giacimenti petroliferi e sulla quale, dunque, il governo centrale ha negli anni inteso esercitare un controllo politico maggiore. L’obiettivo dei clan di opposizione a Saleh e di quelli – pochi – rimasti al suo fianco è il medesimo ed è chiaro: controllare i dintorni della capitale, che vuol dire poter controllare il governo – specialmente in relazione alle sue politiche di gestione e redistribuzione delle ricchezze (dal Sud, infatti, proviene l’80% del greggio che si estrae nell’intero Paese) – e gestire, ed eventualmente tagliare, gli stessi approvvigionamenti che passano attraverso le zone strategiche del Paese. Il fallimento del tentativo di Saleh di ricomporre le parti (i primi giorni di marzo aveva, infatti, annunciato prima la volontà di formare un governo di unità nazionale e, poi, il varo di una riforma costituzionale sul modello proposto in Marocco dal Re Mohammed VI) sta dunque innalzando il livello delle tensioni, che potrebbero far sprofondare il Paese in una nuova guerra civile combattuta con un’enorme mole di armamenti, in un contesto dove al-Qaeda è profondamente radicata.

Infatti, con sessanta armi ogni cento abitanti, lo Yemen è secondo solo agli Stati Uniti per possesso di armi pro capite: fucili, granate, razzi, mortai e perfino carri armati. Negli ultimi anni il governo ha cercato di aumentare i controlli, sequestrando – secondo i dati forniti nel 2008 dal Ministero dell’Interno yemenita – circa 600mila armi. Tuttavia, l’interesse a conservare buoni i rapporti con gli sceicchi tribali, ha indotto Saleh a non intensificare troppo i controlli, sicché oggi le tribù possono contare su un immenso arsenale. La diffusione delle armi è considerata oggi la prima causa dell’insicurezza dello Yemen, ancor prima del problema della difesa dei confini, dello scarso senso di appartenenza allo Stato e della diffusione del terrorismo. Se a ciò si aggiunge il fatto che lo Yemen è diventato negli ultimi anni una delle principali basi di al-Qaeda, è facile sostenere che più la situazione diventa instabile, più crescono i timori che le armi finiscano nelle mani sbagliate e che, con un’eventuale caduta di Saleh, il Paese possa prendere una deriva islamista. Con ricadute, evidentemente, su tutta la regione.

Da qui si comprende come sia, infatti, l’Arabia Saudita la prima a temere la polveriera yemenita. Nonostante alcune controversie riguardanti soprattutto i confini (le provincie storiche yemenite di Asir, Najran e Jizan sono state annesse allo Stato saudita nel 1934), Riyadh condivide con Sana’a sia la lotta al network qaedista sia ai ribelli Houthi (tra il 2009 e il 2010 i sauditi sono intervenuti con vari raid di bombardamenti sui rivoltosi sciiti yemeniti entrati in territorio saudita). La destabilizzazione dello Yemen è un’opzione inaccettabile per l’Arabia Saudita, che teme il fondamentalismo islamico, oltre che una possibile estensione dell’influenza iraniana nei propri territori di riferimento. Su questa base si spiegherebbe l’incontro che si è tenuto lo scorso 21 marzo fra il Ministro degli Esteri yemenita, Abu Bakral-Qiribi, con il Re saudita Abdullah. Pur essendo rimasto riservato il motivo dell’incontro, non si può escludere la richiesta di aiuto da parte di Saleh al governo vicino, magari con un intervento armato come nel caso del Bahrein, avvenuto, però, nel quadro del Consiglio di Cooperazione del Golfo, a cui lo Yemen non appartiene ma al quale dovrebbe aderire, secondo quanto previsto dai negoziati, nel 2016.

Non di meno gli Stati Uniti stanno seguendo con attenzione la situazione in Yemen. D’altra parte, dal 2004 gli USA lavorano con il governo yemenita nella stabilizzazione del Paese e nelle attività di controllo della diffusione delle armi (ad esempio finanziando il recupero e la rimozione dal mercato yemenita dei missili terra-aria, o Manpads). Inoltre, a seguito degli attentati a Detroit del dicembre 2009 e dei pacchi bomba recapitati negli USA a firma dell’AQAP, l’Amministrazione Obama avrebbe destinato circa 150milioni di dollari per il supporto alle attività antiterrorismo. Gli USA sono inoltre preoccupati per una possibile perdita di controllo del Golfo di Aden in favore dell’Iran, che mantiene una propria presenza in Eritrea e che spera di ottenere dall’instabilità yemenita e bahreinita un’importante fetta di influenza nell’area mediorientale. Il porto di Aden è utile agli Stati Uniti per il monitoraggio dell’accesso allo stretto di Bab el-Mandeb, che congiunge il Mar Rosso con l’Oceano Indiano e da cui transitano circa 3,3 milioni di barili di petrolio al giorno, tutti diretti verso i Paesi occidentali. Così anche una possibile presenza USA nell’isola di Socotra al largo delle coste somale (già base navale dell’Unione Sovietica), è strategica anche ai fini di un monitoraggio dello Yemen del Sud e del Corno d’Africa. Ecco perché un eventuale scoppio di una guerra civile potrebbe condurre ad un’internazionalizzazione della “questione Yemen” e alla decisione degli Stati Uniti di intensificare nel Paese la presenza di propri operatori di intelligence e di forze speciali, nonché di inviare ulteriori droni, alcuni già operativi in Kenya e a Gibuti.

Le eventuali dimissioni di Saleh non ridurrebbero, tuttavia, il rischio di un conflitto civile, né risolverebbero tutti gli altri problemi sul tappeto. La semplice trasmissione del potere a uomini di fiducia non soddisferebbe la popolazione o, ancora, un momentaneo vuoto al vertice dello Stato aprirebbe la corsa degli altri attori politici all’accaparramento del potere. Lo Yemen sembra destinato, a quanto pare, a sprofondare nel caos.

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