Geopolitical Weekly n.150

Geopolitical Weekly n.150

Di Andrea Ferrante e Anna Miykova
26.06.2014

Sommario: Filippine, Iraq, Libano, Taiwan

Filippine

Lunedì 23 giugno, a seguito di due blitz effettuati dalle forze governative nei pressi di Zamboanga, a sud dell’isola di Mindanao, sono stati arrestati 4 sospetti membri di Abu Sayyaf, movimento islamista che opera nelle regioni meridionali del Paese e che qui intende costituire uno Stato islamico indipendente. L’operazione congiunta da parte di Polizia ed Esercito ha sventato un tentativo di sequestro da parte della cellula jihadista. Il business dei rapimenti è ormai divenuto il principale strumento di finanziamento e pressione politica nei confronti del governo centrale per i miliziani salafiti. Benché la strategia anti-terrorismo filippina sia riuscita, col tempo, a indebolire la struttura dell’organizzazione e a ridurne il numero dei combattenti, il gruppo risulta ancora presente nelle regioni meridionali dell’arcipelago. A riprova di ciò, lo scorso 19 giugno nuovi scontri nei pressi di Patikul, a sud dell’isola di Basilan, hanno causato la morte di 10 miliziani e di 7 soldati dell’Esercito. A questo proposito, desta particolare preoccupazione un’eventuale ripresa delle attività insurrezionali da parte di Abu Sayyaf, soprattutto alla luce del recente  del gruppo potrebbe costituire un problema per il governo filippino visto il recente rifiuto del gruppo a partecipare alle trattative di pace avviate tra Manila e il Fronte islamico di Liberazione Moro (FILM), altra formazione anti-governativa attiva nella regione. Una riacutizzazione delle violenze, infatti, rappresenterebbe un serio rischio per fragile sicurezza interna e potrebbe compromettere il delicato processo di pacificazione del Paese, lacerato dalle violente guerriglie separatiste islamiche da oltre trent’anni.

Iraq

Dopo aver preso Mosul e Tikrit, prosegue, in questi giorni, l’avanzata dello Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (ISIS) nelle province di Salahaddin e Diyala. ISIS si è assicurata il controllo della città di Mansouriyat al-Jabal, dove è in funzione uno stabilimento di estrazione petrolifera, ed è attualmente impegnato nella conquista del sito di Baiji, sede della principale raffineria del Paese.

Inoltre, i miliziani dell’organizzazione avrebbero occupato alcuni valichi di frontiera con la Giordania, nei pressi di Tarbil, e con la Siria, ad Al-Walid, sebbene sia tuttora in corso la controffensiva dell’esercito iracheno per riconquistare le aree occupate. Resta saldamente in mano ad ISIS, invece, il posto di frontiera occidentale di Al Qaim, nei pressi del quale, sul versante siriano, è forte la presenza dei miliziani di Al Nusrah. Proprio ad Al Qaim, martedì scorso, si è registrato un raid da parte di alcuni caccia dell’aviazione siriana, operazione svoltasi in accordo col governo di Maliki e nell’apparente indifferenza di Washington.

Il Premier, in un recente discorso televisivo alla Nazione, ha escluso la possibilità di formare un governo di unità nazionale, soluzione che era stata avanzata da più parti, definendo tale prospettiva un tradimento della volontà elettorale del popolo iracheno. Questa posizione appare, tuttavia, in forte contrasto con le crescenti richieste di una parte dell’universo sciita iracheno, il quale invoca un atto di responsabilità da parte di Maliki, alla ricerca di soluzioni politiche diverse, che possano raccogliere consensi anche nella minoranza sunnita del Paese.

Lo scenario politico, mai come in questo occasione, sembra dover andare di pari passo rispetto alle necessarie misure in ambito militare. La situazione di grave debolezza dell’Esercito iracheno e la prepotente avanzata di ISIS sono elementi che rendono difficile immaginare come la sola, eventuale svolta politica, con la creazione di un governo di coalizione e l’esclusione di Maliki, possa contribuire a rovesciare l’inerzia sul campo di battaglia. In questo senso, risulteranno determinanti le decisioni del Presidente Obama, in merito alla possibilità di garantire il sostegno aereo statunitense alle truppe irachene impegnate nei combattimenti.

Libano

Nella notte di lunedì 23 giugno, un’autobomba è esplosa a Beirut, in un quartiere a maggioranza sciita situato nell’area sud della città. Il veicolo, lanciato ad alta velocità contro un checkpoint presidiato dalla Forze di sicurezza libanesi, ha provocato il ferimento di 19 persone.

Solo pochi giorni prima, a Dahr al-Baidar, nei pressi di un posto di blocco libanese sull’autostrada Beirut-Damasco, un altro attacco suicida ha causato un morto tra gli agenti di polizia. Il responsabile delle forze di sicurezza libanese, il Generale Abbas Ibrahim, probabile obiettivo degli attentatori, è rimasto illeso. Anche se non rivendicati, i due l’attentati potrebbero essere stati opera delle brigate Abdullah Azzam, movimento sunnita attivo anche in Cisgiordania.

Il fatto che l’attentato sia avvenuto a Beirut, in un quartiere roccaforte di Amal, movimento sciita alleato di Hezbollah e sostenitore del regime di Assad, potrebbe far temere una ripresa degli attacchi da parte dei gruppi salafiti attivi in Libano. Il peggioramento della situazione di sicurezza in Libano è direttamente connesso agli sviluppi della crisi siriana. Infatti, i gruppi terroristici locali, in contatto con il network jihadista siriano, potrebbero essere utilizzati per colpire “in casa” le formazioni sciite impegnate nel supporto all’Esercito di Assad.

Taiwan

Giovedì 26 giugno, il responsabile dell’ufficio per gli affari taiwanesi del governo cinese, Zhang Zhijun, è sbarcato a Taipei e, nell’ambito di una visita ufficiale di quattro giorni, ha incontrato il suo equivalente a Taiwan, Wang Yu-chi. L’incontro fa seguito al primo round di colloqui tenutosi lo scorso febbraio a Nanjing, quando il rappresentante taiwanese aveva accolto l’invito del governo cinese, ponendo fine a 65 anni di rapporti tesi tra la Repubblica Popolare Cinese (PRC) e la Repubblica di Cina (RoC).

Il percorso di riavvicinamento tra Cina e Taiwan, lentamente avviato sin dal 2008 sotto la presidenza taiwanese di Ma Ying Jeou, potrebbe essere approdato ad una fase decisiva, a cominciare dalla definizione di stabili relazioni commerciali. Nel corso degli ultimi anni, infatti, lo scopo principale dei rappresentanti dei rispettivi Paesi è stato orientato verso una progressiva intensificazione dei commerci che, nel 2014, hanno raggiunto un valore pari a 197 miliardi di dollari.

Il secondo meeting ufficiale tra Cina e Taiwan deve misurarsi, tuttavia, anche con l’ostilità di buona parte dell’opinione pubblica taiwanese, da sempre molto sensibile al tema dei rapporti con la Pechino. Le manifestazioni di protesta popolare verificatesi lunedì scorso dinanzi alla sede del Ministero per gli affari cinesi di Taipei denotano come l’evoluzione dei rapporti sino-taiwanesi, anche se sostenuta dagli ambienti imprenditoriali, deve confrontarsi con la tradizionale ostilità della popolazione locale, particolarmente attaccata all’indipendenza del piccolo Stato del sud est asiatico.

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