Asia e Pacifico

State building e affidabilità delle forze armate: due sfide per l’Afghanistan post-2014

Di Francesca Manenti
25.06.2013

L’avvicinarsi del termine della missione internazionale in Afghanistan e il conseguente ritiro delle truppe statunitensi e di quelle NATO della International Security Assistance Force (ISAF) entro il 2014, porterà l’Afghanistan a dover fronteggiare una grande incertezza sia politica che militare. La stabilità del Paese al termine del processo di transizione – Inteqal in Farsi, annunciato al summit NATO di Lisbona nel novembre 2010 – rappresenta la grande incognita per la comunità internazionale, che guarda con preoccupazione ad un processo di state building di fondamentale importanza per le condizioni di sicurezza nel futuro assetto dello Stato, ma i cui caratteri rimangono tuttora molto incerti.

Un appuntamento fondamentale di questo cammino verso la stabilizzazione sarà rappresentato dalle elezioni presidenziali previste il prossimo 5 aprile, in vista delle quali, tuttavia, non è ancora stata identificata una figura carismatica in grado di prendere le redini del Paese in un anno cruciale come il 2014. L’attuale Presidente, Hamid Karzai, non potrà, infatti, ripresentare la propria candidatura, per sopraggiunto limite costituzionale – due mandati. Nominato nel 2002 alla guida del Paese dalla Loya Jirga dopo la destituzione dei talebani e successivamente eletto a furor di popolo nel 2004, Karzai è stato confermato alla presidenza dai risultati contestati delle elezioni del 2009, e terminerà, di conseguenza, il suo secondo mandato il prossimo anno. Benché abbia più volte dichiarato l’intenzione di ritirarsi a vita privata, si pensa che in realtà stia cercando un modo per preservare il proprio lascito politico attraverso la candidatura di un uomo di fiducia, che sia in grado di garantire a lui stesso ed ai suoi familiari una discreta influenza anche nell’Afghanistan post-2014. Con il processo di riforma della legge elettorale, tuttora in corso, le forze di opposizione stanno cercando di garantire una maggior trasparenza rispetto al passato e scongiurare così qualsiasi manipolazione dei risultati in favore del Presidente – Karzai ha abolito la Electoral Complaints Commission (ECC), autorità preposta alla supervisione dei risultati e ha modificato la composizione dell’Indipendent Election Commission (IEC), sostituendo il presidente con un proprio alleato e allontanando gli stranieri dal panel.

Un eventuale endorsement da parte di Karzai potrebbe ricadere su tre membri dell’attuale classe politica: Omar Daudzai, Ambasciatore in Pakistan, Karim Khoram, capo dello staff del Presidente, e Farouk Wardak, attuale Ministro dell’Istruzione. Si tratterebbe di candidati facenti parte del partito Hezb-e-Islami Afghanistan (HIA), la frangia politica del gruppo islamista di matrice radicale, Hezb-e-Islami Gulbuddin (HIG), fondato dal warlord Hekmatyar negli anni ’70 e, dal 2001, uno dei tre principali segmenti dell’insurrezione. Nonostante HIG abbia preso parte all’”offensiva di primavera”, rivendicando l’attentato suicida a Kabul dello scorso 16 maggio, di fatto non è mai stata stretta una vera e propria alleanza con i gruppi talebani. Al contrario, i rapporti tra di loro, già a partire dagli anni '90, sono stati piuttosto controversi: traditi i leader mujahideen per il controllo di Kabul nel '92, Hekmatyar, in seguito all’assedio della città da parte dei talebani quattro anni dopo, è stato costretto a lasciare il Paese e a rifugiarsi in Iran. Nonostante la ritrovata comunità di intenti suggellata dall’inizio della missione statunitense nel Paese, i combattenti dei due gruppi sono arrivati più volte allo scontro armato a causa delle tensioni per il controllo del territorio e la raccolta delle tasse, nel nord del Paese (in particolare nelle province di Baghlan e Kunduz).

L’endorsement di Karzai per la candidatura di un membro del HIA, sembrerebbe plausibile soprattutto nell’ottica dei tentativi di dialogo con i diversi gruppi dell’insorgenza per l’effettiva realizzazione di un nuovo equilibrio all’interno del Paese. Nonostante nel 2003 il governo statunitense abbia indicato Hekmatyar tra gli “specially designated global terrorist”, il partito che a lui fa riferimento è considerato un interlocutore plausibile per tentare una riconciliazione tra Kabul e il braccio armato HIG. Alcuni membri del gruppo, infatti, avevano preso parte alla Afghanistan National Consultative Peace Jirga (NCPJ), l’assemblea generale tenutasi nel giugno 2010 per cercare una soluzione condivisa al conflitto. In passato, inoltre, diverse sono state le occasioni di contatto tra il governo ed esponenti di HIA, che hanno favorito l’avvicinamento degli ex militanti al dibattito politico – l’ultimo di questi incontri si è tenuto lo scorso dicembre nella città francese di Chantilly.

Se fosse confermata, la scelta di Karzai potrebbe rappresentare, invece, una mano tesa al governo pakistano, interlocutore esterno ma, in quanto luogo di rifugio per i militanti dell’insorgenza e i loro leader, indispensabile per cercare di arginare l’azione dell’insorgenza. Hekmatyar e il suo gruppo, infatti, sono sempre stati considerati vicini al governo di Islamabad e all’Inter-Service Intelligence Directorate (ISI), il principale servizio d’informazione pakistano. Inoltre, rimangono dubbi sull’efficacia che un Presidente vicino a HIG potrebbe avere nel dialogo con le forze politiche dell’Alleanza del Nord, enclave di warlord di etnia tajika, uzbeka e hazara, avversa al gruppo di Hekmatyar, leader pashtun, per i citati rancori legati ancora alla guerra civile del 1992.

I partiti d’opposizione (tra cui l’Afghan Social Democratic Party, il Right and Justice Party, e le due coalizioni dell’Afghanistan National Coalition e Afghanistan National Front), da parte loro, si starebbero concentrando su un candidato di consenso nazionale da presentare alle prossime presidenziali, e sembrerebbero aver trovato un accordo sul nome di Abdul Haq Ahadi, attuale Ministro dello Sviluppo economico: di etnia pashtun, ma di formazione statunitense, Ahadi potrebbe rappresenterebbe una figura di mediazione credibile nel processo di riconciliazione, ma meno accondiscendente nel dialogo con il vicino Pakistan, e per questo potrebbe essere gradito alle diverse forze tribali ed etniche che compongono il complesso tessuto sociale afghano.

Infatti, la stabilità politica del futuro governo non potrà prescindere dal rispetto dei tradizionali equilibri etno-tribali e dai rapporti con i diversi signori della guerra e leader locali che rappresentano degli importanti interlocutori per la gestione capillare del territorio.

L’incertezza politica legata al futuro dell’Afghanistan non si esaurisce in un problema di leadership, ma riguarda anche l’effettiva governabilità del Paese dopo le elezioni. Il prevalere dell’importanza data ai rapporti tribali rispetto al riconoscimento della legittimità delle istituzioni è endemica al sistema afghano e rappresenta una grande sfida per la stabilizzazione dello Stato. Il processo di state building, infatti, risulta rallentato proprio dalla tradizionale debolezza del governo centrale e dalla mancanza di coordinamento tra esso e i centri di potere periferici, quali capi villaggio e leader tribali, da sempre veri punti di riferimento per la popolazione. Per poter conseguire un’effettiva stabilità del Paese, il governo di Kabul non può quindi prescindere dalla cooptazione dei poteri locali, da realizzarsi, per esempio, attraverso l’attenuazione del forte presidenzialismo attualmente vigente, in favore di un sistema parlamentare maggiormente rappresentativo.

L’incapacità di farsi riconoscere come autorità legittima, inoltre, ha portato inevitabilmente il governo a doversi rapportare con warlord e poteri locali che non sempre condividono l’agenda politica di Kabul e che operano in un tessuto di corruzione ormai endemico al sistema stesso e di cui rappresenta in un certo senso l’ossatura. Secondo il rapporto elaborato dallo United Nations Office on Drugs and Crime (UNODC) in collaborazione con il governo afghano, nel 2012 il costo totale per lo Stato generato dalla corruzione è stato di 3,9 miliardi di dollari, pari a circa il doppio del valore del PIL. Al momento esistono in Afghanistan istituzioni preposte ad un loro monitoraggio – lo High Office of Oversight and Anti- Corruption (HOOAC) e l’Attorney General’s Office (AGO) – che non trovano però il sostegno della classe politica nell’implementare la costituzione di un effettivo stato di diritto.

L’effettiva governabilità dell’Afghanistan post-2014, inoltre, è inevitabilmente legata alla capacità delle Forze Armate afghane di farsi garanti della sicurezza a livello nazionale. Obiettivo strategico del processo di transizione, infatti, è il passaggio di consegne tra le truppe NATO di ISAF e le Afghan National Security Forces (ANSF) per la gestione della sicurezza su tutto il territorio nazionale. Iniziato nel marzo 2011, il processo di Inteqal è entrato nella sua quinta ed ultima tranche lo scorso 18 giugno, al termine della quale l‘ANSF assumerà il controllo in tutte le 35 province del Paese – appartengono a questa quinta fase alcuni distretti della province di Helmand, Kandahar, Zabul, Paktika, Khost, Paktya, Logar, Nangarhar, Kunar e Nuristan, la maggior parte dei quali si trovano al confine con il Pakistan. L’addestramento delle Forze afghane è stata realizzata dalla NATO Training Mission-Afghanistan (NTM-A) attraverso programmi di addestramento, mentorizzazione e supporto, condotti congiuntamente dalle truppe NATO e statunitensi, quali i Military Advisory Teams (MAT) e i Police Advisory Teams (PAT), predisposti rispettivamente all’addestramento dell’Afghan National Army (ANA) e dell’Afghan National Police (ANP). MAT e PAT sono formati da una componete di advisor, che devono valutare l’affidabilità e l’efficacia dei reparti di ANA e ANP e cercare di indirizzarne la condotta, stabilendo con essi delle relazioni di fiducia; e da una Force Protection (FP) che deve garantire la sicurezza delle attività.

Il ruolo di assistenza delle truppe ISAF si realizza sia come fornitura di tecnologia sia come attività di addestramento tecnico e di supporto operativo ai partner nazionali, grazie alla supervisione dell’ISAF Joint Command (IJC) e alla fornitura di “enabling capabilities” (strumenti di intelligence e di sorveglianza, supporto logistico ed ingegneristico, MEDEVAC e CAS), per agevolare le operazioni delle ANSF sul territorio.

Il successo delle missioni di training è confermato dall’alto livello di autonomia con cui le Forze afghane operano nei contesti combat e cercano di gestire il coordinamento dei vari Corpi ad esse afferenti. A tal proposito, sono stati istituiti gli Operational Coordination Center (OCC), strutture di coordinamento - costituite da membri dell’Afghan National Army, Afghan Local Police, Afghan Uniformed Police, Afghan Border Police, Afghan National Civil Order Police, e del National Directorate of Security - per regolare l’integrazione delle attività di sicurezza, sia a livello provinciale (OCC-P) sia a livello regionale (OCC-R). Di importanza strategica è, per esempio, il OCC-R afferente ai quartier generali del 201° Corpo dell’ANA, presso la FOB Gamberi, nella provincia di Laghman, responsabile per il coordinamento delle operazioni all’interno di un territorio che si estende da Kabul al confine con il Pakistan (nelle province di Parwan, Panjshir, Kapisa, Laghman, Nuristan, Kunar e Nangarhar).

Nonostante i progressi compiuti dalle ANSF, rimangono timori sull’effettiva stabilità del Paese dopo il ritiro definitivo delle Forze internazionali. La minaccia maggiore per la sicurezza è rappresentata dagli attacchi dei militanti dell’insorgenza, diretti in misura sempre minore contro le truppe di ISAF e che continuano, invece, a colpire gli uomini di ANA e ANP, con il risultato di insinuare un senso di insicurezza tra le Forze afghane. Per scongiurare un deterioramento dell’operatività delle ANSF, e conseguentemente delle condizioni di sicurezza nel Paese, sembra ormai sempre più plausibile che Stati Uniti e Paesi alleati decidano di lasciare in Afghanistan una Forza residua anche dopo il completamento del processo di transizione. Già nel maggio 2012 il Presidente Obama e il Presidente Karzai hanno firmato lo Strategic Partnership Agreement (SPA), con il quale gli Stati Uniti si sono impegnati a fornire assistenza militare a Kabul per un arco di dieci anni. La consistenza e lo status giuridico che questi contingenti avranno non è ancora stata stabilita, in quanto vincolata alla firma del Bilateral Security Agreement (BSA), il documento che dovrebbe disciplinare la presenza statunitense in Afghanistan dopo il 2014. Nonostante lo scorso maggio Karzai avesse paventato la possibilità che Washington mantenesse nove basi sul territorio nazionale in cambio di garanzie economiche e di sicurezza, i colloqui sono stati però al momento interrotti. Il Presidente afghano, infatti, ha deciso di congelare le trattative lo scorso 18 giugno, in seguito alla dichiarata disponibilità da parte degli Stati Uniti di iniziare un dialogo pubblico con i talebani presso la loro sede di Doha, benché Kabul avesse preso le distanze dall’iniziativa.

L’impasse venutosi a creare con il governo di Kabul rallenta, di fatto, anche la definizione della futura presenza internazionale nel Paese. Annunciata al termine del vertice NATO dei Ministri della Difesa all’inizio di giugno, la “Resolute Support Mission”, dovrebbe essere un missione non combat, finalizzata a portare avanti l’addestramento e l’assistenza delle Forze di Sicurezza afgane, a partire dal 2015, ed operare su base regionale attraverso l’istituzione di cinque comandi militari affidati rispettivamente a: Stati Uniti nell’area meridionale ed orientale; Italia ad ovest; Germania a nord e Turchia nella regione di Kabul. Sono infatti questi i Paesi che, al momento, hanno dichiarato la propria disponibilità a partecipare alla missione. Resta tuttavia da valutare quale sarò l’impegno degli altri Paesi europei, Gran Bretagna in primis, che aveva già contingentato una presenza ad Helmand fino al 2018. Come dichiarato dal Segretario Generale Rasmussen, non sarà però possibile implementare la missione senza un accordo normativo con il governo afghano.

Il sostegno di cui le ANSF avranno bisogno al termine del processo di transizione non sarà solo operativo, ma soprattutto finanziario, avendo il governo di Kabul più volte espresso l’impossibilità per le casse afghane di sostenere un apparato di sicurezza efficiente senza l’aiuto internazionale. Durante il Summit di Chicago del maggio 2012 è stato stimato che il costo complessivo per le ANSF- che dovrebbe constare di 352.000 effettivi - si dovrebbe attestare intorno ai 4,1 miliardi di dollari l’anno. Di questi gli Stati Uniti dovrebbero fornire circa 2.3 miliardi mentre i Paesi alleati dovrebbero contribuire, complessivamente, con circa 1.3 miliardi di dollari. Attualmente solo Germania, Gran Bretagna e Australia hanno dichiarato la quota con cui parteciperebbero al finanziamento – rispettivamente 190 milioni, 110 milioni e 100 milioni di dollari l’anno; anche Italia, Danimarca, Estonia e Paesi Bassi hanno confermato il proprio impegno, senza specificare però l’ammontare del contributo. Il governo afghano, da parte sua, dovrebbe impegnarsi a stanziare annualmente 500 milioni, incrementando progressivamente il proprio impegno, fino a raggiungere l’autosufficienza entro il 2024.

A pochi mesi dal definitivo rientro dei contingenti combat, l’impegno dell’Occidente nel teatro afghano sembra essere ancora fortemente indispensabile. Nonostante i progressi registrati nell’operatività delle ANSF e i tentativi della classe politica di trovare dei nuovi equilibri in vista delle elezioni presidenziali del prossimo aprile, permane ancora una grande incertezza riguardo alla futura stabilità dell’Afghanistan. In un anno cruciale come il 2014 il definitivo straniamento della comunità internazionale potrebbe, di fatto, comportare un passo indietro per le condizioni di sicurezza del Paese che, per la prima volta dal ritiro sovietico del 1989, si troverà a dover gestire in autonomia le complicate dinamiche del proprio contesto nazionale.

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