Asia e Pacifico

La politica estera dell’attuale leadership cinese

Di Sabella Festa Campanile
13.06.2013

La Cina ereditata dalla quinta generazione di leader è una nazione che vanta il più alto tasso di crescita delle ultime tre decadi. Grazie al processo di “reform and openness” iniziato a fine anni ‘70 da Deng Xiaoping, responsabile di una rivoluzione economica e sociale di gran lunga maggiore della Rivoluzione Culturale di Mao, il Dragone si classifica come seconda economia al mondo, immediatamente dopo gli Stati Uniti, e tra i primi partner commerciali di questi ultimi.

Grazie al boom dell’export e al continuo flusso di capitali stranieri la Cina possiede le maggiori riserve di valuta estera al mondo. Il processo di urbanizzazione, anche questo cominciato con Deng, ha portato nelle città più del 50% della popolazione e, secondo quanto sostiene Elizabeth Economy, esperta di Cina, la percentuale salirà al settanta entro il 2030. Tempi di sviluppo così ristretti e obiettivi economici raggiunti in così poco tempo non hanno precedenti nella storia moderna. La Repubblica Popolare è passata in pochi decenni da paese in via di sviluppo a seconda economia mondiale e, nonostante l’enorme e crescente gap che sussiste tra ricchi e poveri, sono centinaia di milioni i cittadini usciti da condizioni d’indigenza e povertà. E se, come spesso capita, al successo economico segue un commensurato potere politico e militare, lo sviluppo della Cina è destinato ad avere un ruolo determinante nell’architettura del futuro ordine globale. La regione del Pacifico, abituata a un’indiscussa presenza statunitense, percepisce la tensione derivante dalla convivenza tra le due potenze.

Gli Stati Uniti, dal canto loro, sono chiamati ad amministrare una relazione deteriorata negli ultimi anni, che chiede maggiore equità e afferma la necessità di “un nuovo tipo di legame tra le due super potenze”. La nuova leadership cinese, secondo quanto afferma Cui Tiankai, neo ambasciatore della Cina sul suolo americano, deve gestire una transizione nel rapporto con gli Stati Uniti, che deve essere basata sul rispetto reciproco oltre che su vicendevoli benefici.

L’adesione della nazione alle maggiori istituzioni internazionali come Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale e Nazioni Unite, di cui è uno dei cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, dimostra la completa aderenza al sistema globale e alle sue regole, ricorda l’ambasciatore. Il quale, però, non menziona le numerose polemiche rivolte alla Repubblica Popolare e le migliaia di procedure avviate contro alcune politiche economiche di quest’ultima che danneggiano gli interessi di molti altri Stati, come ad esempio protezionismo e dumping.

Ciò nonostante, secondo l’ambasciatore Tiankai, la nuova leadership mira a una maggiore integrazione del Dragone nella comunità internazionale e alla possibilità di discutere dei temi che riguardano la finanza e l’economia nelle vesti di “eguali” con le restanti potenze e, in particolar modo, con gli Stati Uniti. Atteggiamento piuttosto controverso considerata la strategia di approccio adottata dalla nazione, cui non sempre preme considerarsi alla pari, come dimostra la partecipazione ai WTO Trade Rounds nelle vesti di paese in via di sviluppo.

Secondo gli esperti, il “Pivot” dell’amministrazione Obama verso l’Asia sarebbe una risposta alla sempre più pressante assertività della Cina nello scenario regionale, che mette in discussione la presenza degli Stati Uniti come potere egemone. E se Obama punta all’Asia, Xi decide di arrivare in California (in occasione del summit bilaterale), passando per Messico, Costa Rica e Trinidad e Tobago, quasi un avvertimento al ri-orientamento asiatico della politica estera americana. 
Infatti, come suggerito da Henry Kissinger nel suo libro “On China” (2007), nonostante la nazione ufficialmente ribadisca di non avere problemi con il coinvolgimento dell’America nelle dinamiche regionali, in realtà il governo percepisce la presenza statunitense come un possibile ostacolo al “Chinese Dream” di rinnovamento nazionale.

Lo slogan adottato dal nuovo leader, per tenere fede alla tradizione, ben sintetizza e spiega la politica estera di Xi. Dopo che Hu aveva puntato l’obiettivo sullo sviluppo scientifico e Jiang sulla teoria delle “tre rappresentanze”, Xi s’ispira alla nozione di “sogno americano”, che sembra voler delineare una linea di confine ancora più netta tra il periodo dell’umiliazione coloniale e la Cina attuale, potenza economica mondiale. Ufficialmente mirato al “ringiovanimento” della nazione, il “Chinese Dream” risuona come un ritorno al passato e ai fasti precedenti il collasso della dinastia Qing nel 1912 che lascia il posto alla Repubblica. Ma a colpire di più non è l’immagine di revival della grandezza imperiale, quanto i potenziali riscontri in campo di politica estera e sicurezza a livello regionale e globale. Nel discorso pronunciato durante la sessione annuale del Parlamento Cinese, il presidente della Repubblica Popolare ha sottolineato la necessità di compiere uno sforzo collettivo al fine di raggiungere la realizzazione del sogno cinese e assicurare al Paese una grandiosa rinascita. Parole che non giovano alle relazioni con i paesi della regione con cui la Cina intrattiene rapporti sempre più in bilico a causa delle numerose dispute marittime. La linea dura perseguita dalla nuova leadership non accenna a cambiare e i rapporti con stati come Giappone, Filippine e Vietnam sono sempre più deteriorati. Un elemento, questo, che non giova affatto a un paese che fa della “Ascesa Pacifica” il caposaldo del proprio sviluppo. Infatti, sebbene la Cina spenda ufficialmente un decimo di ciò che gli Stati Uniti investono per la loro difesa, ciò non conforta gli stati vicini. Questi ultimi sono allarmati soprattutto dall’incredibile balzo in avanti compiuto nelle ultime due decadi dalla Marina Militare cinese, cui vengono destinati gran parte dei fondi erogati per le Forze Armate. La percezione del Dragone come una potenza la cui crescente rilevanza economica va di pari passo con una crescente aggressività, è difficile da rimuovere.

Secondo molti, infatti, la nuova dirigenza adotterà un approccio più interventista in campo di politiche di sicurezza nazionale rispetto alla precedente e alcune dichiarazioni pubbliche del neo leader non fanno sperare altrimenti. Ma è ancora presto per fare previsioni sul futuro. Sicuramente l’interesse primario del governo è quello di mantenere la stabilità nella regione al fine di continuare la strada dello sviluppo e perseguire i propri interessi economici. Mentre, nell’ambito della partnership con gli statunitensi, sembra che la nazione ambisca a un ruolo più paritario, indispensabile vista la performance economica della Cina a livello globale e l’importanza della relazione economica bilaterale con Washington. Nonostante le chiare ambizioni di egemonia regionale, però, Pechino rimane ancora lontana, specie in termini strategico-militari, dal colmare il gap con gli USA.

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