Kuwait: la riforma elettorale dietro la crisi politica
Medio Oriente e Nord Africa

Kuwait: la riforma elettorale dietro la crisi politica

Di Giulia Tarozzi
22.10.2012

L’Emiro del Kuwait, Sabah al-Ahmad al-Jaber al-Sabah, ha sciolto il Parlamento il sette ottobre scorso, sebbene l’ipotesi circolasse già da alcune settimane. Due elezioni in meno di un anno non sono che l’ultimo preoccupante segnale d’allarme di uno Stato in profonda crisi politica, stretto tra la corruzione dilagante dei deputati filogovernativi e le proteste dell’opposizione islamista.

Alle elezioni tenutesi nel febbraio 2012 il blocco politico al-Harakat al-Dusturiyya al-Islamiyya, ha guadagnato la maggioranza dei seggi a scapito della compagine filo-governativa, composta soprattutto da candidati laici e che tra le proprie fila ha presentato anche un discreto numero di candidate donne, che dal 2006 possono votare ed essere elette. Per porre un freno all’eclatante risultato ottenuto dalle opposizioni, l’Emiro ha nominato come Primo Ministro nuovamente Jaber al-Mubarak al-Hamad al-Sabah, già in carica dal dicembre del 2011 e in precedenza Ministro della Difesa dal 2007, nel tentativo di contenere il successo politico delle forze islamiste, cui sono andati solo quattro ministeri.

Quest’affermazione politica è sì arrivata in un clima di rivalsa da parte delle compagini islamiste in tutta la regione mediorientale, con i casi esempio di Tunisia ed Egitto, ma è stata, soprattutto, determinata dalla perdita di fiducia da parte della popolazione verso il Governo, nell’occhio del ciclone per il fenomeno endemico della corruzione, fattore che nel dicembre 2011 aveva portato al suo scioglimento. Il giubilo per la vittoria elettorale è però durato ben poco. A metà giugno, infatti, la Corte Costituzionale del Kuwait ha accolto il ricorso, presentato dal precedente Governo, definendo incostituzionale lo scioglimento del Parlamento e le conseguenti elezioni del 2012. La Corte ha quindi proceduto allo scioglimento della neoeletta Assemblea Nazionale e al reintegro del precedente assetto parlamentare pro-governativo.

È in questo quadro altamente instabile che si è aperta la difficile ed annosa questione della riforma elettorale. Il Kuwait è uno dei sistemi istituzionali più aperti del Golfo, anche se l’ultima parola sulle questioni politiche spetta sempre all’Emiro e i partiti sono tutt’oggi considerati illegali. L’opposizione, che da tempo lotta per una legge che renda più trasparente ed equo il processo elettorale, ha tirato un sospiro di sollievo a fine settembre 2012 quando la stessa Corte Costituzionale, che aveva dichiarato illegittimo il nuovo Parlamento, ha invece respinto la proposta di revisione elettorale portata avanti dal Governo, volta a mantenere gli attuali equilibri di potere.

La modifica della legge elettorale è desiderata e al contempo temuta da molti. Se da un lato sono varie le correnti che riterrebbero opportuno un sistema più aperto e democratico, dall’altro ci si rende conto che ciò comporterebbe una modifica alla Costituzione, un precedente pericoloso in grado di aprire il “vaso di Pandora” delle revisioni costituzionali. Tale precedente, infatti, potrebbe essere usato, ad esempio, dall’organizzazione islamista Islamic Constitutional Movement (Hadas) per chiedere di emendare l’articolo 2 e imporre come unica fonte del diritto la Sharia; altre fazioni dell’opposizione potrebbero invece proporre il passaggio ad una monarchia costituzionale, in cui la famiglia regnante ridurrebbe via via il proprio potere in favore di un Governo eletto democraticamente. Dunque, il rischio sentito dalle autorità di Kuwait City è quello di innescare una spirale di rivendicazioni istituzionali che potrebbe portare anche ad un incremento delle manifestazioni popolari di protesta. Gli avvenimenti dello scorso 16 ottobre, quando circa 5.000 persone sono scene in piazza nella capitale per protestare contro l’Emiro accusato di portare il Paese verso l’assolutismo, sono a dimostrarlo.

Queste dinamiche politiche hanno delle inevitabili ripercussioni sullo stato economico del Paese, paralizzato quanto a sviluppo e crescita economica. Infatti, l’impasse politica sta bloccando il piano economico quadriennale (2010-2014) che prevede l’investimento di 107 miliardi di dollari nello sviluppo delle infrastrutture e nell’industria petrolifera. Il tema economico è di fondamentale importanza per uno Stato che basa gli alti standard di vita della popolazione, che per questo non è mai arrivata al punto di rottura nelle proteste contro il sistema, quasi unicamente sulle rendite derivanti dal petrolio. Nonostante la crisi finanziaria globale, il prezzo del greggio, in media sui 90 dollari al barile, ha permesso all’emirato una crescita economica del 4,4 per cento nel 2011; ciò, però, non appare nemmeno lontanamente sufficiente per bilanciare quella che è una spesa pubblica in costante aumento. In Kuwait, infatti, il 93 per cento della popolazione è impiegato nel settore statale e la politica di kuwaitizzazione dell’economia, che cerca d’inserire i propri cittadini anche all’interno del settore privato, non sta dando i frutti sperati. I benefit e i salari percepiti nel settore pubblico sono ancora superiori e il costante bisogno di manodopera non ha permesso di porre reali freni all’entrata di stranieri nel mercato del lavoro kuwaitiano. A ciò va aggiunto che i progetti infrastrutturali e la vendita di asset statali, pensati per rinvigorire il settore privato, stentano a progredire proprio a causa delle continue diatribe tra Governo e Parlamento.

Ultimo tassello del complicato puzzle politico-economico-sociale del Paese è la questione delle tribù beduine, una minoranza priva di cittadinanza e di qualunque forma di sostegno da parte dello Stato. Durante le rivolte del 2011 a migliaia sono scesi in strada chiedendo a gran voce cittadinanza e diritti fondamentali (quali lavoro e cure mediche) e il mantenimento delle promesse fatte per anni dal Governo. Le autorità, che accusano i beduini di non essere kuwaitiani, ma stranieri che hanno bruciato i propri passaporti per ottenere i benefici offerti dal sistema statale, han risposto arrestando centinaia di manifestanti e, ancora una volta, rinviando la soluzione del problema ad un momento politico più stabile. Oggi l’ulteriore crisi di governo e il deterioramento delle condizioni economiche gravano soprattutto sugli strati più poveri della società e vi sono i presupposti per lo scoppio di nuove intense rivolte.

La situazione del piccolo emirato è dunque precaria: l’opposizione teme una modifica alla legge elettorale che impedisca loro di replicare il successo di febbraio, la crisi politica ha messo in stallo lo sviluppo economico del Paese e le rendite petrolifere non possono continuare ad essere l’unico motore dell’economia. In tutto questo l’Emiro ha sciolto il Parlamento, accusato di malaffare, ma questa mossa può avere in seno un effetto boomerang per l’Emiro poiché le opposizioni potrebbero cogliere tale scelta per amplificare il risentimento popolare contro le autorità e spingere ancora di più verso la richiesta di una riforma istituzionale che porti verso la tanto discussa monarchia costituzionale.

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